Prospettive
assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969
STUDI
ASPETTI DEL
DISADATTAMENTO E PROSPETTIVE DI SOLUZIONE
Il disadattamento dei ragazzi può
essere facilmente malinteso se ci si ferma all'aspetto più superficiale, alle
sue espressioni più violente, e non ci si sforza di ricostruirne, seppure in breve,
il senso più autentico. Infatti la violenza delle sue
manifestazioni lo colloca spesso nell'ambito della delinquenza minorile; e
anche se oggi si è ormai convinti, negli ambienti più responsabili, che il
disadattamento non sia una colpa, l'opinione pubblica è ancora portata a
giudicare con un'equivoca severità il comportamento dei ragazzi difficili, a
non tollerarli ed a richiedere quindi un intervento autoritario che in qualche
modo li escluda.
Il disadattamento è indubbiamente un
problema complesso. Tanto complesso che uno studioso americano lo paragonava
all'elefante incontrato da un gruppo di ciechi: ciascuno
ne tocca una parte e la scambia per il tutto; e per uno l'elefante è zanna, per
un altro proboscide, per un terzo coda. Non bisogna quindi porsi di fronte al
problema con l'ambiziosa pretesa di svilupparlo,
spiegarlo in breve e tutto. Bisogna accennare e sperare di potere contribuire
ad un orientamento, non altro.
Volendo trovare un minimo fattore
comune del disadattamento, si può interpretarlo come risultato di una mancanza di integrazione della personalità ad un ambiente. Il
bambino, appena nato, desidera il cibo e con esso il
calore di un corpo, l'affetto attraverso le carezze. I suoi primi desideri
sono elementari; ma non si possono ridurre a risposte meccaniche: non è
sufficiente rispondere al desiderio di cibo col solo cibo,
ma è indispensabile considerare unitariamente cibo e affetto, perchè il
bambino, anche se molto piccolo, non è mai solo stomaco.
La soddisfazione dei desideri è quindi
intimamente legata all'instaurarsi di un contatto più o meno
valido con la realtà circostante: nella misura in cui questo rapporto è valido,
il bambino sarà portato ad aderire alla realtà. Se si ha la certezza che la
realtà è in grado di fornire la soddisfazione dei desideri, si può dilazionare
nel tempo il raggiungimento del risultato, sopportare un'assenza, una
delusione, una frustrazione, sottoporre la soddisfazione e la fruizione di un piacere ad una scala di valori, ad una
logica e ad una prospettiva di tempo e spazio derivata dall'incontro fra la
singola persona e l'ambiente. E' questa
l'integrazione, da non confondersi con la stessa parola usata a significare la
passiva accettazione di una società con le sue ingiustizie, 1'inglobamento in
una situazione statica e utile a conservare il sistema. L'integrazione di cui
parliamo può anzi portare l'individuo ad opporsi validamente alle ingiustizie
dell'attuale società.
Il bambino che non goda dell'affetto e del calore, ma di una assistenza attenta
solo ai suoi pasti, può facilmente stabilire con l'ambiente che lo circonda,
con la società in cui vive, un rapporto di sfiducia. Poiché il suo primo
desiderio viene soddisfatto in modo infelice, la
realtà gli appare poco interessante, poco attraente; sarà portato a respingerla
e in essa cercherà di cogliere - senza prospettive e senza una logica - tutto
ciò che potrà per soddisfare almeno in parte i desideri che non lo portano ad
un rapporto positivo ma di opposizione puramente negativa. Ed
essendo la sua una chiusura in se stesso che non lo accontenta, egli adotterà
tutti i mezzi a sua disposizione per cambiare la sua posizione: disturberà,
sarà fastidioso, o sarà inerte, vorrà preoccupare chi lo vede con un
comportamento in qualche modo problematico. Se in
tutto questo l'adulto vedrà unicamente un comportamento che bisogna
correggere, tenderà ad imporre nel bambino, che diventa ragazzo, abitudini di
«normalità». E nella normalità, raggiunta attraverso un addestramento formale,
il ragazzo potrà forse ritrovare una certa integrazione, una certa tranquillità
di rapporti che gli daranno soddisfazioni; ma, il periodo dell'infanzia
infelice sarà sempre in lui latente, relegato nel fondo della memoria o ancora
vivo nel ricordo, egli non potrà scaricarlo come un bagaglio, a costo di
spaccare la propria personalità, il che è un processo sempre doloroso e spesso
preludio di altre difficili situazioni. In questo
schema, appena delineato, posso confluire le diverse
forme di disadattamento.
