Prospettive assistenziali, n. 147, luglio - settembre 2004
LA
NUOVA LEGGE REGIONALE PIEMONTESE SULL’ASSISTENZA
Giuseppe D’Angelo
Con la legge regionale 8 gennaio 2004 n. 1 “Norme per la
realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e
riordino della legislazione di riferimento” – pubblicata sul Bollettino
ufficiale n. 2 del 15 gennaio 2004 – la Regione Piemonte ha attuato il
recepimento della legge nazionale 328/2000 sulla riforma dell’assistenza e dei
servizi sociali (1).
Aspetti positivi e negativi
La nuova legge
regionale ha indubbiamente un aspetto positivo: riconosce (finalmente!) diritti
esigibili per alcuni soggetti in estreme condizioni di bisogno (2).
A tale
elemento positivo occorre aggiungere il previsto trasferimento ai Comuni di
tutte le attività assistenziali ancora in capo alle Province.
Dall’altro
versante, abbiamo purtroppo alcuni aspetti negativi, i principali dei quali
sono:
l’assenza di disposizioni volte alla prevenzione primaria dello stato
di bisogno e dell’emarginazione sociale, le disposizioni sull’integrazione
socio-sanitaria che pongono difficoltà all’esigibilità dei diritti per i malati
cronici non autosufficienti e per i soggetti con limitata o nulla autonomia
perché colpiti da
handicap, la mancanza di norme per il reale superamento
dell’istituzionalizzazione delle persone deboli.
Ignorata la prevenzione
primaria
Esaminiamo in primo luogo l’aspetto relativo all’assenza di norme
volte alla prevenzione primaria dell’emarginazione sociale.
In merito a ciò
l’impostazione della legge regionale 1/2004 rispecchia fedelmente, purtroppo,
quella della 328/2000. Per di più, costituisce un arretramento rispetto alla
precedente legge piemontese di riferimento sull’assistenza, la n. 62/1995 (ora
abrogata a seguito del riordino della legislazione di riferimento con l’entrata
in vigore della 1/2004) che prevedeva alcune precise disposizioni per gli Enti
locali atte a garantire il pieno soddisfacimento dei bisogni comuni a tutta la
popolazione. Si trattava in particolare degli aspetti relativi alle esigenze di
tipo socio-relazionale e di natura abitativa, nonché della promozione
dell’inserimento lavorativo e dell’abolizione delle barriere architettoniche
(3).
È evidente che una vera attività di prevenzione si realizza se ogni
settore d’interesse sociale, che si rivolge cioè a tutti i cittadini, è
predisposto in modo da intervenire realmente per tutta la popolazione, ovvero
anche nei riguardi dei soggetti deboli.
Appare chiaro che soddisfacendo
anche per le fasce più deboli le necessità comuni a tutti i cittadini
(ovverossia le prestazioni concernenti la sanità, l’istruzione, la casa, i
trasporti, ecc., nonché il lavoro anche ai soggetti con handicap aventi adeguate
capacità lavorative), si riduce il numero delle persone che per poter continuare
a vivere sono costrette a rivolgersi all’assistenza.
È esclusivamente alle
persone (minori in situazione di abbandono, persone con handicap intellettivo
con limitata o nulla autonomia, ecc.) che non sono in grado di inserirsi
autonomamente nella società pur beneficiando degli interventi appena sopra
indicati, che devono essere garantiti gli interventi aggiuntivi dell’assistenza
sociale (affidamenti e inserimenti presso famiglie e persone, centri diurni per
soggetti con gravi menomazioni cognitive, comunità alloggio, ecc.).
Ricordiamo che «la vera prevenzione del disagio, dell’emarginazione sociale e
dell’esclusione sociale non può, salvo casi rarissimi, essere svolta dai settori
dell’assistenza e dei servizi sociali». Tali settori difatti «non hanno né
strumenti né personale in grado di operare a livello di profilassi, di curare
persone malate, di riabilitare i soggetti infortunati, di predisporre le
strutture abitative, di provvedere all’istruzione dell’obbligo e superiore, di
garantire i trasporti, ecc.» (4).
Questo orientamento, peraltro, si desume da
una onesta lettura del dettato costituzionale e dall’attuazione di quei diritti
rivolti esplicitamente a tutti i cittadini (citiamo, per esempio, i diritti al
lavoro, all’istruzione, alla tutela della salute, alla libera circolazione,
ecc.). Il diritto all’assistenza si aggiunge agli altri ed è pertanto rivolto
fondatamente solo agli inabili al lavoro (5).
Or dunque, l’indirizzo poco
sopra messo in evidenza è stato ignorato dalla legge nazionale 328/2000 nonché
dimenticato dalla legge regionale 1/2004.
Aspetti negativi
dell’integrazione dei servizi
A quanto pare, la legge regionale ritiene che,
predisponendo una rete di servizi sociali integrati tra loro ed orientata a
favore di tutti i cittadini, sia possibile superare le varie situazioni di
disagio e di sofferenza.
Tale impostazione, seppur sostenuta – diversamente
dalla legge 328/2000, come cercheremo di approfondire più avanti – dal
riconoscimento di alcuni diritti azionabili, ha il rischio di caratterizzare il
nuovo disposto normativo come strumento atto a monitorare e controllare
l’emarginazione sociale e non ad evitarla e superarla (6).
Dunque non possono
che suscitare perplessità le norme relative alla prevista integrazione dei vari
settori con quello delle politiche sociali.
Nella legge regionale 1/2004 è
disposto che i vari settori sociali (del lavoro, della formazione, della casa,
ecc.) interagiscano in maniera coordinata ed integrata col settore delle
politiche socio-assistenziali. Leggiamo difatti che «le attività dirette al
raggiungimento delle finalità» della legge in oggetto da parte della Regione,
delle Province e dei Comuni «sono informate alle seguenti modalità operative:
(…) coordinamento ed integrazione con gli interventi sanitari, dell’istruzione,
della giustizia minorile, nonché con le politiche attive della formazione, del
lavoro, delle politiche migratorie, della casa, della sicurezza sociale e degli
altri servizi sociali del territorio» (comma 2 dell’articolo 3, e comma 2
dell’articolo 14).
Pure il previsto “piano di zona” (che vaglieremo più
avanti) stabilisce che esso debba essere «integrato nel più generale quadro
delle politiche della sanità, dell’ambiente, dell’istruzione, della formazione,
del lavoro, della casa, dei servizi, del tempo libero, dei trasporti e delle
comunicazioni» (articolo 17, comma 5).
Come se ciò non bastasse, i criteri
per il riparto delle risorse finanziarie previste dal fondo regionale «sono
finalizzati a privilegiare gli enti gestori (…) che realizzano la massima
integrazione tra sanità e assistenza, nonché il coordinamento delle politiche
dei servizi sociali con le politiche della casa, dell’istruzione, della
formazione professionale e del lavoro» (articolo 35, comma 10).
