Tratto da Prospettive assistenziali 154, 2006
PER UNA CORRETTA DEFINIZIONE
DEL RUOLO DEL SETTORE SOCIO-ASSISTENZIALE
MAURO PERINO *
Il vincolo
delle risorse e i diritti esigibili
Il decreto legislativo
31 marzo 1998, n. 112 definisce i «servizi
sociali» come il complesso delle «attività
relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a
pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le
situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso
della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e
da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della
giustizia».[1]
L’individuazione del
beneficiario nella “persona umana” in situazione di bisogno e di difficoltà è
evidentemente impegnativa perché implica che il «sistema integrato di interventi e servizi sociali» – che
In effetti,
nell’articolo 2 della legge 8 novembre 2000, n. 328 si proclama l’universalità
del sistema anche se – nell’individuazione degli “aventi diritto” – il termine
“persona” non compare e si recupera quello di “cittadino”.
Secondo l’articolo
citato «hanno diritto ad usufruire delle
prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali
i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, con le
modalità e nei limiti delle leggi regionali, anche i cittadini di Stati
appartenenti all’Unione europea ed i loro familiari, nonché gli stranieri,
individuati ai sensi dell’articolo 41 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Ai profughi, agli
stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima assistenza, di cui
all’articolo 129, comma 1, lettera h) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
112».
Purtroppo – come si è
avuto modo di osservare – la legge non prevede alcuna reale esigibilità di tale
diritto in quanto nell’articolo 1, comma 3 della stessa si afferma che «la programmazione e l’organizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali,
alle regioni ed allo Stato ai sensi del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
112, e della presente legge, secondo principi di sussidiarietà, cooperazione,
efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e
patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia
organizzativa e regolamentare degli enti locali».
In buona sostanza il
diritto a beneficiare del sistema integrato è esplicitamente subordinato alle
risorse disponibili e quindi – come tale – «è
semplicemente un non diritto» in quanto «un
diritto soggettivo si differenzia dal semplice interesse o dalla semplice
aspettativa per il fatto di essere esigibile, cioè per l’esistenza
nell’ordinamento dei mezzi che ne garantiscono l’attuazione».[3]
Proprio perché il
vincolo delle risorse è un fatto reale, del quale è indispensabile tenere
conto, sarebbe stato più utile che l’attenzione del legislatore si concentrasse
su quelle persone in condizione di fragilità sociale per le quali la legge di
riforma si limita a prevedere che possano “accedere prioritariamente” ai servizi
e alle prestazioni erogate dal sistema integrato di interventi e servizi
sociali.
Ai «soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con
incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità
di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale
attiva e nel mercato del lavoro» ed ai «soggetti
sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari
interventi assistenziali»[4] non
basta però assicurare che «non verranno
esclusi» e che «non saranno
ostacolati da barriere informative,
culturali o fisiche nell’accesso ai servizi»[5]. Ad
essi va riconosciuto il diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale
previsto dall’articolo 38, comma 1 della Costituzione.
Avendo chiara nozione
che «non esistono diritti che “non
costano”: la tutela dei diritti più classici (dalla proprietà, alle libertà
individuali) ha determinato nei secoli, senza obiezioni di carattere economico,
la predisposizione di apparati costosissimi (i più costosi, comparativamente,
di ogni Stato), che vanno dalla polizia, alla magistratura, alle prigioni e via
seguitando. La questione non è, dunque, l’esistenza delle risorse ma la loro
dislocazione che, per la soglia minima di ogni servizio costituzionalmente
previsto, è vincolata (mentre è sul di più – e sul come – che si esercita la
discrezionalità politica)»[6].
Il diritto
all’assistenza sociale non può avere carattere di universalità
La questione che si pone
è dunque di definire in modo puntuale il rapporto che deve intercorrere tra
diritti esigibili dai più deboli ed opportunità da offrire alla cittadinanza in
generale. Ciò consente di operare in maniera correttamente selettiva anche sul
piano dell’allocazione delle risorse: agli interventi ed ai servizi destinati
alle persone che necessitano di assistenza sociale vanno assegnate le risorse
(finanziarie, umane e strumentali) necessarie. Al resto dei potenziali fruitori
è destinato “il di più”.
