Prospettive assistenziali, n. 5-6, gennaio-giugno 1969

 

 

STUDI E DOCUMENTAZIONI

 

L'INSUFFICIENTE MENTALE E IL LAVORO *

 

 

Vorrei centrare il mio inter­vento su due punti a carattere prevalentemente introduttivo del tema centrale di questa Ta­vola Rotonda.

In un primo momento sembra opportuno mettere in risalto la complessità, e allo stesso tem­po la globalità e l'unità dell'in­sufficienza mentale. Da questa considerazione potrà scaturire, in secondo luogo, l'importanza del lavoro nella vita dell'insuf­ficiente mentale e la necessità di impostarlo opportunamente per un'efficace opera di recu­pero e di inserimento sociale.

La complessità dell'insuffi­cienza mentale non nasce solo dalla molteplicità di cause e dalla varietà di forme esisten­ti, ma anche (e ciò interessa particolarmente a noi) dai set­tori della personalità che ne su­biscono l'influsso. E' stato det­to molto giustamente che l'in­sufficienza mentale è essenzial­mente plurideterminata e plu­ridimensionale. E' la pluridimensionalità che a noi, ora, in­teressa.

Sarebbe facile dimostrare questa pluridimensionalità fa­cendo uno «excursus», sia su alcune delle definizioni date di insufficienza mentale, sia, so­prattutto sullo sviluppo storico del concetto. Non intendo svi­luppare questo cammino, ma so­lo fare qualche rapido cen­no (1). A concezioni che met­tevano al centro della definizio­ne un semplice sintomo, a vol­te anche molto superficiale e secondario, hanno fatto segui­to graduali integrazioni che han­no cercato di cogliere ulteriori aspetti. Si pensi a Esquirol, che distingueva i vari gradi di in­sufficienza prendendo come criterio il linguaggio; si pensi a Sinet, che in alcuni dei suoi studi, pur in forma non esclu­siva, utilizzò anche criteri mol­to simili di capacità di comu­nicazione scritta e orale; si pen­si all'esagerata importanza con­cessa da alcuni ad un criterio, valido sì, ma molto parziale, co­me è quello del Q.I., ecc.

Dopo gli studi di Tredgold e di Doll, un criterio di massima importanza ha acquistato pieno diritto quando si tratta di dia­gnosticare un caso di insuffi­cienza mentale: questo criterio è costituito dalla capacità di adattamento sociale.

Si sono aperte da allora pro­spettive nuove, non solo da un punto di vista diagnostico ma, principalmente, dal punto di vi­sta del recupero. Infatti, sono stati trovati dei soggetti che, pur restando con un Q.I. al di sotto dei limiti, raggiungevano un soddisfacente inserimento sociale. Ciò ha evidentemente stimolato l'opera educativa a favore degli insufficienti men­tali, sia sul piano scolastico, sia, soprattutto, sul piano del lavoro e dell'inserimento so­ciale.

Un altro passo avanti in que­sta linea è stato fatto quando si sono scoperte insufficienze mentali che avevano alla base, non una organicità, ma una gra­ve deficienza affettiva: l'impos­sibilità di separare, nella pri­ma infanzia, lo sviluppo intel­lettuale dallo sviluppo affettivo può facilmente spiegare la con­fusione che ha potuto, a volte, realizzarsi. M. Mannoni ha scrit­to che nella storia della medi­cina occorrerà tener conto del giorno in cui alcuni psicanalisti, in seguito ad una esperienza di psicoterapia con deboli men­tali, scrissero: «non sembra inconcepibile che idiozia, imbe­cillità e debolezza mentale non siano molto frequentemente al­tro che forme di autismo... cioè forme psicotiche che esigono essere trattate come tali» (2).

