Prospettive assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969

 

 

DIBATTITI

 

ADOZIONE INTERRAZZIALE

 

 

Ha avuto luogo in Milano il 23 marzo 1969 una tavola rotonda sull'adozione internazionale. Pubblichiamo una sintesi delle tre relazioni.

 

 

Sintesi della relazione svolta dal Dr. Giuseppe Delfini, Consigliere di Cassazione e Presidente dell'Unione Italiana Giudici per Minori.

 

Secondo l'ordinamento giuridico italiano la citta­dinanza si trasmette di padre in figlio, in virtù del rapporto giuridico di filiazione (che non sempre e non necessariamente corrisponde al dato biologico). Le leggi italiane si possono distinguere a seconda che si applichino soltanto ai cittadini (diritto di fami­glia), oppure ai cittadini e a coloro che si trovino sul territorio italiano (leggi penali e imperative), ovvero ai cittadini e agli stranieri sotto condizione di reciprocità (leggi relative ai cosiddetti civili), o infine a tutti gli esseri umani a prescindere dalla con­dizione di reciprocità (norme protettive o assisten­ziali); in tema di rapporti familiari, agli stranieri si applicano, in ogni caso, le leggi dello Stato cui essi appartengono.

L'istituto dell'affiliazione rientra tra le norme assistenziali e può applicarsi in favore di qualsiasi bambino, qualunque ne sia la cittadinanza.

Per quanto riguarda l'adozione speciale, si deve riconoscere la funzione prevalentemente protettiva della persona umana alla dichiarazione di adottabilità, in quanto accertamento dello stato di abbandono; essa quindi può essere emessa anche nei riguardi di un bambino straniero che si trovi in Italia, ma i suoi effetti sui rapporti familiari del bambino stesso sono determinati dalla legge straniera, e cioè condizionati all'esistenza, nella legge straniera, di norme che pre­vedano l'estinzione del rapporto di filiazione in se­guito all'abbandono da parte del genitore.

Analogamente l'adozione speciale di un bambino straniero richiede che la sua legge nazionale (le legge straniera) preveda, anche se con nome diverso, un istituto giuridico corrispondente alla nostra adozione speciale, e cioè di distacco totale dalla famiglia di origine e l'inserimento definitivo e integrale nella famiglia acquisita. In pratica la prova migliore dell'esistenza di questa condizione si ha quando l'auto­rità giudiziaria straniera consente l'espatrio del bam­bino affidandolo definitivamente, sotto vario nome, ad uno straniero affinché ne prenda cura per sempre.

Il giudice italiano, pur tenendo presente la legge straniera ai fini dell'adozione speciale, non potrà mai applicare quelle disposizioni in essa contenute, che fossero eventualmente contrarie ai principi fon­damentali della nostra Costituzione (es.: divieto di adozione in base a discriminazioni religiose). L'origine straniera del bambino da adottare ri­chiede una particolare cura nella selezione dei geni­tori adottivi e, prima della pronuncia definitiva, una attenta indagine sulla sua inserzione non soltanto nella famiglia adottiva, ma anche nella società ita­liana, con tutti i doveri che essa comporta. Non è escluso che, in certi casi, possa essere più opportuno autorizzare l'affiliazione, che non comporta il muta­mento della nazionalità del bambino e non impone a lui - quando sarà adulto - gli obblighi propri del cittadino italiano.

 

Sintesi della relazione svolta dal Dr. Guido Cat­tabeni, psicologo.

 

Non mi sorprende che l'idea di trapiantare un bambino in un contesto non solo culturale, ma anche spesso razziale diverso da quello di origine, susciti oggi nella nostra società una serie di interrogativi, di dubbi e di prese di posizione, talvolta anche contra­stanti, sull'utilità o meno di questo tipo di adozione. Queste incertezze e queste opinioni contrastanti mi pare che siano dovute in parte alle risonanze emotive che un'idea di questo genere suscita in ogni individuo che è portatore di una determinata storia familiare e di un determinato bagaglio culturale, in quanto è membro di una società che lo determina e lo condi­ziona con la sua dinamica di gruppo, con i suoi tabù e le sue difese. Ma in parte mi pare che ciò sia dovuto anche all'obbiettiva mancanza di informazione sul problema, che è l'inevitabile conseguenza di un difetto di esperienza in proposito, tanto che è spesso difficile contrapporre dati positivi e sperimentali riguardanti il contesto socio-culturale italiano, a quello che a volte sono semplici razionalizzazioni più o meno difensive che si sentono fare in merito. Tuttavia mi pare che il difetto di dati sperimentali non impedisca di vedere alcuni aspetti psicologici e sociali intorno all'adozione interrazziale.