La cosa non deve scandalizzare
perché il diritto all’assistenza sociale ha caratteristiche diverse dal
complesso dei diritti che afferiscono alla “sicurezza sociale”. Il primo deve
avere carattere selettivo, gli altri – il diritto alla salute, il diritto al
lavoro ed il diritto all’istruzione – devono essere obbligatoriamente rivolti a
tutta la cittadinanza.
Come ben chiariva il decreto
del Presidente della Repubblica 616/1977 «le
funzioni amministrative relative alla “beneficenza pubblica” concernono, nel
quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di servizi,
gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in
natura, a favore di singoli o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al
quale sono individuati i destinatari, anche quando si tratti di forme di
assistenza a categorie determinate, escluse soltanto le funzioni relative alle
prestazioni economiche di natura previdenziale»[7].
L’articolo 23 del
decreto forniva inoltre ulteriori specificazioni individuando alcune attività –
comprese tra le funzioni indicate nell’articolo 22 – rivolte a ben precise
“categorie” di cittadini: assistenza economica in favore delle famiglie
bisognose dei detenuti e delle vittime del delitto; assistenza post
penitenziaria (ex detenuti); interventi in favore di minorenni soggetti a
provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza
amministrativa e civile; interventi di protezione sociale di cui agli articoli
8 e seguenti della legge n. 75/1958 (assistenza e rieducazione delle donne
uscenti dalle case di prostituzione).
Ciò che appare evidente
è che i servizi socio-assistenziali – oggi impropriamente definiti servizi
sociali – rappresentano un “sotto insieme” del complesso dei servizi preposti
ad assicurare l’effettività dei diritti afferenti al sistema di sicurezza
sociale. Si tratta dunque di servizi che hanno una specificità che deve essere
preservata, pena la lesione dei diritti dei più deboli perpetuata attraverso la
strumentalizzazione di concetti importanti quali – ad esempio – la prevenzione
del bisogno assistenziale, la non discriminazione, la connessione tra
condizione sociale e stato di salute.
La
prevenzione del bisogno assistenziale e la non discriminazione
Se si
considera la casistica che dà luogo alla necessità di assistenza, risulta
chiaramente che «una prevenzione reale si
realizza solo attraverso concrete riforme che assicurino il lavoro con salari
adeguati, prevedano pensioni sufficienti, rendano disponibili a tutti i minori
i servizi prescolastici e scolastici (frequenza degli asili nido, delle scuole
materne e dell’obbligo anche agli handicappati, gravi compresi), garantiscano a
tutti una casa adeguata, forniscano idonei servizi sanitari compresi quelli
curativi e riabilitativi a tutta la popolazione e in particolare agli handicappati
ed agli anziani cronici oggi troppo spesso costretti a ricorrere agli istituti
pubblici e soprattutto a quelli privati di assistenza»[8].
In sostanza la
prevenzione si attua, oltre che con la piena occupazione, garantendo ai
cittadini di accedere al complesso dei “servizi alla persona e alla comunità”
indicati dal titolo IV del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.112 ed in
particolare a quelli preposti alla «tutela
della salute», alla «istruzione
scolastica», alla «formazione
professionale», ai «beni e attività
culturali», allo «spettacolo» ed
allo «sport».
Un discorso a parte va
fatto per i «servizi sociali»,
anch’essi compresi nel titolo IV. Come si è detto, risulta mistificante
comprendere tra i servizi sociali destinati a tutti i cittadini anche quelli
che – più propriamente – dovrebbero essere definiti assistenziali ed andrebbero
garantiti solamente a coloro che necessitano “di qualcosa in più” per evitare
l’emarginazione sociale.
Inoltre è opportuno che
si prenda atto – con riferimento alle situazioni di disagio sociale conclamato –
che i servizi socio-assistenziali hanno pochissimi strumenti per svolgere
azioni dirette ad eliminare le cause che provocano le richieste di intervento.