Queste conquiste, che da una parte hanno reso enormemente complesso il concetto di insuf­ficienza mentale, hanno, d'altra parte, ridotto il nero pessimi­smo che incombeva sulle pos­sibilità di recupero di questi soggetti. Servano a testimonia­re il reale, misurato ottimismo che oggi regna in questo set­tore le seguenti parole di Zaz­zo: «La debolezza mentale non è definibile soltanto per il rit­mo intellettuale di crescita che sappiamo rimanere più o meno costante durante l'infanzia: essa è una nozione relativa a certi criteri sociali, essa è an­che uno stato che evolve qua­litativamente con l'età.

Se è così, una prognosi as­solutamente certa è impossibi­le non solo di fatto, per l'im­perfezione delle nostre cono­scenze, ma anche di diritto.

Dobbiamo felicitarci dell’esi­stenza di questo margine d'in­certezza. Questa incertezza, conclude Zazzo, è il margine di libertà nel quale può esercitar­si l'azione formatrice e trasfor­matrice dell'ambiente. Questa incertezza è una negazione del­la fatalità» (3). Vediamo così, come la complessità dell'insuf­ficienza mentale è uno dei fat­tori che favoriscono il recupero.

L'insufficienza mentale, co­me tutti gli altri disturbi che toccano la psiche, si esprime in comportamenti molto vari. Queste varie manifestazioni pongono un problema che su­pera la settorialità del disturbo. L'intervento, perciò, dovrà su­perare l'azione diretta sul set­tore primariamente o partico­larmente colpito. L'intervento, cioè, non potrà essere indiriz­zato ad un semplice recupero funzionale o suppletivo della minorazione intellettiva, ma do­vrà tenere presente tutta la gamma di espressioni dell'in­sufficienza.

Ma tutta la gamma di espres­sioni dell'insufficienza mentale, nella sua varietà, sta a dirci in modo quasi paradossale l'uni­tà esistente in ogni forma di disadattamento. Questo influs­so di un settore colpito su di tutta la personalità, mentre ci dimostra l'interdipendenza dei vari aspetti di essa, ci conduce ad affermare un elemento unitario che deve essere tenu­to presente nella impostazione di qualunque tipo di interven­to. La complessità dell'insuffi­cienza mentale, perciò, non è anarchica, ma rimane inserita in una certa globalità; e questa globalità è anch'essa, a sua vol­ta, come la complessità, un ele­mento favorevole per l'efficacia del trattamento.

Possiamo ora fare un cenno al secondo problema, e cioè all'importanza del lavoro, non so­lo come mezzo di sostentamen­to, ma specialmente come ele­mento che favorisce l'inseri­mento sociale e l'opera di re­cupero in genere.

Quanto abbiamo visto finora ci porta a tener presente più di un aspetto, nell'esaminare le possibilità di utilizzazione del lavoro nell'opera di recupero dell'insufficiente mentale.

Il problema del lavoro dell’insufficiente mentale è al cen­tro dell'attenzione di organismi internazionali e nazionali, scien­tifici, sociali o politici, in mo­do intenso da una quindicina di anni. Se ne sono occupati l'ONU e l'UNESCO, il BIE e il BIT, il BICE, la Lega Internazio­nale delle Associazioni Pro Sub­normali, la Associazione Inter­nazionale per la Riabilitazione dei Disadattati, la POA, la ANE­GID, la SIAME, ecc. Se ne sono occupate le personalità di pri­missimo piano di questi ultimi anni: Giovanni XXIII, John Ken­nedy, Paolo VI (4).

Noi non pretendiamo fare una sintesi di queste varie di­chiarazioni o conclusioni di stu­di. Pur tenendole presenti, il nostro scopo, ora, è solo quello di collegare quanto ho detto precedentemente sul concetto di insufficienza mentale con alcuni aspetti del problema dell'inserimento sociale del sub­normale tramite il lavoro.

Abbiamo visto come l'insuf­ficienza mentale si ripercuota sui vari aspetti della persona­lità. Il recupero, perciò, è an­che pluridimensionale e l'azio­ne da svolgere, come i mezzi da utilizzare, devono essere presi nelle loro possibilità po­livalenti.