Dunque, v’è
il pericolo che la nuova legge regionale anziché soddisfare direttamente le
esigenze abitative, sanitarie, lavorative, ecc., di tutti i cittadini – al di là
della loro condizione socio-economica – favorisca il trasferimento degli
interventi rivolti ai soggetti più deboli negli ambiti socio-abitativo,
socio-formativo, socio-lavorativo e così via.
Se osserviamo, nell’ottica
degli utenti, quanto di negativo è accaduto nel corso degli anni passati – ed
ancora continua ad accadere – a seguito della nefasta trovata dell’integrazione
socio-sanitaria, possiamo renderci conto della sorte che attende le fasce deboli
nel caso in cui venisse esteso questo orientamento.
Il rischio,
evidentemente, è quello della riaffermazione delle problematiche emerse già con
l’avvenuta integrazione tra il settore sanitario e quello assistenziale. In
particolare:
- l’allontanamento dei soggetti deboli dai naturali settori di
competenza rivolti a tutta la popolazione. Per esempio, il settore sanitario in
materia di malati cronici non autosufficienti ha deciso – in genere e oramai da
tempo – di non riconoscere la stessa pertinenza esercitata invece in occasione
di pazienti acuti (7); dunque una discriminazione in violazione anche
all’articolo 3 della Costituzione che al primo comma afferma: «Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali»;
- lo scadimento del livello generale dei
diritti e delle prestazioni. Nell’esempio appena sopra citato, i livelli di cura
sono manifestamente superiori in una struttura sanitaria anziché in una
Rsa/cronicario;
- aggiuntive attribuzioni di oneri economici all’utente (si
veda, a proposito, il concorso da parte dell’utente al costo delle prestazioni
cosiddette di “lungo-assistenza”); ecc.
Sul rischio di veder riprodotto
l’approccio “integrato” negli altri settori, riportiamo due esempi.
La
scuola oggi prevede – giustamente – che i soggetti con handicap debbano accedere
nelle normali classi rivolte a tutti; domani non vorremmo che venissero
ricostituite, con la scusa dell’integrazione “socio-scolastica”, le classi
speciali per i soggetti con handicap o altre difficoltà.
L’inserimento dei
soggetti svantaggiati nelle normali aziende è un obiettivo importantissimo, in
senso opposto all’articolo 14 del decreto legislativo 276/2003 che sancisce la
loro emarginazione lavorativa nelle cooperative sociali (8).
Previsti
alcuni diritti esigibili
Come abbiamo già avuto modo di osservare, nella
legge regionale piemontese n. 1/2004 è presente un importante elemento positivo.
Si tratta del riconoscimento del diritto esigibile ai servizi ed alle
prestazioni essenziali per le persone in condizioni di grave bisogno
socio-economico (ciononostante occorre in ogni caso esprimere riserve in merito
alle cosiddette prestazioni ad integrazione socio-sanitaria, che vedremo più
avanti).
Si tratta di una sostanziale novità rispetto alla legge 328/2000
che, com’è risaputo, ha previsto solo delle “priorità” all’accesso al sistema
dei servizi per le persone in determinate situazioni di disagio, non
riconoscendo alcun nuovo diritto (9).
Cerchiamo, pertanto, nel seguito del
presente articolo di approfondire questo rilevante aspetto della nuova legge
regionale andando a verificare i punti chiave del provvedimento: chi ha diritto
ai servizi previsti, chi ha il dovere di predisporli, come devono essere
finanziati gli interventi, e così via, secondo il collaudato metodo della Scuola
dei diritti della Fondazione promozione sociale (10).
Gli aventi diritto
L’articolo 22 della legge regionale 1/2004 al comma 1 prevede quanto segue: «La
Regione identifica nel bisogno il criterio di accesso al sistema integrato di
interventi e servizi sociali e riconosce a ciascun cittadino il diritto di
esigere, secondo le modalità previste dall’ente gestore istituzionale, le
prestazioni sociali di livello essenziale (…) previa valutazione dell’ente
medesimo e secondo i criteri di priorità di cui al comma 3».
Dunque, appare
previsto il diritto esigibile alle prestazioni sociali di livello essenziale.
Tale diritto è volto a ciascun cittadino in funzione della valutazione delle sue
necessità nonché secondo priorità stabilite.
A rafforzare tale diritto è
stabilito, inoltre, che «contro l’eventuale motivato diniego è esperibile il
ricorso per opposizione allo stesso ente competente per l’erogazione della
prestazione negata».
Nello stesso articolo 22, ma al comma 2, è poi
specificato che hanno diritto di fruire delle prestazioni e dei servizi del
sistema integrato regionale d’interventi e servizi sociali «i cittadini
residenti nel territorio della Regione Piemonte, i cittadini di Stati
appartenenti all’Unione europea ed i loro familiari, gli stranieri individuati
ai sensi dell’articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), i minori stranieri non accompagnati, gli
stranieri con permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, i
rifugiati e richiedenti asilo e gli apolidi».
Al comma 2 dell’articolo 39 è
inoltre previsto che «l’organizzazione e l’erogazione degli interventi
socio-assistenziali non differibili caratterizzati da motivi di urgenza sono
effettuati dal Comune nel
cui territorio il destinatario degli interventi
stessi dimora; gli oneri relativi gravano sul Comune di residenza».
L’integrazione socio-sanitaria
In relazione all’esigibilità del diritto, la
situazione appare subito meno chiara per quei servizi e prestazioni guarda caso
(!) ad integrazione socio-sanitaria. Difatti, nella legge 1/2004 è
specificatamente stabilito che per tali servizi è la Giunta regionale che, con
propria deliberazione «fornisce indicazioni relative alle prestazioni essenziali
ad integrazione socio-sanitaria, determinandone gli obiettivi, le funzioni, i
criteri di erogazione, di funzionamento e di finanziamento» (articolo 20, comma
1). Dunque, le prestazioni essenziali relative al settore dell’integrazione
socio-sanitaria possono essere diverse rispetto a quelle previste per gli
interventi e servizi sociali (indicate queste ultime nell’articolo 18) (11).
Inoltre, poiché gli obiettivi non sono precisati nella legge n. 1/2004, viene
dato un mandato praticamente senza condizioni alla Giunta regionale.
Ricordiamo che tra le prestazioni afferenti all’area dell’integrazione
socio-sanitaria rientrano quelle concernenti l’assistenza territoriale
residenziale e semiresidenziale a favore dei soggetti con handicap e limitata o
nulla autonomia, nonché degli anziani non autosufficienti, dei malati di
Alzheimer e degli altri soggetti colpiti da demenza senile. Si tratta dunque di
un numero consistente di persone, estremamente più elevato degli altri soggetti
assistiti (i minori in difficoltà, i nuclei familiari in situazione di disagio,
ecc.).