Il bambino, diventato adolescente,
esprimerà col suo comportamento il rapporto della prima infanzia. Se in questo
periodo gli è venuta a mancare l'adesione alla realtà attraverso la fiducia
nella possibilità delle soddisfazioni, continuerà a ricercare il piacere senza
coordinarlo a dei valori nel tempo, non sopporterà le delusioni, i
contrattempi, le piccole frustrazioni; gli adulti diranno
che si comporta come un bambino capriccioso, e lui lo sarà realmente, tentando
di ripercorrere un'evoluzione che ha già percorso negativamente; sarà allora
tanto più fastidioso in quanto vorrà scoprire fino a che punto gli adulti sono
disposti a volergli bene e ad interessarsi di lui, e in quanto desidererà
essere un centro di attenzione; per questo racconterà storie, sarà aggressivo e
instabile; e a volte lo si sorprenderà fanatico e assorto lettore di giornali
a fumetti o spettatore di films, per vedere i quali
non esiterà per procurarsi i soldi a fare piccoli imbrogli, a rubacchiare in
casa o fuori, e ad assentarsi. Non accettando la realtà autentica e non potendo
vivere unicamente chiuso in se stesso, cercherà di trovare una realtà
fantastica, un'allucinazione: i films o i giornalini
diventano in lui la droga che fa vivere una falsa realtà. Ho notato come, in
una casa di rieducazione, i ragazzi aspettassero i film alla televisione, e
invece non avessero molto interesse per la partita di calcio: ho pensato di
poter interpretare questa preferenza come la ricerca di una realtà fantastica
che per poco facesse dimenticare quella autentica e
inaccettabile, a cui rimaneva legata la cronaca della partita.
Le difficoltà dei ragazzi sarebbero
già chiare per adulti attenti ai piccoli sintomi, spesso fastidiosi, che le
manifestano. Ma se questi sono visti unicamente come capricci o mancanze,
l'adulto pretenderà uno sforzo di volontà del ragazzo quando
la volontà è soffocata da troppi problemi della personalità ed è quindi una
categoria astratta; o imporrà un comportamento attraverso la sua autorità,
che, non essendo fondata su un rapporto di fiducia e di sicurezza, diventerà
inevitabilmente autoritarismo. E questo potrà
provocare l'esasperazione del comportamento disturbante del ragazzo che,
contrastato ed incompreso, troverà una propria dimensione nella
contrapposizione dell'adulto. La condotta fastidiosa, le
piccole mancanze possono diventare gravi episodi che, isolati, faranno
del ragazzo un colpevole, un «ragazzo da punire», ogni «provvedimento»
pedagogico sarà preso tenendo presente non tanto le reali necessità della sua
personalità quanto la punizione creduta necessaria. Il collegio ha un
tradizionale ruolo nei castighi ai ragazzi fastidiosi e difficili, perchè è
vissuto non tanto come la possibilità di apertura ad
altri, ad una comunità di giovani utili ad integrare nella realtà, bensì come
allontanamento dall'intimità della vita familiare.
Il ragazzo che ha
bisogno di vivere una realtà fantastica attraverso i giornali a fumetti e i films, trovandosi in difficoltà per i soldi, cerca con ogni
mezzo di procurarseli: i furti possono intensificarsi, venire scoperti, essere
qualcosa di più che scappatelle, ed essere puniti. Il ragazzo che non ha avuto prima
un rapporto di fiducia con la realtà vede nella punizione
del furto una strada per essere diverso da quelli che fanno parte di una realtà
odiosa: ruba ancora, vuole definirsi ladro.
Oppure il ragazzo per andare al
cinematografo scopre che è sufficiente fare qualche piccolo favore ad un
omosessuale che da tempo lo ha notato ed ha fatto sì che la sua fisionomia
fosse quasi familiare.
Tutto questo significa anche rubare
il tempo alla scuola o all'apprendistato, che già di per sé sono
così poco attraenti per i ragazzi. E quindi significa non trovarsi neppure con in mano un mestiere: allora si cerca l'affermazione
attraverso i furti o attraverso il giro degli omosessuali, praticati di
nascosto ed il cui contatto spesso si cerca di dimenticare con una sfrenata ed
esibita attività eterosessuale, cercando disperatamente di convincere se stessi
dell'isolamento innocuo di un atto e della sua assoluta mancanza di conseguenze
sulla propria fisionomia sessuale.