Al massimo possono individuare le situazioni “a rischio” e cioè tutte quelle
carenze che, se non colmate, provocano o favoriscono la richiesta di
assistenza. Da ciò consegue che la prevenzione del bisogno assistenziale non
può, con riferimento a tali situazioni, rappresentare una funzione del settore
dei servizi di assistenza sociale.
Tuttavia i servizi
socio-assistenziali – proprio perché hanno a che fare con gli effetti
dell’esclusione ed hanno la possibilità di individuarne puntualmente le cause – devono operare in senso promozionale,
nei confronti degli altri settori coinvolti nelle politiche sociali (specie
locali), per far sì che vengano introdotti i cambiamenti occorrenti per
eliminare, o almeno per ridurre, i fattori che generano difficoltà e disagio
sociale ed al fine di evitare che, agli utenti dell’assistenza, venga negato il
diritto di accedere alle risorse rese disponibili dal sistema di sicurezza
sociale nel suo complesso (casa, scuola, sanità, previdenza, ecc.).
È infatti doveroso
pretendere che gli altri servizi alla persona e alla comunità siano davvero onnicomprensivi. Infatti «se si vuole veramente una società a misura
d’uomo, di tutti gli uomini, che tenga cioè anche conto delle esigenze dei
bambini, degli anziani e degli handicappati è indispensabile che i servizi non
siano predisposti per questa o quella categoria, ma siano aperti a tutti. Di
qui anche la necessità di evitare ogni carattere selettivo»[9].
Stante la necessità di
una corretta pratica di “inclusione sociale” – che consenta alla maggioranza
degli individui di trascorrere tutta l’esistenza senza dover ricorrere alle
prestazioni dell’assistenza sociale – va tuttavia considerato che «vi è – e purtroppo vi sarà anche in futuro
– una parte degli abitanti (in via di larghissima approssimazione il 2-3% della
popolazione, e cioè da 1 milione a 1 milione e mezzo di persone) che, a causa
delle carenze del proprio nucleo familiare (minori del tutto o in parte privi
dell’indispensabile protezione parentale) o a seguito di difficoltà personali
(insufficienza mentale e altri gravi handicap, ecc.) non sono capaci, pur
utilizzando le risorse sociali (sanità, casa, scuola, ecc.) di inserirsi
autonomamente nella vita comunitaria. In questi casi, o interviene
adeguatamente l’assistenza, o le persone subiscono le deleterie conseguenze
dell’emarginazione e dell’esclusione che si ripercuotono, a volte pesantemente,
sulla loro qualità di vita»[10].
Condizioni di
emarginazione e di esclusione – quelle delle quali i servizi socio-assistenziali
sono chiamati ad occuparsi – che, secondo le acquisizioni delle scienze umane contemporanee,
sembrano essere sempre più strutturali alle forme della organizzazione sociale.
Non costituiscono cioè errori, ma sono parti costituenti di un sistema.
Per interrompere il «processo reificante che fa pagare al più
debole l’esigenza di funzionamento dell’organizzazione sociale» è dunque
necessario operare per una modificazione radicale. Modificazione che «si potrà avviare soltanto quando le
situazioni create dai fenomeni devianti siano lette in termini globali,
ricercandone le cause più profonde e verificando il senso dei rapporti esistenti;
questo implica che i “fruitori” dell’assistenza, in prima persona, siano
coinvolti nella scoperta delle cause e nella gestione dei problemi e tutta la
comunità locale si conquisti e mantenga aperto lo spazio per assumere in
proprio le contraddizioni che la dinamica sociale produce»[11].
Condizione
sociale, bisogni e centralità della persona
L’affermazione
ricorrente, secondo la quale «lo stato di
salute e la sua evoluzione nel tempo sono fortemente influenzati dalla
condizione sociale delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali» e che
– a sua volta – «la condizione sociale è
fortemente influenzata dallo stato di salute»[12], è
assolutamente condivisibile. Non bisogna però dimenticare che il concetto può
essere egualmente applicato – ad esempio – al grado di istruzione, al livello
culturale, alla collocazione lavorativa ed a quella abitativa.