Nella sostanza, gli interventi relativi al settore dell’integrazione
socio-sanitaria dovrebbero riguardare le prestazioni comprese nei Lea - Livelli
essenziali di assistenza, che la Regione Piemonte ha in parte già determinato
con deliberazione della Giunta regionale del 23 dicembre 2003, n. 51 (peraltro
attualmente in corso di revisione).
Le prestazioni sopra accennate, sulla
base dell’articolo 54 della legge 289/2002 (Finanziaria 2003) che ha altresì
elevato a rango di legge il Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri) sui Lea, devono essere garantite dal Servizio sanitario nazionale.
Ma le medesime prestazioni, ovverosia quelle concernenti il «soddisfacimento
delle esigenze di tutela residenziale e semiresidenziale delle persone non
autonome e non autosufficienti» (articolo 18, comma 1, lettera c), rientrano
pure tra le cosiddette prestazioni di livello essenziale che, secondo la legge
regionale in oggetto, devono essere garantite dai Comuni (articolo 19, comma 2).
E per tali prestazioni la legge regionale prevede che il cosiddetto piano di
zona debba trovare nella parte relativa alle attività di integrazione
socio-sanitaria «obbligatoria corrispondenza nella parte dei programmi di
attività distrettuale contenuta nei piani attuativi aziendali» (articolo 17,
comma 6). Ancor più, in relazione ai duplici ambiti costituiti da Asl e Comuni,
«al fine di garantire l’attuazione e l’efficacia degli interventi», è previsto
che le relative attività siano «realizzate con modalità operative condivise dai
settori sanitario e sociale»; inoltre, è considerata la nomina di un
responsabile del procedimento con lo scopo di stabilire un riferimento di
competenza per l’utente (articolo 20, comma 3).
La macchinosità e l’ambiguità
di fondo delle citate norme regionali lasciano spazio alla prosecuzione
dell’attuale drammatica situazione caratterizzata dalle dimissioni – spesso
selvagge – dagli ospedali delle persone (anche non anziane) colpite da patologie
invalidanti e da non autosufficienza, con la conseguente messa a carico dei
soggetti coinvolti e dei loro congiunti di rilevanti oneri economici (12).
Priorità di accesso
All’articolo 22, comma 3, è disposto che «accedono
prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di
interventi e servizi sociali» tutti i soggetti che si trovano in «condizioni di
povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere
alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà
di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché i
soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono
necessari interventi assistenziali, i minori, specie se in condizioni di disagio
familiare».
L’accesso ai servizi, come abbiamo già accennato, deve essere
«realizzato attraverso una valutazione del bisogno» (articolo 23, comma 3). Per
le «persone e famiglie in condizioni di fragilità, di non autosufficienza o di
dipendenza» sono inoltre previsti (articolo 23, comma 2) interventi di
«orientamento e accompagnamento».
Occorrerà in ogni caso verificare, nel
momento in cui il cittadino bisognoso richiederà il servizio, se da parte delle
istituzioni interessate sarà rispettato il dovere all’erogazione delle relative
prestazioni. L’esperienza ha spesso dimostrato che laddove il soggetto coinvolto
è soggetto “debole”, il diritto previsto dalle disposizioni di legge non trova
adeguata applicazione; è necessaria, quindi, una forte “pressione” da parte di
gruppi o associazioni (ma anche di singoli cittadini) affinché siano rispettate
le esigenze ed i diritti dei più bisognosi.
Comunque sia, nel riconoscere il
diritto alle prestazioni a coloro che sono in stato di bisogno, la nuova legge
regionale supera di fatto le disposizioni ancora vigenti previste con gli
articoli 154 e 155 del regio decreto n. 773/1931, disposizioni che, in ogni
caso, potranno essere utilizzate dai cittadini qualora i Comuni non assumessero
i provvedimenti di loro competenza (13).
Compiti dei Comuni
Ai sensi
dell’articolo 6, comma 1, della legge regionale 1/2004, i Comuni «sono titolari
delle funzioni concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale e
concorrono alla programmazione regionale, anche mediante l’elaborazione di
proposte per la definizione del piano regionale degli interventi e dei servizi
sociali». Esercitano inoltre «le funzioni in materia di servizi sociali già di
competenza delle Province (…)» – funzioni delle quali diremo più avanti –
«elaborano ed adottano, mediante un accordo di programma, i piani di zona;
adottano la carta dei servizi (…); garantiscono ai cittadini l’informazione sui
servizi attivati, l’accesso ai medesimi e il diritto di partecipare alla
verifica della qualità dei servizi erogati». Sono altresì titolari «delle
funzioni amministrative relative all’autorizzazione, alla vigilanza e
all’accreditamento dei servizi sociali e delle strutture a ciclo residenziale o
semiresidenziale».
I Comuni devono anzitutto assicurare i livelli essenziali
delle prestazioni (elencati nell’articolo 18) che «costituiscono la risposta
minima ed omogenea che (…) tramite gli enti gestori istituzionali sono tenuti a
garantire su tutto il territorio piemontese» (articolo 19, comma 2).
Trasferimento delle competenze dalle Province ai Comuni
Un’altra importante
questione affrontata dalla legge regionale n. 1/2004, è il trasferimento ai
Comuni di tutte le competenze assistenziali attualmente in carico alle Province,
vale a dire quelle relative «ai non vedenti, agli audiolesi, ai figli minori
riconosciuti dalla sola madre, ai minori esposti all’abbandono, ai figli minori
non riconosciuti ed alle gestanti e madri in difficoltà». Detto trasferimento
deve essere eseguito mettendo a disposizione dei Comuni «le risorse umane,
patrimoniali e finanziarie utilizzate alla data di entrata in vigore della legge
nazionale» dalle Province. Inoltre, le Province dovranno attuare le procedure
per la mobilità del personale in servizio. Per gli addetti che non accetteranno
il trasferimento ai Comuni, le Province dovranno corrispondere agli stessi
Comuni le somme «equivalenti in danaro».
Con l’assunzione da parte dei
Comuni di tutte le funzioni assistenziali, si mette la parola fine all’odiosa
discriminazione degli interventi assistenziali rivolti ai minori nati nel o
fuori dal matrimonio, ai non vedenti ed agli audiolesi.
È inoltre previsto
(articolo 58, comma 2) che «la Giunta regionale, sentita la competente
commissione consiliare, adotta, entro centottanta giorni dall’entrata in vigore
della presente legge, linee guida per gli enti gestori istituzionali per
l’esercizio delle competenze relative agli interventi socio-assistenziali nei
confronti delle gestanti e delle madri in condizione di disagio individuale,
familiare e sociale, compresi quelli volti a garantire il segreto del parto alle
donne che non intendono riconoscere i figli, e gli interventi a favore dei
neonati nei primi sessanta giorni di vita».