Il quadro viene
rafforzato nei tratti e nelle tinte, quando il ragazzo è cresciuto in
istituzione chiusa: il brefotrofio, con la sua spersonalizzazione, non può
soddisfare i desideri del neonato, e immediatamente ne fa una personalità
difficile, che forse non giungerà mai ad esplosive manifestazioni di
disadattamento perchè l'istituzione ne riduce lo sviluppo intellettivo
rendendolo più adatto ad essere «domato». I casi sembreranno
non costituire un problema perchè non colpiscono la superficie epidermica della
comune sensibilità, sono inavvertiti; ma in profondo costituiscono dei seri
disagi sociali: per considerare unicamente aspetti avvertibili immediatamente
sul piano pratico, aumenta il numero degli insicuri che nell'ambito della loro
famiglia o del loro lavoro avranno la necessità di compensare l'insicurezza con
la rigida e miope applicazione dei regolamenti e delle norme, con
l'acquiescenza più servile nei confronti dei superiori e l'autoritarismo più
duro con gli inferiori ed in famiglia; e con altri comportamenti che, genericamente,
si dicono aggressivi.
Il ragazzo cresciuto
nell'istituzione chiusa subisce una coercizione, vive una violenza e risulterà che il suo modo di accostarsi agli altri e di
vivere le situazioni anche più normali sarà caratterizzato dalla stessa
violenza. Raramente, il ragazzo che ha vissuto la violenza dell'istituzione chiusa si fa uomo partecipe di una violenza liberatrice ed
utilizza la sua esperienza negativa per un preciso impegno etico e sociopolitico.
Ma ancor più raramente nell'impegno saprà essere
consapevole e controllare il proprio desiderio di compensazione; senza
rendersene conto avrà anche paura dell'efficacia della propria azione
liberatrice, perchè nella realtà liberata non c'è più ruolo e posto per i
liberatori.
La complessa
situazione del disadattamento riesce a creare questo disadattamento di secondo grado, che
riguarda tutte le persone inserite professionalmente nella situazione: chi sa
unicamente rieducare, chi sa trattare con i ragazzi disadattati, chi li sa giudicare,
chi sa combattere la violenza delle istituzioni, teme inconsapevolmente che la
situazione del disadattamento sia sanata; per quanta sia lontana questa
prospettiva, il timore, profondo e inconfessabile, contribuisce a renderla
remota.
Nella misura in cui la personalità è completa - e quindi
formata alla accettazione della realtà come divenire -
è pronta a sentire la propria vita non limitata da una qualifica professionale
statica, e quindi desiderosa di incontrare la realtà liberata o diversa per
poter esprimere se stessi.
Nella brevità dell'esposizione di un
problema così vasto, è forse chiaro come la realtà della casa di rieducazione
sia in sé e per sé assurda. Ed affrontarla per risolverla
come problema a sé, è una lotta sterile. Ma appare
anche chiaro come l'eredità di un passato poco attento - in generale - a
questi problemi, sia particolarmente difficile.
E' evidente che la buona volontà non
è sufficiente e che occorre progettare delle nuove strutture; il primo e più
importante problema è quello delle persone. Quindi le nuove strutture dovranno essere preoccupate di
formare personalità adatte alle ulteriori e contemporanee novità. Vi sono due
strade per procedere: o affrontare i problemi nella loro complessità; o
provocare il rinnovamento attraverso delle parziali riforme che indichino le
insufficienze e che non possono portare risultati se non affrontando altre
modificazioni.
Un esempio illuminante viene dalla
nuova legislazione delle adozioni: una riforma che non porterà risultati se
non quando verrà affrontato l'urgente problema, messa
oggi in maggiore evidenza, dei Tribunali per i minorenni e dei magistrati
minorili. E' un problema che riguarda da vicino il disadattamento: se il
giudice minorile saprà diventare un giudice nuovo, non fermo nel suo ufficio ma dinamico, informato delle scienze con le quali
deve collaborare e delle quali deve coordinare l'azione; se saprà essere non
più l'arbitro, ma il creatore di un rapporto, gli altri operatori sociali
potranno realmente sperare di non impegnarsi invano. Vi sono già esempi, rari,
di magistrati minorili anticipatori di questa nuova figura di giudice.