E' così che deve essere con­cepito il lavoro di tali soggetti: non solo come un mezzo di re­cupero settoriale, non solo co­me una possibilità di autono­mia economica, non solo come un modo di arrivare ad essere membro utile e produttivo della società, ma, prima di tutto que­sto e soprattutto, come il mez­zo più sicuro per favorire lo sviluppo e l'espansione perso­nale. Quest'idea fu già chiara­mente sostenuta, dieci anni fa, a Lisbona, nel VII Congresso del BICE; in esso si affermò che l'adattamento professiona­le dei soggetti deficitari (fisici, psichici o sociali) «non è so­lamente un beneficio per la società ma, particolarmente, il mezzo più sicuro per favorire la loro espansione personale.

Nasce di qua la necessità so­ciale di favorire l'inserimento lavorativo dei disadattati, indi­pendentemente dalla loro pro­duttività reale, ma tenendo con­to che un buon adattamento professionale permetterà il massimo di rendimento... e, in conseguenza, per quanto para­dossale possa sembrare, anche il minore che soffre di una ma­lattia a evoluzione fatale; ha di­ritto, almeno in nome di quella espansione personale, ad un orientamento e ad un inseri­mento professionale».

Ben affermato e chiarito que­sto principio di base, che sca­turisce spontaneamente dalla natura umana, ma che viene confermato anche dalla natura della insufficienza mentale nel­la sua globalità e complessità, come abbiamo visto, è eviden­te che il lavoro deve soddisfare certi requisiti, se desideriamo che abbia questo valore educa­tivo e liberatore della persona­lità.

Ci sembra che prima carat­teristica del lavoro debba es­sere quella di rispondere alle capacità globali e specifiche del lavoratore. Solo così il la­voro potrà essere un elemento integratore ed uno stimolo al­lo sviluppo e non una dura con­danna inibitrice. Questa esi­genza è maggiormente sentita nel settore della insufficienza mentale, trovandoci davanti a soggetti limitati anche nelle sorgenti di soddisfazione per­sonale e bisognosi assoluta­mente del lavoro come mezzo di autoaffermazione e di rea­lizzazione.

Ma questo adeguamento del lavoro all'uomo è, per quanto riguarda l'insufficiente menta­le, particolarmente difficile. Bi­sogna, infatti, tener presente non solo la relazione iniziale tra esigenze di lavoro e capaci­tà necessarie per eseguirlo, ma anche le sicure modificazioni future delle abilità, sia in sen­so positivo che in senso nega­tivo. Le capacità del subnorma­le non sono né fisse, né stati­che, ma dinamiche e subiscono l'influsso, anche se in forma particolare, non solo dello svi­luppo e dell'apprendimento, ma anche di un eventuale deterio­ramento o arresto precoce. Ciò pone l'esigenza di un periodico controllo del rapporto «requi­siti del lavoro - abilità del la­voratore», per mantenere lo stesso entro i limiti ottimali. L'esperienza ha già dimostrato molte volte che, in questi ca­si, tanto il lavoro particolar­mente difficile come il lavoro particolarmente facile perdono il loro valore formativo ed in­tegrante. Le difficoltà del la­voro debbono essere aumenta­te o diminuite in rapporto allo sviluppo o al deterioramento delle capacità del soggetto.

A nessuno sfuggono, certa­mente, i grossi problemi prati­ci che sorgono da una tale esi­genza, aumentati, nella situa­zione concreta italiana, da un tasso di disoccupazione che rende particolarmente acuta la competizione e particolarmente severa la selezione. L'Italia, d'altra parte, offre ancora scar­sissime possibilità di lavoro protetto.