Obiettivi degli interventi
In merito agli obiettivi il primo comma dell’articolo 18 della legge 1/2004
così si esprime: «Il sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali
fornisce risposte omogenee sul territorio finalizzate al raggiungimento dei
seguenti obiettivi: a) superamento delle carenze del reddito familiare e
contrasto della povertà; b) mantenimento a domicilio delle persone e sviluppo
della loro autonomia; c) soddisfacimento delle esigenze di tutela residenziale e
semiresidenziale delle persone non autonome e non autosufficienti; d) sostegno e
promozione dell’infanzia, della adolescenza e delle responsabilità familiari; e)
tutela dei diritti del minore e della donna in difficoltà; f) piena integrazione
dei soggetti disabili; g) superamento, per quanto di competenza, degli stati di
disagio sociale derivanti da forme di dipendenza; h) informazione e consulenza
corrette e complete alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei
servizi; i) garanzia di ogni altro intervento qualificato quale prestazione
sociale a rilevanza sanitaria ed inserito tra i livelli di assistenza, secondo
la legislazione vigente».
Il secondo comma dello stesso articolo 18 precisa
inoltre che le prestazioni ed i servizi essenziali per assicurare risposte
adeguate alle finalità sopra elencate sono i seguenti: «a) servizio sociale
professionale e segretariato sociale; b) servizio di assistenza domiciliare
territoriale e di inserimento sociale; c) servizio di assistenza economica; d)
servizi residenziali e semiresidenziali; e) servizi per l’affidamento e le
adozioni; f) pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali
e familiari».
Le suddette prestazioni essenziali «costituiscono la risposta
minima ed omogenea che i Comuni tramite gli enti gestori istituzionali sono
tenuti a garantire su tutto il territorio piemontese» (articolo 19, comma 2).
Come risulta evidente dall’analisi dei sopra riportati articoli 18 e 19
della legge 1/2004, gli obiettivi dei servizi sociali sono indicati in modo
generico; ciò lascia ai Comuni, singoli e associati, la possibilità di
interpretarli anche in modo difforme rispetto alle esigenze delle persone e dei
nuclei familiari in difficoltà.
Alcuni esempi in proposito. L’obiettivo del
«superamento delle carenze del reddito familiare e contrasto alla povertà» può
essere perseguito secondo modalità assai diverse: si può intervenire sulle
cause, operando per la promozione dell’inserimento lavorativo del soggetto
disoccupato con handicap lieve, oppure si può operare confinandolo in una
struttura assistenziale (laboratorio protetto, centro diurno, ecc.). Se il
soggetto invece è impossibilitato a causa delle sue condizioni di salute a
svolgere qualsiasi attività proficua, si può – come avviene sovente ancora oggi
– sfruttare i legami affettivi e scaricare gli interventi sui suoi congiunti,
oppure lo si può considerare un cittadino avente diritti autonomi a cui il
Comune singolo o associato garantisce il necessario economico per vivere (14).
Altro aspetto negativo delle norme riguardanti gli obiettivi, è la mancata
definizione delle priorità di intervento a cui dovrebbero essere vincolati gli
enti gestori, definizione che dovrebbe essere stabilita in modo da garantire
agli assistiti la massima autonomia possibile. Ad esempio è evidente che le
prestazioni domiciliari assicurano ai soggetti in difficoltà una libertà di
azione di gran lunga superiore e qualitativamente molto diversa rispetto al
ricovero in istituto.
Al riguardo ricordiamo che nella delibera (promossa
dal Csa) approvata dal Consiglio comunale di Torino in data 14 settembre 1976,
dopo aver precisato la necessità della «messa a disposizione dei servizi primari
(asilo nido, scuola materna, scuola dell’obbligo, casa, trasporti, …) in modo da
eliminare o ridurre le cause che provocano le richieste di assistenza» erano
individuate le seguenti priorità: assistenza domiciliare, assistenza economica,
attività relative alla segnalazione dei minori in situazione di abbandono e
adempimenti relativi all’adozione, affidamenti educativi di minori, affidamenti
assistenziali di interdetti, inserimenti familiari di handicappati adulti ed
anziani, istituzione di comunità alloggio.
L’istituzionalizzazione delle
persone deboli
Un aspetto critico della nuova legge regionale è inoltre
l’assenza di compiti precisi affidati ai Comuni, singoli e associati, volti al
superamento dell’istituzionalizzazione dei soggetti deboli. Questa carenza
peraltro mette ancora in evidenza la preoccupante genericità degli obiettivi
elencati dall’articolo 18 e riportati nel precedente paragrafo.
Per le
strutture assistenziali residenziali non sono neppure previsti standard
migliorativi (per esempio dal punto di vista della loro capienza) rispetto a
quelli stabiliti dalla normativa statale in materia. Infatti, la legge regionale
1/2004 rimanda ad una disposizione della Giunta regionale per provvedere «a
classificare le strutture residenziali e semiresidenziali, a individuare i
relativi requisiti strutturali, gestionali e organizzativi, e a definire i tempi
per l’adeguamento delle strutture esistenti, secondo quanto previsto dalla
normativa vigente» (articolo 37, comma 2).
Ricordiamo che per i disabili il
decreto ministeriale del 21 maggio 2001, n. 308, prevede strutture con capienza
sino a 20 posti letto e, soprattutto, non vieta gli accorpamenti di più
strutture; con ciò i vecchi e superati istituti potranno continuare ad esistere
purché stabiliscano una suddivisione interna in gruppi aventi non più di 20
posti letto (15).
Inoltre, la legge piemontese n. 1/2004 attribuisce alla
Giunta regionale «la facoltà di individuare uno specifico regime in ordine ai
tempi e alle modalità di adeguamento di strutture esistenti gestite da soggetti
senza fini di lucro caratterizzate da una dimensione rilevante, da modalità
organizzative adeguate ad una ottimale risposta ai bisogni di particolari
tipologie di utenza e comprovate dal ruolo storico che tali soggetti hanno
svolto nel tempo».
Pertanto, appare rivolta un’attenzione particolare alle
esigenze proprie delle strutture – anche se di grosse dimensioni – anziché ai
loro utenti.
Ciò è assai sconfortante e lascia pure poche speranze in
riferimento ad una reale volontà di predisporre iniziative valide per la
prevenzione dell’istituzionalizzazione.
Questa nostra constatazione è,
purtroppo, confermata dalla deliberazione n. 60-11842 assunta dalla Giunta
regionale piemontese il 23 febbraio 2004 – subito dopo l’entrata in vigore della
legge 1/2004 – in base alla quale la “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, e
cioè il Cottolengo, è autorizzato a continuare (fra l’altro sine die in
violazione delle disposizione del citato decreto ministeriale n. 308/2001) ad
operare nonostante la rilevantissima (e quindi assolutamente negativa) capienza
della propria struttura (in quella di Torino i ricoverati sono addirittura 600).
I piani di zona
L’articolo 17, primo comma, della legge regionale
1/2004 stabilisce, ai sensi dell’articolo 19 della legge 328/2000, che i Comuni
(singoli o associati) «a tutela dei diritti della popolazione» nonché d’intesa
con le Asl per quanto attiene alle attività di integrazione socio-sanitaria,
devono provvedere «a definire il piano di zona». Detto piano «rappresenta lo
strumento fondamentale e obbligatorio per la definizione del sistema integrato
degli interventi e dei servizi sociali del territorio di competenza» nonché «lo
strumento primario di attuazione della rete dei servizi sociali».