Tutti i fattori che
determinano la condizione di vita di una persona hanno a che fare, in sostanza,
con la collocazione della stessa nella società e viceversa. Eppure è anche
sulla base di tale considerazione che, nell’ambito del sistema sanitario, si è
giustificata la creazione di una “area dei servizi socio-sanitari”, come
settore in qualche modo “a parte” rispetto a quello sanitario.
Se la motivazione fosse
valida dovremmo – per logica – prevedere altrettante aree per i servizi
preposti all’istruzione, al lavoro, alla casa, alla promozione culturale e
dello sport. Dovremmo cioè teorizzare una collocazione “differenziale” delle
persone nei servizi – che lo Stato sociale deve fornire “per diritto” a tutti i
cittadini – sulla base di una lettura distorta e strumentale dei loro bisogni.
Dalla constatazione che «l’evoluzione epidemiologica evidenzia la
costante crescita di situazioni complesse che esprimono un bisogno di
interventi di assistenza tanto sociale che sanitaria»[13]
(come nel caso delle patologie cronico-stabilizzate e cronico-degenerative) si
dovrebbe, invece, trarre la giusta conclusione che il sistema sanitario deve
farsi carico degli uni e degli altri, proprio perché la persona è unica e la
salute non è semplicemente una “non malattia”.
In realtà accade
esattamente il contrario: è infatti ormai dilagante una impostazione
“culturale” secondo la quale è prerogativa del servizio sanitario assicurare la
cura della malattia nelle sue fasi acute, mentre la cronicità, in tutte le sue
manifestazioni, viene espulsa dalla pienezza del diritto alla salute. In
sostanza vengono considerate “sanitarie” solamente le prestazioni “mediche” e
non il complesso degli interventi – forse complementari, ma indispensabili –
finalizzati ad assicurare la tutela complessiva del malato come persona.
Il servizio sanitario,
invece, non può che “essere sociale” se intende perseguire – nell’ambito del
sistema complessivo di sicurezza sociale – la tutela della salute. È dunque
profondamente sbagliato confondere la necessità di una integrazione delle
competenze professionali e delle relative prestazioni (sanitarie e sociali,
quando necessarie) con la delega al settore socio-assistenziale (e quindi ai
Comuni) di tutti gli interventi non strettamente medici o infermieristici.
Alla sanità è richiesto
– in sintesi – di assumere direttamente tutte le valenze umane, relazionali e
sociali nell’ambito delle attività di prevenzione, cura e riabilitazione che il
sistema sanitario è chiamato a svolgere a beneficio di tutta la popolazione,
senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che
assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti dei servizi.
Un diritto
all’eguaglianza nell’accesso alle prestazioni sanitarie ed alla continuità
delle cure che, oggi, viene pesantemente leso dal processo di emarginazione
delle persone più deboli che si è avviato all’interno del sistema sanitario utilizzando,
strumentalmente, il concetto di “integrazione socio-sanitaria” al solo fine di
ridurre la spesa.
Con il decreto Sirchia[14] che
definisce i livelli essenziali di assistenza sanitaria (confermato con forza di
legge dall’articolo 54 della Finanziaria 2003) si è infatti introdotto e
normato il principio della partecipazione alla spesa sanitaria per quanto
attiene alla cosiddetta “area dell’integrazione socio-sanitaria”. In buona
sostanza, mentre ai cittadini affetti da patologie acute si assicurano le
prestazioni (anche quelle molto onerose) a titolo gratuito (fatti salvi
eventuali ticket), alle persone malate in carico all’assistenza domiciliare
integrata, nonché agli adulti e agli anziani non autosufficienti a causa di
patologie croniche viene richiesto di contribuire alle spese sostenute secondo
le percentuali fissate dal decreto.
