Prospettive
assistenziali, n. 2, aprile-giugno 1968
EDITORIALE
ASPETTI
UMANI ED ECONOMICI DELL'ASSISTENZA
Al paragrafo 89 del programma
economico quinquennale (legge 27 luglio 1967, n. 684) si legge che gli enti e
gli organi investiti di pubbliche funzioni di assistenza
sono oltre 40.000. Tale cifra può a prima vista stupire, ma in realtà non è
difficile ricostruirla.
In primo luogo, negli 8050 comuni
italiani esistono, per le leggi vigenti:
8050 enti comunali di assistenza
8050 patronati scolastici
8050 comitati comunali dell'O.N.M.I.
8050 assessorati comunali
dell'assistenza.
In secondo luogo, per le 92 province
italiane vi sono:
92 assessorati provinciali
all'assistenza
92 uffici assistenza presso le
prefetture
92 comitati provinciali di assistenza e beneficenza
92 federazioni provinciali
dell'O.N.M.I.
92 sedi provinciali dell'A.A.I.
92 commissioni prefettizie di
vigilanza dei brefotrofi
111 brefotrofi.
Infine, poiché vi sono almeno 25
enti di assistenza per orfani, avremo 92 x 25 sedi
provinciali di questi enti e cioè 2300
In totale quindi abbiamo 35.163 enti
(salvo possibili omissioni). A questa cifra, già ragguardevole, si debbono aggiungere le numerose istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza (le ex opere pie); la cifra di 40.000 enti, indicata
dal piano quinquennale, è pertanto ampiamente raggiunta.
Tale cifra non comprende gli
istituti privati, dei quali nessuno si è mai preoccupato di fare un censimento,
ma che certamente superano il numero di 20.000.
In totale, dunque, esistono in
Italia almeno 60.000 enti di assistenza!! Ora, come
svolgono le loro funzioni questi enti? In altre parole, a che punto è
l'assistenza sociale in Italia?
_________
Sul piano dell'enunciazione dei
principi, tutti ormai sono d'accordo nel riconoscere che l'assistenza alle
persone in situazione di bisogno personale, familiare, sociale o economico, è
un preciso dovere della collettività, dovere del resto contemplato anche nella
Costituzione. L'art. 3 afferma infatti che «E' compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...». L'art. 38
dice inoltre: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari
per vivere ha diritto al mantenimento
e all'assistenza sociale».
Purtroppo però tra questi principi e
la loro attuazione pratica c'è ancora oggi un abisso. Le statistiche parlano di
più di un milione di handicappati mentali, di centosessantamila epilettici, di
centomila colpiti da paralisi cerebrale infantile, senza contare il numero
elevatissimo di minori privi di cure familiari e di anziani
soli e le altre centinaia di migliaia di persone o famiglie in situazione di
bisogno (gli iscritti agli elenchi degli E.C.A. erano, al 31 dicembre 1964, ben
2.110.000). Ora, un esame realistico della loro situazione porta
inevitabilmente a concludere che nessuna di queste persone trova in concreto
riconosciuto il proprio diritto
all'assistenza. Oggi, infatti, in Italia la pratica assistenziale
è ancora minata da gravissimi inconvenienti ed errori di impostazione: discrezionalità
degli interventi, numero troppo elevato di enti e di organi, irrazionale
distribuzione delle competenze, episodicità e
carattere elemosiniero degli aiuti, definizione delle
categorie degli assistiti non in base agli specifici bisogni, ma in base ad
astratti criteri relativi alla loro appartenenza a classi sociali diverse,
ecc. (1).
Ci sembra sia per tutti chiaro che
questi difetti di impostazione sono in netto
contrasto con quello che dovrebbe essere il principio ispiratore
dell'assistenza sociale, vale a dire il riconoscimento della dignità umana di
tutti i cittadini e la conseguente necessità di liberare dagli impedimenti le
persone impossibilitate ad usufruire dei vari servizi dell'organizzazione
sociale (lavoro, istruzione, ecc.).
Tuttavia, poiché ci sembra che gli
amministratori degli organi pubblici siano più sensibili all'aspetto economico
del problema piuttosto che ai principi di carattere generale e poiché essi accampano
continuamente la giustificazione della mancanza di fondi, vorremmo qui sottolineare, prescindendo completamente dagli aspetti
umani, quanto questi errori di impostazione siano dispendiosi anche dal punto
di vista finanziario.
Noi sappiamo, ad esempio, che la
retta minima mensile di un bambino ricoverato in istituto (2) è di L. 10.000 mensili; il costo
minimo di un ricovero di vent'anni è quindi di L.
2.400.000 (3). Ora, la spesa annua per un assistente sociale, si può calcolare
(tutto compreso) in L.
2.400.000. E' perciò sufficiente che detto assistente sociale compia un
affidamento in vista di adozione ogni anno perchè
l'amministrazione non ci rimetta. Ma, se si pensa che un assistente sociale può
realizzare almeno cinquanta affidamenti all'anno,
risulta evidente che l'assunzione di un assistente sociale è un investimento
che può rendere addirittura il 5000%.
Grande è dunque la sorpresa nel
constatare che molti Istituti Provinciali per l'infanzia (ad es. Asti, Napoli,
Venezia, Cuneo, L'Aquila, Bari, Foggia, Chieti, Genova,
ecc.) non dispongono di un servizio sociale; d'altra parte, paradossalmente,
come abbiamo riferito nel numero precedente, l'Amministrazione Provinciale di
Genova spende alcuni miliardi per costruire un nuovo brefotrofio con il 50% dei
posti in più di quello esistente, e ciò nonostante l'entrata in vigore della
legge sull'adozione speciale che dovrebbe sfoltire notevolmente il numero dei
bambini senza famiglia ricoverati.
Concludendo, crediamo di poter dire che, quando
le spese assistenziali sono calcolate con serietà e lungimiranza, la soluzione
più economica viene a coincidere con quella più corrispondente alla dignità
della persona umana. Si può pertanto affermare che «assistere meglio significa spendere meno».
(1) Per citare un
esempio, l'orfano di un aviatore è assistito in modo diverso dall'orfano di un
carabiniere (vedasi anche l'editoriale del numero precedente).
(2) La retta nei
brefotrofi provinciali varia da L.
(3) Tralasciamo di
considerare le maggiori spese per i minori che, proprio a causa del ricovero,
diventano dei disadattati e spesso finiscono i loro giorni in carcere o in
ospedale psichiatrico o restano sotto altre forme a carico della Società.
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