Predisposto previa concertazione con i soggetti del terzo settore e con quelli
di cui all’articolo 1, comma 6, della legge 328/2000 (16), il piano di zona
comprende una serie di contenuti, tra i quali: «a) la conoscenza e l’analisi dei
bisogni della popolazione, nonché le forme di rilevazione dei dati nell’ambito
del sistema informativo; b) l’individuazione, la qualificazione e la
quantificazione delle risorse pubbliche del terzo settore e private, disponibili
ed attivabili; c) la definizione degli obiettivi strategici e delle priorità cui
finalizzare le risorse disponibili; d) la strutturazione dei servizi e la
tipologia delle prestazioni (…); i) i criteri di qualità delle prestazioni, le
modalità di approvazione congiunta dei progetti individualizzati, le
facilitazioni all’accesso da parte dei cittadini e ogni altro elemento ritenuto
necessario ad elevare la qualità dei servizi e delle prestazioni erogate; j) la
definizione del sistema di monitoraggio e verifica» (articolo 17, comma 7).
Il piano di zona, ricordiamo, è «approvato tramite accordo di programma promosso
e approvato dal legale rappresentante dell’ente gestore al quale il piano di
zona afferisce» (articolo 17, comma 2). A tale accordo «stipulato per assicurare
l’adeguato coordinamento delle risorse umane e finanziarie», partecipano i
relativi Comuni, singoli o consorziati, le Asl, nonché «le aziende pubbliche di
servizi alla persona, i soggetti del terzo settore che concorrono investendo
direttamente proprie risorse umane, finanziarie o patrimoniali nella
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, nonché la
Provincia, per i servizi di supporto e di area vasta svolti dalla medesima»
(articolo 17, comma 9). Il comma 10, sempre dell’articolo 17, afferma inoltre
che «gli enti e le amministrazioni pubbliche che stipulano l’accordo di
programma hanno l’obbligo di rispettarlo in ogni sua parte e non possono
compiere validamente atti successivi che violino ed ostacolino l’accordo o che
contrastino con esso».
L’articolo 17 al comma 5 stabilisce che il piano di
zona dei servizi sociali deve essere «integrato nel più generale quadro delle
politiche della sanità, dell’ambiente, dell’istruzione, della formazione, del
lavoro, della casa, dei servizi, del tempo libero, dei trasporti e delle
comunicazioni». A questo proposito «la parte dei piani di zona relativa alle
attività di
integrazione socio sanitaria trova obbligatoria corrispondenza
nella parte dei programmi di attività distrettuale contenuta nei piani attuativi
aziendali per garantire la preventiva convergenza di orientamenti dei due
comparti interessati, l’omogeneità
di contenuti, tempi e procedure»
(articolo 17, comma 6).
In ogni caso, affinché il piano di zona non rimanga
uno sterile documento (17) che elenca servizi ed interventi – magari anche in
forma generica – che possono o meno essere attivati, occorrerebbe prevedere a
livello comunale o consortile una delibera specifica che garantisca ai soggetti
più deboli il preciso soddisfacimento delle loro esigenze (18).
Ambiti
di gestione
Come abbiamo già visto più sopra, i Comuni sono i «titolari delle
funzioni concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale» (articolo
6, comma 1).
A questo proposito la Regione «individua nella gestione
associata, ed in particolare in quella consortile, la forma idonea a garantire
l’efficacia e l’efficienza degli interventi e dei servizi sociali di competenza
dei Comuni e prevede incentivi finanziari a favore dell’esercizio associato
delle funzioni e della erogazione della totalità delle prestazioni essenziali»
(articolo 9, comma 1).
Tuttavia, è previsto che vengano obbligatoriamente
gestite in forma associata solo «le attività sociali a rilievo sanitario per la
tutela materno-infantile e dell’età evolutiva nonché per adulti ed anziani con
limitazione dell’autonomia, le attività di formazione professionale del
personale dei servizi sociali e quelle relative all’autorizzazione,
accreditamento e vigilanza sui servizi e sulle strutture» (articolo 9, comma 5).
Come si è già verificato negli anni scorsi, e come avviene tuttora, la mancata
obbligatorietà della gestione associata di tutte le competenze continuerà a
creare delle difficoltà, a volte anche notevoli, per i cittadini ed i nuclei
familiari in difficoltà, anche a causa dei conflitti che insorgono
inevitabilmente fra Comuni e Consorzi circa la competenza ad intervenire ed il
conseguente carico economico relativo alle prestazioni ed al personale addetto.
L’articolo 8, inoltre, stabilisce che «al fine di assicurare la migliore
integrazione con i servizi sanitari, la Regione individua gli ambiti
territoriali dei distretti sanitari o di multipli degli stessi quale ambito
ottimale per la gestione del sistema integrato degli interventi e dei servizi
sociali». Tale disposizione potrà comportare per i Comuni consorziati l’onere
della revisione dei loro assetti istituzionali, qualora il loro nuovo ambito
territoriale non corrisponda a quello attuale.
La copertura economica
Abbiamo visto come gravano sui Comuni gli oneri concernenti gli interventi
socio-assistenziali. A questo proposito la nuova legge regionale prevede che «il
sistema integrato degli interventi e servizi sociali» sia «finanziato dai
Comuni, con il concorso della Regione e degli utenti, nonché dal fondo sanitario
regionale per le attività integrate socio-sanitarie» (articolo 35, comma 1).
In merito alle dotazioni di natura economica che devono poter permettere
l’erogazione delle prestazioni di livello essenziale più sopra elencate, è
stabilito in maniera chiara che i Comuni «garantiscono risorse finanziarie» in
maniera tale da assicurare «il raggiungimento di livelli di assistenza adeguati
ai bisogni espressi dal proprio territorio» (articolo 35, comma 2).
In ogni
caso «la Giunta regionale, di concerto con i Comuni singoli o associati,
individua una quota capitaria sociale necessaria per assicurare i livelli
essenziali e omogenei delle prestazioni».
Inoltre, aspetto molto positivo, è
stabilito che «i Comuni che partecipano alla gestione associata dei servizi» (è
il caso dei Consorzi) «sono tenuti ad iscrivere nel proprio bilancio le quote di
finanziamento stabilite dall’organo associativo competente e ad operare i
relativi trasferimenti in termini di cassa alle scadenze previste dagli enti
gestori istituzionali» (articolo 35, comma 3).
Quanto sopra costituisce un
ribaltamento totale delle disposizioni previste dalla legge 328/2000 che, come
si sa, prevede che gli interventi sociali siano forniti solo in relazione alle
risorse disponibili, norme molto spesso strumentalizzate dai Comuni singoli e
consorziati per non erogare prestazioni anche indispensabili per gli utenti.