Si è così applicato il
cosiddetto “universalismo selettivo” non al complesso del sistema sanitario
pubblico (che la prima legge di riforma voleva fondato su un universalismo
senza aggettivi) ma esclusivamente alle fasce di utenza più deboli, alle quali
viene inoltre negato – per quanto attiene al tema della contribuzione – un
rapporto diretto e lineare con il sistema sanitario.
Il decreto, infatti, non
prevede che siano direttamente le Aziende sanitarie ad intrattenere i rapporti
economici con l’utenza dei servizi socio-sanitari, né che esse si facciano
carico di applicare criteri reddituali omogenei in base ai quali chiamare il
cittadino a compartecipare alla spesa. Ancora una volta sono i servizi socio-assistenziali
a dover integrare, in tutto o in parte, la spesa che il cittadino non è in
grado di sostenere, sulla base dei criteri definiti dai Comuni.
In tal modo si palesa
una disparità di trattamento tra le persone malate. Gli “acuti” vengono
“inclusi” pienamente nel sistema sanitario – anche quando sono chiamati a
pagare un ticket (i limiti di reddito per le esenzioni sono infatti fissati con
apposita normativa regionale, applicata dalle Aziende sanitarie) – i “cronici”
subiscono invece una oggettiva limitazione del diritto a beneficiare di un
eguale trattamento a parità di bisogni espressi e di condizioni economiche
(visto che i criteri di integrazione della spesa variano su base comunale).
Tutto ciò accade non per
una esigenza di “integrazione” tra comparti ma, molto più prosaicamente, per
l’annoso problema delle risorse. E, come più volte rilevato da questa rivista, «per ridurre la spesa sanitaria c’è un
sistema molto semplice e purtroppo collaudatissimo: esso consiste nel dirottare
gli utenti più deboli nel settore assistenziale. D’altra parte sono questi
utenti (soprattutto anziani cronici non autosufficienti, malati mentali, lungo
degenti) che comportano rilevanti spese»[15].
La tutela del diritto
alla salute (ed all’assistenza sociale) impone però di agire – come si è detto –
sulla dislocazione delle risorse che,
per il livello essenziale di ogni intervento costituzionalmente previsto, deve
essere necessariamente vincolata. «Occorre pertanto distribuire le risorse con
giustizia, evitare gli sprechi; pianificare gli interventi; non farsi carico di
attività che competono agli altri settori sociali»[16].
Gli
interventi socio-assistenziali che costituiscono livello essenziale delle
prestazioni
Ribadito che alle
persone incapaci di auto difendersi vanno pienamente riconosciute le stesse
esigenze e gli stessi diritti degli altri cittadini, è utile verificare quanto
affermato dalla legge quadro di riforma a proposito degli interventi che
costituiscono il «livello essenziale
delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le
caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale,
regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale delle
politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli
enti locali alla spesa sociale»[17].
Opportunamente
sottolineando che le suddette prestazioni sono erogabili agli aventi diritto
individuati dall’articolo 2, comma 1, della legge 328/2000: «ferme restando le competenze del Servizio
sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione» e
fatte salve «le disposizioni in materia
di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 192,
n.502 e successive modificazioni»[18].
A tali soggetti i
servizi socio assistenziali possono[19]
fornire gli interventi e le prestazioni indicati all’art. 22 della legge ed in
particolare:
· misure di
contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento,
con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
· misure
economiche per favorire la permanenza al domicilio e la maggior autonomia ed
indipendenza di vita possibili alle persone impossibilitate a compiere gli atti
propri della vita quotidiana;
· interventi
per i minori in situazioni di disagio tramite sostegno del nucleo familiare di
origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di
accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza;
· misure di
sostegno delle responsabilità familiari per favorire l’armonizzazione del tempo
di lavoro e di cura familiare;
· misure di
sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio
decreto-legge 8 maggio 1927, n.798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838
e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277 e loro successive modificazioni,
integrazioni e norme attuative;
· interventi
per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’art.14 della
legge 328/2000; realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3,
della legge 5 febbraio 1992, n.104, dei centri socio-riabilitativi e delle
comunità alloggio di cui all’art. 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei
servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare,
nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie;
· interventi
per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza al domicilio, per
l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza
di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso
strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della
elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano
assistibili a domicilio;
· prestazioni
integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e
farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento
sociale;
· informazione
e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi
e per promuovere iniziative di autoaiuto.