Innanzi tutto mi pare che ci sia una domanda alla quale si può rispondere e che potrà ad alcuni apparire superata, ma che mi pare in molti casi si allacci alla coscienza, e cioè se individui di razze diverse dalla nostra sono fatti come noi, hanno le stesse nostre potenzialità psicologiche, hanno bisogno delle stesse cose di cui noi abbiamo bisogno per lo sviluppo pieno della personalità.

I più recenti studi svolti in tutti i campi per­mettono di rispondere che non esistono differenze significative, non esiste cioè un patrimonio ereditario diverso al punto di avere differenti potenzialità e quindi differenti esigenze per uno sviluppo pieno della personalità. In concreto si può dire che ogni bambino di qualsiasi razza necessita, per il suo cor­retto sviluppo, di cure materne e di una famiglia. Evidentemente con questo non si vuol dire che abbia bisogno della famiglia così come la concepiamo noi, ma semplicemente si può dire che necessita di un rapporto interpersonale costante e prolungato, di un rapporto privilegiato con persone che lo amino. Si può quindi affermare che non esistono difficoltà di adattamento significative per un bambino di pochi giorni inserito in una famiglia di razza e cultura diverse.

Le difficoltà di adattamento invece aumentano quando ci sia stato un periodo di vita di un contesto sociale diverso da quello adottivo. E sono natural­mente gli stessi problemi che incontrano i bambini italiani quando sono adottati dopo un periodo di vita in un altro ambiente, diverso da quello della famiglia adottiva. Evidentemente queste difficoltà di adatta­mento sono maggiori in proporzione al periodo di vita passato altrove e in proporzione alla diversità, della cultura originaria rispetto a quella di acquisi­zione. Bambini perciò di qualche anno di età, cre­sciuti in un gruppo culturale molto diverso dal nostro, avranno maggiori difficoltà di adattamento rispetto agli adottivi italiani della stessa età.

Mi pare che ne derivi una norma raccomandabile in questo campo, e cioè quella di realizzate adozioni internazionali con bambini giovanissimi, possibilmente di età inferiore all'anno o comunque non molto supe­riore all'anno.

Ma mi pare che vi sia un secondo e più preoccu­pante interrogativo: anche se questo adattamento al gruppo familiare si realizza, potranno adattarsi un giorno nel più grande gruppo sociale, cioè nella nostra società? Cioè quando andranno a scuola, al lavoro, vorranno sposarsi, che cosa succederà? E' un aspetto che dal punto di vista psicologico è di enorme impor­tanza in quanto sappiamo che l'organizzazione della personalità è influenzata oltre che dai processi biolo­gici, oltre che dall'organizzazione dell'esperienza dell'io individuale (abbiamo visto che da questo punto di vista siamo tutti nelle stesse condizioni), è influen­zata anche dal contesto sociale che è in stretta rela­zione con i due precedenti. Vuol dire che il problema dell'inserimento sociale diventa estremamente impor­tante perchè si possa avere uno sviluppo corretto, pieno, della personalità.

Le esperienze già fatte negli Stati Uniti e in Ca­nada, direi che non possono essere utilizzate, così come sono, da noi, perchè la nostra società non è già per sua natura composta da membri di razza diversa. Comunque, penso che qualcosa si possa dire, e cioè che possiamo prevedere che ci saranno non poche difficoltà di adattamento, nel nostro contesto socio­culturale, per soggetti di altre razze.

Il fatto, di essere diverso, per un bambino, per un ragazzo, per un adolescente in modo particolare, gli sarà fatto più o meno sentire molto presto e in continuazione. Il bambino e il ragazzo non potranno non tenerne conto nelle loro relazioni sociali, dovranno imparare ad adattarsi a questa loro diversità, con tutte le conseguenze che comporterà a livello delle rela­zioni di gruppo.