Per quanto riguarda la Regione, invece, essa concorre al finanziamento del
sistema integrato di interventi e servizi sociali attraverso proprie specifiche
risorse e con un intervento di tipo contributivo rispetto all’intervento
primario comunale. Tali risorse annuali, che «sono almeno pari a quelle
dell’anno precedente, incrementate del tasso di inflazione programmato»
(articolo 35, comma 6), confluiscono in uno specifico fondo regionale assieme
alle risorse indistinte trasferite dallo Stato e dalle Province, nonché quelle
provenienti da soggetti pubblici e privati (articolo 35, comma 7).
Il citato
fondo regionale è «annualmente ripartito tra i Comuni singoli o associati»
(articolo 35, comma 8) destinando prioritariamente le risorse a quelle «gestioni
locali conformi, sul piano progettuale, organizzativo ed operativo, alle
indicazioni e agli obiettivi fissati dalla Regione» (articolo 35, comma 9). Allo
stesso scopo «i criteri per il riparto del fondo regionale sono finalizzati a
privilegiare gli enti gestori istituiti entro gli ambiti territoriali ottimali
individuati dalla Regione (…) prevedendo anche eventuali disincentivi per la
gestione in ambiti territoriali diversi» (19).
Per quanto riguarda, invece,
le risorse finanziarie per gli investimenti, la Regione «promuove la
realizzazione della rete delle strutture sociali, socio-assistenziali e
socio-sanitarie a ciclo residenziale e semiresidenziale con l’obiettivo del
riequilibrio territoriale, dell’adeguamento agli standard definiti dalla
normativa vigente e della realizzazione di servizi innovativi» (articolo 37,
comma primo).
Mentre sono chiare e largamente individuabili le norme sopra
citate relative al “sistema integrato di interventi e servizi sociali”, nulla è
previsto per il settore dell’integrazione socio-sanitaria il cui numero di
utenti è largamente superiore a quello degli aventi diritto alle prestazioni
socio-assistenziali
Contribuzioni economiche a carico degli utenti
In
merito al previsto concorso dell’utente al costo del servizio e della
prestazione sociale, la legge regionale n. 1/2004 pur prevedendo il diritto
esigibile alle prestazioni per alcuni soggetti in estreme condizioni di bisogno,
nonché affermando a più riprese il ruolo centrale della famiglia considerata
come importante risorsa da sostenere e valorizzare (cfr. tra gli altri
l’articolo 3, comma c, punto b), prevede purtroppo la possibilità di introdurre
strumenti diversi da quelli esistenti per la valutazione della situazione
economica del richiedente con riferimento al suo nucleo familiare (articolo 40,
comma 1) (20).
Al riguardo della compartecipazione al costo delle
prestazioni, oggi sono chiare le disposizioni normative in merito alle quali non
è dato agli enti pubblici di pretendere contributi economici dai congiunti non
conviventi con gli assistiti, nonché dai parenti, anche se conviventi, dei
soggetti maggiorenni con handicap in situazione di gravità e degli
ultra-sessantacinquenni non autosufficienti.
Ciononostante, le suddette
disposizioni, tranne alcune eccezioni (ricordiamo per esempio il Comune di
Torino e diversi enti locali della prima e seconda cintura del capoluogo
piemontese), sono disattese dalla maggior parte dei Comuni della Regione
Piemonte nonché dell’intero territorio nazionale.
La legge regionale 1/2004,
pur citando i decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 dà facoltà, non ammessa
dalle vigenti leggi, alla Giunta regionale di introdurre strumenti diversi da
quelli previsti dalle sopra citate norme nazionali.
Proprio a causa del
rischio che la Giunta regionale assuma iniziative contrastanti con le attuali
leggi dello Stato, è stata avviata la seconda petizione popolare sui contributi
economici (21).
Ricordiamo, inoltre, che la legge regionale n. 62/1995
precedentemente citata (ora abrogata) all’articolo 46 prevedeva esplicitamente
che nel concorso dell’utente al costo del servizio andava in ogni caso riservata
una quota di reddito per esigenze personali. Per di più, a questo proposito la
legge 328/2000 ha previsto l’ammontare di tale quota pari al 50% del reddito
minimo di inserimento (cfr. articolo 24, comma 1, lettera g). Purtroppo la legge
1/2004 non contiene alcun riferimento alle suddette disposizioni.
Compiti delle Province
Tra i compiti assegnati alle Province (articolo 5)
ricordiamo gli uffici di pubblica tutela, nonché le competenze in materia di
cooperative sociali ed organizzazioni di volontariato.
In particolare, gli
uffici di pubblica tutela, previsti dalla legge 328/2000 all’articolo 8 comma 4,
e già contemplati (ma non attivati) con la legge regionale piemontese n. 5/2001,
sono rilanciati dalla legge in oggetto che attribuisce alle Province la funzione
di «istituzione, con le modalità e secondo i criteri stabiliti dalla Giunta
regionale, informata la competente commissione consiliare, dell’ufficio
provinciale di pubblica tutela, con compiti di supporto a favore dei soggetti ai
quali è conferito dall’autorità giudiziaria l’esercizio delle funzioni di
tutore».
Segnaliamo inoltre che l’articolo 35, al comma 8, prevede che parte
del fondo regionale «può essere ripartito tra le Province per lo svolgimento
delle funzioni e dei compiti svolti dalle stesse a supporto degli enti locali
interessati e per il funzionamento dell’ufficio provinciale di pubblica tutela».
Ricordiamo che i suddetti uffici provinciali nascono per risolvere
l’evidente situazione di incompatibilità nei casi in cui le funzioni di tutela
siano assegnate ai Comuni, o ai relativi Consorzi, ove pertanto il tutore svolge
contemporaneamente funzioni di controllore e di controllato. È auspicabile che
ad essi vengano assegnati anche i compiti di informazione/formazione dei tutori
che non sempre sono in grado di svolgere correttamente le funzioni ad essi
assegnate dalla legge (22).
L’informazione
In merito alla tematica
dell’informazione, l’articolo 3, comma 2, lettera b, della legge piemontese
1/2004 prevede l’informazione ai cittadini «dei servizi offerti e del loro
accesso ai servizi medesimi». In particolare è previsto che le attività di
«informazione e consulenza corrette e complete alle persone e alle famiglie per
favorire la fruizione dei servizi» rientrino tra le prestazioni essenziali.
A questo proposito «la Regione riconosce a tutti i cittadini il diritto ad avere
informazioni sui servizi, sui livelli essenziali di prestazioni sociali
erogabili, sulle modalità di accesso e sulle tariffe praticate nonché a
partecipare a forme di consultazione e di valutazione dei servizi sociali»
(articolo 24).
In particolare i Comuni «garantiscono ai cittadini
l’informazione sui servizi attivati, l’accesso ai medesimi e il diritto di
partecipare alla verifica della qualità dei servizi erogati» (articolo 6, comma
j).