E qui è celata una grande in­giustizia, di cui forse non sia­mo coscientemente colpevoli, ma che non per questo lascia di essere un pugno in faccia al­la verità. Già nel 1959, nel Con­gresso del BICE citato sopra, la Commissione incaricata di questo settori di studi diceva: «I principi di selezione adottati nelle differenti professioni non debbono tendere necessaria­mente alla ricerca del tipo per­fetto sotto tutti gli aspetti, ma debbono mirare ad aprire tali professioni a quei soggetti per i quali il disadattamento non è radicalmente incompatibile con l'esercizio del mestiere in que­stione. Certe limitazioni, d'al­tra parte, che sembrano a pri­ma vista delle controindicazio­ni, possono per il contrario comportare delle compensazio­ni tali che si traducono in un migliore rendimento».

L'esperienza di tutti i giorni sta dicendoci, ed è qui il pu­gno in faccia alla verità, se non lo accettiamo, che il lavo­ro degli insufficienti mentali non è un lavoro improduttivo, in molti casi, ma che essi rie­scono, a volte, a competere con il rendimento lavorativo dei soggetti normali.

Purtroppo, il rendimento la­vorativo non è esclusivamente correlato con certe attitudini, ma risente molto di fattori che apparentemente potrebbero es­sere giudicati o soltanto preli­minari e superabili, oppure to­talmente estranei al rendimen­to. Vogliamo riferirci, in con­creto, al tipo di orientamento professionale che a volte vie­ne fatto e alle difficoltà di rap­porto umano e sociale che il lavoro, e soprattutto un certo tipo di lavoro, porta con sé.

Per quanto riguarda l'orien­tamento professionale e l'ap­prendistato, c'è da segnalare, come già fece A. Giordano nel VII Congresso del SIAME tenu­tosi a Palermo nel settembre del 1964, la scarsissima corre­lazione esistente tra apprendi­stato e tipo di lavoro succes­sivo ad esso; allo stesso modo si è dimostrata scarsa la corre­lazione tra successo scolasti­co e inserimento sociale. Sem­bra che, nell'orientamento pro­fessionale di questi soggetti, non si tenga sufficientemente conto né dei gusti dei ragazzi, né dei desideri dei genitori, né delle condizioni dell'ambiente d'origine.

D'altra parte, sappiamo an­che che le maggiori e più gravi difficoltà di buon adattamento lavorativo dei subnormali non nascono tanto dalla materiale esecuzione del lavoro, quanto dai rapporti sociali orizzontali e verticali che la vita di lavoro stessa impone loro.

Come si vede, due delle dif­ficoltà, che in qualche modo diminuiscono il rendimento dell'insufficiente mentale, e ren­dono problematico il suo inse­rimento sociale, sono delle dif­ficoltà che possiamo, giusta­mente, chiamare estrinseche, che non appartengono, cioè, al subnormale in quanto esecuto­re di un determinato lavoro.

Dobbiamo ricavare da qui due conclusioni, ribadite già ampia­mente in tante occasioni, ma non sufficientemente attuate:

a) tra le primordiali preoccu­pazioni dell'educatore di insuf­ficienti mentali, deve esserci quella di studiare bene l'avve­nire professionale di ogni sin­golo educando e di prepararlo tempestivamente, attraverso un serio lavoro di orientamento continuato, ad inserirsi nel po­sto a lui adatto, tenendo presenti tutte le esigenze oggetti­ve e soggettive che possono condizionarne il rendimento;

b) è assolutamente necessa­rio che il subnormale, quando prende contatto con il mondo esterno del lavoro e in qualun­que modo avvenga questo con­tatto, si senta sostenuto ed ap­poggiato da un servizio sociale preparato e competente.

A queste condizioni, come tanti centri ormai dimostrano con eloquenti dati alla mano, l'inserimento sociale del sub­normale e la sua produttività diverranno, in molti casi, delle realtà consolanti. Se è vero che nel settore scolastico l'insuffi­ciente mentale ha potuto dare delle delusioni, è altrettanto vero che nel settore del lavoro queste delusioni sono di molto ridotte.