Con riferimento alle
prestazioni sopra elencate la legge quadro demanda ad apposite leggi regionali
il compito di prevedere «per ogni ambito
territoriale di cui all’articolo 8, comma 3, lettera a), tenendo conto anche
delle diverse esigenze delle aree urbane e rurali, comunque l’erogazione delle
seguenti prestazioni:
a)
servizio
sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al
singolo e ai nuclei familiari;
b)
servizio
di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e
familiari;
c)
assistenza
domiciliare;
d)
strutture
residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali;
e)
centri di
accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario»[20].
Come si può constatare,
l’articolo della legge quadro relativo ai livelli essenziali si limita ad
indicare le “tipologie” delle prestazioni, senza fornire alcun elemento in
ordine agli standard qualitativi e quantitativi che esse devono rispettare. Ciò
rappresenta un problema che – alla luce del nuovo testo dell’articolo 117 della
Costituzione – può essere risolto, per il livello nazionale, solamente con una
legge dello Stato che definisca i livelli essenziali di assistenza sociale (Liveas)
fissando, finalmente, adeguati standard di prestazioni a garanzia delle fasce
più deboli della popolazione.
A tal fine è però
necessario che – nella definizione dei Liveas – si abbandoni ogni velleità
“universalistica”[21] e si
riservi l’accesso alle prestazioni ed ai servizi socio-assistenziali di livello
essenziale alle persone in condizioni di fragilità sociale e, prioritariamente:
· ai minori in tutto o in parte privi delle indispensabili cure familiari, siano essi nati nel o fuori del matrimonio;
· alle persone con handicap intellettivi totalmente o gravemente prive di autonomia che necessitino di sostegno per la permanenza in famiglia o di inserimento in comunità alloggio;
· ai
soggetti colpiti da altri handicap, anche plurimi, che necessitano di aiuti
specifici per poter acquistare la massima autonomia possibile nel rispetto del
diritto all’autodeterminazione;
· agli anziani che non sono in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita;
· alle
gestanti e madri in grave difficoltà personale alle quali va altresì fornita la
necessaria consulenza psico sociale per il loro reinserimento e per il
responsabile riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati[22];
· alle
persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione;
· ai
soggetti senza fissa dimora;
· agli altri
individui che necessitano di prestazioni specifiche se si vuole evitare la loro
emarginazione.
Ma in attesa che lo Stato – avvalendosi della competenza legislativa esclusiva nelle materie concernenti i diritti civili e sociali – determini i livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, è doveroso richiedere che siano le Regioni[23] – titolari di potestà legislativa per quanto attiene alla “assistenza sociale” – ed i Comuni[24] a farsi carico di assicurare, negli ambiti territoriali amministrati, il diritto soggettivo «al mantenimento e all’assistenza sociale» di «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere»[25].
*
Direttore del Cisap (Consorzio intercomunale dei servizi alla persona tra i
Comuni di Collegno e Grugliasco).
[1] Decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
112, recante “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato
alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo
1997, n.
[2] Articolo 1, comma 1, della legge 8
novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali”.
[3] Livio Pepino, “La salute: fortuna o
diritto?”, Animazione sociale,
n. 12, 2001.
[4] Articolo 2, comma 3, della legge 8
novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali”.
[5] Decreto del Presidente della Repubblica
3 maggio 2001 “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-
[6] Livio Pepino, “L’esigibilità dei diritti
sociali”, relazione tenuta al Convegno “Strada facendo - Droga: la ricerca e la
proposta” svoltosi a Torino il 20, 21 e 22 settembre 2002.
[7] Decreto del Presidente della repubblica
24 luglio 1977, n. 616 “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge
22 luglio 1975, n.
[8] Alberto Dragone, Donata Micucci,
Francesco Santanera, Interventi
alternativi al ricovero assistenziale, Edizioni Controcittà, Torino, 1980,
pag. 104.