È altresì stabilito che «entro sei mesi dall’entrata in vigore della
presente legge, con la partecipazione delle associazioni degli utenti, è
adottata in ogni ambito territoriale di riferimento la carta dei servizi, in
conformità agli schemi generali di cui all’articolo 13 della legge 328/2000»
(articolo 24).
Pertanto, entro il 30 luglio 2004 i Comuni dovrebbero aver
adottato la carta dei servizi. Tale carta, «in conformità agli schemi generali
di cui all’articolo 13 della legge 328/2000» (23) è finalizzata alla
«stipulazione da parte dei Comuni singoli o associati di un patto sociale per il
benessere della cittadinanza, attraverso l’assunzione degli impegni generali sui
servizi da attivare sul territorio» oltre che alla «individuazione, da parte dei
soggetti gestori istituzionali, dei criteri e delle mappe di accesso ai servizi,
delle modalità di erogazione e di finanziamento dei servizi e delle prestazioni,
dell’elenco dei soggetti autorizzati o accreditati, dei livelli di assistenza
erogati, degli standard di qualità dei servizi, delle modalità di partecipazione
dei cittadini al costo dei servizi, delle forme di tutela dei diritti degli
utenti, delle regole da applicare in caso di mancato rispetto delle garanzie
previste dalla carta, nonché delle modalità di ricorso da parte degli utenti,
anche attraverso gli istituti di patronato» (articolo 24, comma 5).
Inoltre,
l’articolo 25 prevede che «i Comuni singoli e associati predispongono, quale
parte integrante del piano di zona, la redazione di un piano di comunicazione
sociale che individui, oltre la carta dei servizi, ulteriori strumenti
comunicativi al fine di favorire la conoscenza delle attività, delle iniziative
e dei servizi a disposizione dei cittadini».
Al riguardo si segnala
l’importanza fondamentale dell’informazione in forma scritta in modo che i
cittadini e le organizzazioni sociali possano controllarne la correttezza. Si
porrebbe pertanto termine all’attuale situazione caratterizzata dalle notizie
false fornite ad esempio dagli assistenti sociali e dagli operatori in materia
di diritto alle cure sanitarie degli anziani cronici non autosufficienti o in
merito alle contribuzioni economiche (24).
Peraltro, la carta dei servizi
appare del tutto inutile qualora dovesse contenere solo indirizzi e numeri
telefonici (al riguardo sarebbe preferibile che le suddette informazioni
venissero inserite nelle guide telefoniche anche perché in tal modo sarebbe
garantito il necessario aggiornamento). Occorrerebbe invece che i cittadini
venissero informati per iscritto sulle condizioni (tempi di attesa,
localizzazione delle strutture, oneri a carico degli utenti, ecc.) relative
all’accesso ai servizi (ad esempio comunità alloggio, centri diurni per soggetti
con handicap grave, Rsa, ecc.) ed alla loro gestione (prestazioni fornite
gratuitamente e a pagamento, numero e qualifica degli operatori, orari, modalità
di presentazione dei reclami, ecc.).
Conclusioni
La legge regionale
1/2004 è una legge con luci e ombre. Ha sicuramente un aspetto positivo
importante: riconosce in maniera chiara diritti esigibili per alcune fasce più
deboli della popolazione. A favore di questo aspetto attribuisce ai Comuni le
relative funzioni trasferendo loro tutte le competenze assistenziali; e
stabilisce che essi debbano garantire il soddisfacimento dei bisogni dei
cittadini in stato di difficoltà socio-economiche, prevedendo lo stanziamento
delle specifiche risorse in aggiunta a quelle già regolate dallo Stato, dalla
Regione, ecc., nonché quelle provenienti dagli utenti. Su quest’ultimo
particolare, ovvero in merito alla contribuzione economica del destinatario dei
servizi, desta però un forte allarme la possibilità che la Regione Piemonte si è
attribuita nel disporre indicazioni diverse, e quindi peggiorative per gli
utenti, rispetto a ciò che è inequivocabilmente stabilito dai decreti 109/1998 e
130/2000.
La legge regionale 1/2004 non prevede disposizioni a favore di una
vera prevenzione dell’emarginazione sociale. Questo aspetto, assieme alla
mancanza di norme per il reale superamento dell’istituzionalizzazione delle
persone deboli, nasconde il pericolo, a nostro avviso, di un approccio volto
alla gestione ed al controllo dell’emarginazione sociale anziché al suo
superamento.
Le prestazioni ad integrazione socio-sanitaria trovano poi una
collocazione normativa un po’ intricata; è ciò lascia prevedere difficoltà
nell’esigibilità delle stesse.
Occorre rilevare, in conclusione, che pur
prevedendo la legge in oggetto la garanzia di importanti diritti assistenziali,
rimane quanto mai necessaria – anche sulla base della nostra esperienza
ultratrentennale – una energica attivazione delle organizzazioni sociali di
rappresentanza delle categorie più deboli affinché – facendo leva proprio sulle
disposizioni previste dalla legge regionale 1/2004 – la regione Piemonte ed i
Comuni non si sottraggano alla responsabilità di soddisfare compiutamente le
esigenze della fascia più bisognosa della popolazione.
(1) La
legge regionale 1/2004 nasce dal disegno di legge numero 407 “Norme per la
realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e
riordino della legislazione di riferimento” presentato l’8 aprile 2002 dalla
Giunta regionale piemontese. In commissione il testo è stato licenziato con
parere positivo (a maggioranza) in data 4 giugno 2003. Trasmesso al Presidente
del Consiglio regionale in data 18 giugno 2003, sono stati presentati in aula
emendamenti sul testo (relatore di maggioranza Pier Luigi Gallarini).
L’approvazione si è avuta il 16 dicembre 2003 con 28 voti favorevoli, 4 voti
contrari, 9 astenuti e 1 non votante. La legge regionale 8 gennaio 2004, n. 1, è
entrata in vigore in data 30 gennaio 2004.
(2) Occorre evidenziare che –
seppur parzialmente – è stata accolta la richiesta presentata alla Regione
Piemonte dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) di
Torino di prevedere nel testo della nuova legge regionale il diritto esigibile
alle prestazioni nei confronti delle persone in gravi difficoltà
socio-economiche. In ogni caso occorrerà nel seguito accertare se tali diritti
saranno rispettati dalle istituzioni al momento in cui verranno richieste le
prestazioni.
(3) Cfr. gli articoli 4, 5, 6 e 7 della legge regionale
piemontese 13 aprile 1995, n. 62, “Norme per l’esercizio delle funzioni
socio-assistenziali”.
(4) Cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco
Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della
legge 328/2000 e proposte attuative, Utet Libreria, Torino.
(5) Difatti,
l’art. 38, primo comma, della Costituzione così si esprime: «Ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale».