In fondo, questi soggetti ci richiamano all'essenzialità e al­la centralità di un problema. Un subnormale non riuscirà, forse, e non ne ha nemmeno bisogno, a dirci a memoria, in ordine alfabetico, tutti i capo­luoghi delle province italiane (come alcuni anni fa vedevo che un bambino di istituto cercava di fare, stimolato dalla sua insegnante), ma imparerà, pe­rò, ad eseguire un lavoro mec­canico e pratico, che sarà per lui una sorgente di soddisfazio­ne e di serenità, e per la so­cietà una collaborazione ed un servizio umano e produttivo ad un tempo, di cui si sente for­temente il bisogno.

Ed ecco, per finire, un'ultima riflessione, che è stata alla ba­se dei due punti cui ho accen­nato in questo breve intervento.

Ho concluso la prima parte rifacendomi ad alcune frasi di Zazzo, che ci mostravano come la scoperta della complessità del concetto d'insufficienza mentale sia stata una fonte di moderato, ma reale ottimismo. Tale concetto era stato formu­lato in modo troppo parziale e semplicistico e in questa ele­mentarietà erano rimasti na­scosti, e perciò sconosciuti, al­cuni aspetti veramente fecondi per il recupero.

Allo stesso modo, questa se­conda parte ha voluto ricordar­ci che le esperienze degli ulti­mi anni ci hanno mostrato un insufficiente mentale capace di un recupero nel settore lavora­tivo, che non si sognava solo venti o trent'anni fa. Anche qui, la nostra ignoranza e imprepa­razione precedenti non ci ave­vano permesso di scoprire ric­chezze nascoste in ogni essere umano, anche in quelli meno dotati intellettualmente.

Sono stati in parte loro, gli stessi insufficienti mentali, ad aiutarci a trovare una strada più giusta per il loro recupero. E tutti dobbiamo, non solo es­sere lieti di queste ultime sco­perte, ma sentirci anche impe­gnati a proseguire alacremen­te su questa strada che si è dimostrata feconda. Ripetendo una frase felice di Carlo De Sanctis, dobbiamo oggi ricono­scere che abbiamo sottovalu­tato gli insufficienti mentali, che troppo facilmente ci siamo chiusi in una concezione stati­ca e passiva, che le realtà fortunatamente ci hanno, oggi, smentito.

Le mie ultime parole voglio­no, perciò, essere anch'esse parole di pacato ma reale otti­mismo, di fiducia nelle possibi­lità nascoste dietro le insuffi­cienze.

Per il bene della società, per il bene di tutti, ma soprattutto per il bene di questi soggetti, rielaboriamo adeguatamente la nostra concezione di insuffi­cienza mentale e apriamoci a nuove speranze, guardando con più fiducia alle possibilità di re­cupero di ogni subnormale.

MANUEL M. GUTIÉRREZ

 

 

 

* Intervento nella Tavola Rotonda su «L'inserimento del subnormale nella società tramite il lavoro», tenutasi a Torino il 27 aprile 1968, organizzata dall'Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli Subnormali. Da «Orienta­menti Pedagogici» n. 6, 1968, pp. 1278-83 (per gentile concessione).

(1) Un'esposizione più dettagliata di questo «excursus» si può trovare nel nostro lavoro Che cosa è l'insuf­ficienza mentale «Formazione e La­voro», 19, maggio-giugno 1967, pp. 2-5.

(2) MANNONI M., L'enfant arriéré et sa mère, Paris. Ed. du Seuil, 1964, pp. 128 e 137.

(3) ZAZZO R., Une recherche d'équipe sur la débilité mentale, «Enfance», 1960, n. 4-5, p. 364.

(4) Una ricca documentazione su mol­ti di questi interventi si può trovare nel numero della Rivista «Formazio­ne e Lavoro», precedentemente ci­tata, alle pp. 92-106. Le altre notizie possono trovarsi nel nostro lavoro Il domani professionale dei bambini in­sufficienti mentali, «Orientamenti Pe­dagogici», XII (1965), pp. 198-212.

 

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