[9]
Idem,
pag. 112.
[10] Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco
Santanera, La riforma dell’assistenza e
dei servizi sociali, Utet Libreria, Torino, 2001, pag. 49.
[11]F. Carugati, G. Casadi, M. Lenzi, A.
Palmonari, P. Ricci Bitti, Gli orfani
dell’assistenza, Il Mulino, Bologna, 1973, pag.159.
[12] Emanuele Ranci Ortigosa,
Il rapporto tra servizi sociali e servizi
sanitari in Cristiano Gori:
La riforma dei servizi sociali in Italia,
Carocci editore, Roma, 2004, pag.116.
[13]
Idem,
pag.116.
[14] Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”.
Il decreto riprende integralmente, citandolo puntualmente tra le fonti
normative di riferimento, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni
socio-sanitarie” conosciuto come “Decreto Veronesi”.
[15] Cfr. Mauro Perino, “Livelli essenziali
di assistenza: riduzione della spesa sanitaria e nuova emarginazione”,
Prospettive assistenziali, n. 137, 2002.
[16] Giuseppe D’Angelo, “Livelli essenziali
di assistenza sociale e diritti esigibili”,
Ibidem,
n. 153, 2006.
[17] Articolo 22, comma 2, della legge n. 328
“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali”.
[18]
Idem.
[19] La legge 328/2000 – ponendo il limite
delle risorse finanziarie e patrimoniali disponibili alla programmazione ed
organizzazione del sistema integrato – non assicura infatti la piena
esigibilità del diritto a beneficiare degli interventi e servizi sociali
definiti nei livelli essenziali delle prestazioni, ma si limita ad assumere il
criterio della priorità di accesso per i soggetti più fragili (articolo 2,
comma 3).
[20] Articolo 22, comma 4, della legge n. 328
“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali”.
[21]
«Ora,
nell’attività di definizione dei Liveas, ovvero nella determinazione di
adeguati livelli di prestazioni e servizi, occorre ribadire – e laddove
necessario aggiornare – gli attuali, spesso bistrattati, diritti stabiliti
dalle norme esistenti. Altresì occorre aver ben presente la necessità di
operare prioritariamente per prevenire il bisogno assistenziale: solo
riconoscendo alle persone incapaci di autodifendersi le stesse esigenze e gli
stessi diritti degli altri cittadini è possibile superare l’emarginazione
sociale. Eventuali interventi assistenziali devono essere aggiuntivi e non
sostitutivi delle prestazioni della sanità, della casa, della scuola e delle
altre attività di interesse collettivo». Pertanto
«nei Liveas occorre garantire prestazioni e servizi assistenziali – in
primo luogo di tipo domiciliare – a quelle persone, e solo a quelle, in stato
di bisogno ovvero a quelle che altrimenti sono destinate al baratro
dell’emarginazione sociale o alla morte». Giuseppe D’Angelo, “Livelli
essenziali di assistenza sociale e diritti esigibili”,
Prospettive assistenziali, n. 153, 2006.
[22] Si veda in questo numero il testo della
legge della Regione Piemonte 2 maggio 2006, n. 16 “Modifiche all’articolo 9
della legge regionale 8 gennaio 2004, n. 1 (Norme per la realizzazione del
sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della
legislazione di riferimento)”. Con
l’approvazione della legge si compie un importante passo avanti rendendo
effettivamente esigibili – in ambito regionale – i diritti della gestanti e
madri in situazioni di grave difficoltà personale e dei loro nati, siano essi
riconosciuti o non riconosciuti.
[23] L’articolo 22 della legge della Regione
Piemonte 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la realizzazione del sistema regionale
integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di
riferimento” prevede quanto segue: «
[24] Cfr. “Delibera del Consorzio tra i
Comuni di Collegno e Grugliasco per l’individuazione dei diritti dei destinatari
degli interventi socio-assistenziali”, Prospettive
assistenziali, n. 153, 2006.
[25] Art. 38 della Costituzione.