(6) A questo proposito la legge
regionale in oggetto pone una certa attenzione all’attivazione di strumenti
volti all’osservazione ed al monitoraggio del disagio delle varie fasce della
popolazione interessata, nonché alla raccolta e all’elaborazione dei dati sui
bisogni. Si veda a questo proposito l’articolo 15 che disciplina il cosiddetto
“Sistema informativo dei servizi sociali” da attuare come raccordo tra i vari
enti locali per rispondere «alle esigenze della programmazione, della gestione,
della verifica e della valutazione delle politiche sociali» oltre a voler essere
«strumento di conoscenza a disposizione di tutti i soggetti degli interventi
sociali».
(7) Come abbiamo più volte rilevato, il settore sanitario
trasferisce al settore socio-sanitario i malati cronici non autosufficienti.
Detto settore è caratterizzato dall’assenza di diritti esigibili in materia di
prestazioni domiciliari e dalla presenza di lunghe liste di attesa, anche di
18-24 mesi, per l’accesso alle Rsa - Residenze sanitarie assistenziali.
(8)
Cfr. “L’inserimento lavorativo dei soggetti con handicap: le gravi ripercussioni
negative dell’articolo 14 del decreto legislativo 276/2003”, Prospettive
assistenziali, 146, 2004.
(9) Cfr. “Anche l’esperta dell’ex Ministro Livia
Turco riconosce che nella legge 328/2000 non vi sono diritti esigibili, anzi”,
Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(10) Per approfondimenti sul metodo
e sui criteri da impiegare per una valutazione oggettiva e corretta di leggi e
delibere, nonché per informazioni sulla Scuola dei diritti, si consiglia la
consultazione del sito web http://www.fondazionepromozionesociale.it
(11) A
conferma di quanto riportato ricordiamo che nella legge finanziaria 2004 della
Regione Piemonte (legge regionale 14 maggio 2004, n. 9) in merito agli
interventi sociosanitari a sostegno degli anziani non autosufficienti è previsto
all’articolo 23 che «gli indirizzi programmatici sulla gestione delle risorse
che la Regione a tal scopo destina nell’anno 2004 per il finanziamento delle
Aziende sanitarie regionali (ASR) e quale contributo agli enti gestori delle
funzioni socio-assistenziali, sono disposti dalla Giunta regionale su proposta
degli Assessori alla sanità e alle politiche sociali».
(12) Durante il
periodo di attesa per l’accesso alle Rsa (18-24 mesi) le somme occorrenti per le
cure domiciliari o per il ricovero possono ammontare anche a 40-70 mila euro.
(13) Cfr. Massimo Dogliotti, “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in
difficoltà … ‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere
assistiti dai Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
Cfr. inoltre
gli articoli “L’assistenza alle persone in difficoltà e il “dopo di noi” devono
essere garantiti dai Comuni in base alle leggi vigenti”, Ibidem, n. 136, 2001,
“Obblighi assistenziali dei Comuni in un decreto del tribunale per i minori di
Messina”, Ibidem, n. 138, 2002.
(14) Si veda la delibera, proposta dal Csa ed
approvata dal Consiglio comunale di Torino in data 21 giugno 1978 in cui era
previsto (la norma è sostanzialmente ancora in vigore) l’erogazione del “minimo
vitale “ agli ultrasessantacinquenni ed ai soggetti impossibilitati a
procacciarsi le risorse occorrenti per vivere. Detta delibera prevedeva la
concessione del “minimo alimentare” per le altre persone in gravi difficoltà
economiche.
(15) Cfr. “Decreto sui requisiti delle strutture assistenziali
diurne e residenziali”, Prospettive assistenziali, n. 136, 2001.
(16)
Ricordiamo che l’articolo 1 comma 6 della legge 328/2000 prevede quanto segue:
«La presente legge promuove la partecipazione attiva dei cittadini, il
contributo delle organizzazioni sindacali, delle associazioni sociali e di
tutela degli utenti» senza però prevedere misure nei casi di inadempienza da
parte delle istituzioni.
(17) Cfr. “I diritti dei cittadini in difficoltà ed
il miraggio dei piani di zona”, Prospettive assistenziali, n. 137, 2002.
(18)
Cfr. “Proposta di delibera da collegare al Piano di zona”, Prospettive
assistenziali, n. 145, 2004, e “Documento di sintesi per un piano di zona”,
Ibidem, n. 146, 2004.
(19) Inoltre, sono previste agevolazioni economiche per
i seguenti soggetti gestori «a) enti che assumono la gestione complessiva degli
interventi e servizi sociali di livello essenziale; b) enti che assicurano i
livelli essenziali e uniformi delle prestazioni spostando l’attenzione dalla
domanda espressa ai bisogni rilevati; c) enti che favoriscono la
diversificazione e la personalizzazione degli interventi; d) enti che promuovono
la partecipazione effettiva di tutti i soggetti pubblici e privati e delle
famiglie nella progettazione e nella realizzazione del sistema; e) enti che
assicurano, in via prioritaria, la risposta alle esigenze di persone portatrici
di bisogni gravi; f) enti che realizzano la massima integrazione tra sanità e
assistenza, nonché il coordinamento delle politiche dei servizi sociali con le
politiche della casa, dell’istruzione, della formazione professionale e del
lavoro; g) enti che garantiscono, attraverso l’attuazione di forme di controllo
direzionale e di analisi costante delle attività in corso di gestione, la
corrispondenza dei risultati effettivamente conseguiti con gli obiettivi
prefissati nella fase programmatoria, in termini di efficacia ed efficienza dei
servizi e delle prestazioni ed assicurano un impegno finanziario dei Comuni
adeguato a sostenere le spese necessarie per fornire idonee risposte ai bisogni
del territorio» (articolo 35, comma 10).
(20) Riportiamo il primo comma
dell’articolo 40 che così recita: «La compartecipazione degli utenti ai costi si
applica ai servizi ed alle prestazioni sociali richieste prevedendo la
valutazione della situazione economica del richiedente, con riferimento al suo
nucleo familiare, attraverso il calcolo degli indicatori della situazione
economica equivalente o attraverso altri strumenti individuati dalla Regione».
(21) Cfr. “Un’altra petizione popolare contro le illegittime richieste di
contributi economici avanzate da Comuni e Asl del Piemonte ai congiunti degli
assistiti maggiorenni”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.
(22) Cfr.
Mauro Perino, “L’ambiguo compito dell’attuale pubblico tutore”, Prospettive
assistenziali, n. 141, 2003.
(23) L’articolo 13 della legge 328/2000 prevede
al comma 1 che «al fine di tutelare le posizioni soggettive degli utenti, entro
centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per
la solidarietà sociale, d’intesa con i Ministri interessati, è adottato lo
schema generale di riferimento della carta dei servizi sociali». Tale atto
amministrativo, peraltro, non ci risulta sia stato ancora emanato.
(24) Cfr.
Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Gli assistenti sociali visti dagli
utenti - Che cosa fanno, come dovrebbero operare, Utet Libreria.
www.fondazionepromozionesociale.it