Ma non si tratta solo di un problema dell'adot­tato, queste difficoltà saranno di tutto il gruppo fami­liare, di cui egli sarà un componente; ma mi pare che proprio questo aspetto, cioè la difficoltà non è portata soltanto dall'adottato, ma è un peso che porta tutta la famiglia, racchiuda in sé proprio un elemento positivo. Cioè proprio questo appartenere alla fami­glia potrà anche consentire all'adottato di superare i suoi problemi, naturalmente se la famiglia sarà psicologicamente sana, capace di mantenere il suo equilibrio, quando un suo membro sarà messo nelle difficoltà particolari cui abbiamo accennato, capace di aiutarlo a risolvere i suoi problemi.

Mi pare si possa dunque dire che oggi in Italia l'adozione di un bambino di altra razza presenti alcuni inconvenienti che riguardano soprattutto il futuro adattamento sociale.

Le incognite possono essere meno pesanti se la famiglia adottiva è matura ed è in grado di far fronte a queste difficoltà, se è matura come gruppo e se è matura nei suoi singoli membri, meglio anche se non isolata e può contare sull'appoggio da parte di un «entourage» in grado di comprenderla e di appoggiarla nei momenti di maggior difficoltà.

Un altro elemento a favore, che può aiutare in questo senso e che non è da trascurare, è la rapida evoluzione della nostra società, sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di ogni genere, che stanno gradualmente infrangendo le barriere etniche e cul­turali, e che permettono di conoscersi molto meglio nonostante le distanze ed il diverso patrimonio cul­turale, riducendo le differenze e le difese tra gruppi diversi.

Mi pare che ne derivino concetti abbastanza chiari per quel che riguarda le caratteristiche che deve avere una famiglia che adotta un bambino di altra razza: cioè mi pare si possa dire che debba essere una fami­glia che ha delle motivazioni sane, e non di tipo narcisistico, che non desidera comunque utilizzare l'adozione per «farsi bella». C'è infatti la possi­bilità di un certo snobismo dell'adozione internazio­nale, e bisogna starci attenti. Evidentemente si esclu­dono tutti coloro che, più o meno consciamente, vogliono realizzare questo tipo di adozione per risol­vere problemi nevrotici, per risolvere problemi personali o famigliari. In questa logica mi pare che ognuno dovrà realisticamente valutare le proprie forze in rapporto alle sicure difficoltà che la famiglia incon­trerà. Solo una decisione presa in questo modo mi pare che consenta di ridurre le possibilità di insuc­cesso. Evidentemente proprio la mancanza di espe­rienza in proposito non può ridurre la quantità di rischio che è inserita in una scelta e in una decisione di questo genere. Mi pare tuttavia che quando sussi­stono condizioni e garanzie sufficienti nel senso detto prima, l'adozione internazionale possa essere deside­rabile e addirittura possa favorire i1 maturare in tutti noi di un modo nuovo di concepire i rapporti tra le persone di tutto il mondo. Naturalmente chi comincia si trova in una situazione di maggior difficoltà rispetto a chi verrà più tardi, e pagherà qualcosa perchè avvenga questo cambiamento, questa maturazione sociale.

 

Sintesi della relazione svolta dal Dr. Giuseppe Cicorella, Presidente del Centro Italiano per l’adozione internazionale

 

In questi ultimi anni sono sorti, negli Stati Uniti, in Canada, in Svizzera, in Francia, nel Belgio e nei Paesi scandinavi e in molti altri Paesi organizzazioni che hanno lo scopo di realizzare adozioni internazio­nali. Quali sono i motivi? Io li dividerei in due ordini fondamentali:

1) la continua diminuzione di bambini adot­tabili in questi Paesi ed il continuo aumento di famiglie che desiderano adottare. Tanto è vero che, da 50 anni a questa parte, bambini italiani sono andati verso gli Stati Uniti e soltanto in questi ultimi anni il flusso è pressoché arrestato; anche adesso - dove è presente - è provocato dalla spinta della richiesta che proviene da altri Paesi, e non prevalen­temente sotto la spinta dell'interesse del bambino ad avere una famiglia;

2) la seconda motivazione è invece quella che considera prima di tutto la necessità per il bambino ad avere una famiglia, e quindi cercare una famiglia idonea per quel bambino. Questo è l'unico presup­posto all'adozione internazionale così come la vediamo noi.

Negli Stati Uniti sono sorti movimenti come la Welcome Houses, lo Holt Program, le National Ca­tholic Welfare Conferences; nel Canada l'Open Door Society. In Europa è sorto recentemente il Vietnam Orphans Program, inglese. Sono sorti altri movimenti in Svizzera, Germania, Belgio, Francia - come il movimento Terres des Hommes - che ha fatto le adozioni più «audaci» dal Vietnam, dalla Corea, dal Senegal.

Come si colloca il Centro Italiano per l'adozione internazionale?

Noi non vorremmo essere tanto tecnici da dimen­ticare che esistono al mondo migliaia di bambini senza famiglia, però non vorremmo neppure dire: carichiamo un aereo di bambini, e portiamoli in Europa.

Quindi: attenzione, rispetto, vigilanza continui per tutti gli aspetti tecnici del problema. I primi 5 anni sono stati infatti dedicati alla raccolta di docu­mentazione.

A questo punto viene in mente quello che già nel 50 diceva il Kirk, cioè mentre a livello interna­zionale esistono molti controlli per quanto riguarda i passaggi tra Paesi di verdure ed animali, molto meno controlli esistono per il passaggio dei bimbi da un Paese all'altro.

Infatti per quanto nel maggio del '60 si siano tenuti, sotto l'egida delle Nazioni Unite, i colloqui di Leysin, le conclusioni raggiunte sono rimaste a livello di consigli, e nulla più.

La Conferenza dell'Aja di diritto internazionale privato ha elaborato due avanprogetti sulle autorità Competenti in materia di adozioni, ma nessuna norma è stata emanata.

Qualche esperienza in questo senso ci viene dai Paesi Scandinavi. Mi risulta che in Svezia vi sia un organismo parastatale che controlla queste adozioni, valuta l’idoneità delle famiglie e guarda gli aspetti tecnici e psicologici del problema.

Io penso che, poiché questi bambini diventeranno figli legittimi dei genitori adottivi, il Tribunale per i minorenni dovrebbe avere il compito di seguire que­ste adozioni e l'inserimento nella famiglia e nella società di questi bambini. Mi sembra che i Tribunali per i minorenni italiani potrebbero avere il compito di valutare l’idoneità delle aspiranti coppie adot­tive, prima di procedere all'adozione internazionale.

Vediamo ora come il Centro realizza queste ado­zioni. Gli aspiranti all'adozione presentano una do­manda al CIAI e sono invitati ad inoltrare domanda generica di adozione al Tribunale per i minorenni del loro distretto. Esperti in materia di adozione condu­cono tutti gli accertamenti necessari per provarne l'idoneità sotto il profilo giuridico, psicologico e sociale. Una volta accertata l'idoneità dei coniugi, viene pre­sentata domanda alla magistratura del Paese d'origine del bambino, che decreta la tutela (guardianship) per un preciso bambino alla coppia richiedente. Lo studio psicosociale del bambino è condotto da assistenti sociali nel paese d'origine. Il Centro segue tutti que­sti momenti, organizza il viaggio del bambino, cura l'incontro con la nuova famiglia, aiuta e segue l'inse­rimento familiare del bambino.

Scopo principale del Centro è però quello di sen­sibilizzare sui problemi dell'adozione l'opinione pub­blica, non solo in Italia, ma soprattutto nei Paesi d'origine dei bambini. Per poter perseguire questo scopo, si è dato avvio al Centro Indiano per l'ado­zione che ha sede in Bombay ed è costituito preva­lentemente da indiani. Anche un'assistente sociale irlandese che opera per il CIAI è in questo momento in India.

L'esperienza condotta dall'Holt Adoption Program di Corea ci insegna che dove esistono servizi sociali per le adozioni di bambini all'estero, essi costituiscono uno stimolo anche per le adozioni nel Paese stesso.

 

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