Si è detto
che l'operatore sociale potrà avere garanzia di efficacia per il suo impegno;
ma il termine di operatore sociale cela oggi delle insufficienze a volte
tragiche. Gli educatori sono spesso improvvisati, non preparati; o giungono
alla professione di educatori dopo delusioni e per
mancanza di altre possibilità di lavoro.
Ma esistono anche educatori disposti
alla professione per una scelta seria, e con un livello culturale adatto a
formarli ottimi educatori. Per questi, l'inserimento nell'istituzione
significa o la rinuncia alla propria dinamica
personale e la chiusura in una staticità innaturale che è la stessa
dell'istituzione; o l'abbandono dell'istituzione che è ferma mentre loro
procedono; o il raro incontro con l'istituzione aperta ad una crescita ed
all'accoglimento delle personalità in movimento.
Si può così spiegare il rapido
ruotare di tanti educatori. La formazione del personale è
fondamentale per poter programmare la sostituzione dell'attuale, che, in gran
parte, modificherà il proprio atteggiamento per obbedire ai
provvedimenti del vertice e non certo per convinzione.
Il vecchio e assurdo regolamento
delle case di rieducazione - presto superato dal progetto Gonella
attualmente alla Camera - era ed è valido per i tanti
istituti in cui l'impreparazione e la miseria intellettuale dei direttori e
del personale lo ha richiamato in vita e applicato; ma ci sono pure esempi,
pochi, di istituti che hanno tranquillamente organizzato la propria struttura
superando e dimenticando il regolamento e attuando le proprie convinzioni in
materia di comunità pedagogica. E l'affermazione del Ministro di Grazia e
Giustizia Gava, che intende rendere autonoma in
direzioni e organici l'organizzazione dei minori rispetto alla struttura della
«prevenzione e pena» per gli adulti, lascia sperare che i problemi della
rieducazione dei minori non verranno più considerati
con una mentalità carceraria.
Ma nello stesso tempo alcuni si
rendono conto come sia urgente creare la situazione umana adatta al
miglioramento. Due studiosi francesi, Mannoni e Safouan, in un saggio dedicato ai rapporti fra psicanalisi
e pedagogia, sostengono che la presenza dell'analisi nell'istituzione deve
essere accettata e deve coinvolgere tutta la struttura
dell'istituzione stessa, perchè se per esempio l'amministrazione ne fosse
esclusa, si creerebbero nodi di resistenza tali da rendere assai difficile
l'apporto dell'analisi. E l'analista non è, accanto all'educatore, un «operaio»
in più che lavora attorno ad un «oggetto», cioè il
ragazzo ospite dell'istituzione; ma si crea un rapporto dinamico e aperto che
pone sullo stesso piano analista, educatore e ragazzo. L'analista serve così tanto all'educatore quanto al ragazzo. E viceversa.
In parte, questa posizione è stata
assunta dalla Sezione IV del Ministero di Grazia e Giustizia, che ha provveduto a formare dei gruppi che sono generalmente
chiamati «rogeriani». Rogers
è uno psicoterapeuta statunitense, insegnante universitaria, che nei suoi
studi ha particolarmente insistito sulla posizione
non tanto del « paziente » quanto dell'operatore, sulla sua disposizione di
simpatia e sul suo atteggiamento di completa disponibilità nuova, al di là del
rapporto tecnico-scientifico che è valido interamente solo se vissuto nella
pienezza del rapporto umano.
I gruppi «rogeriani»
sono verifiche di atteggiamenti, messa a nudo delle tensioni e delle
difficoltà di collaborazione, e sono aperti a tutti gli operatori, dai giudici ai psicologi.
Dovrebbe essere il primo passo verso
un aggiornamento dei tecnici che garantisce
l'efficacia dell'aggiornamento delle strutture.
Molto è il lavoro da svolgere. E forse la parte più seria è legata all'apertura della
rieducazione in due direzioni: la prevenzione e l'inserimento; la prevenzione
è collegata in gran parte alla scuola, anch'essa in crisi. Purtroppo la
modificazione del paese non è stata accompagnata da nessuna modificazione delle
strutture scolastiche. E oggi il problema è in fase
talmente critica da far pensare che per ogni periferia, per ogni quartiere e
per ogni paesino, sarebbe necessaria una scuola particolare, e che la norma
generale serve a ben poco. Il disadattamento scolastico si traduce in assenza
della scuola, senza provocare la minima reazione. Si intravede
la necessità di disporre di educatori fuori dalla istituzione, che possano
provvedere alla prevenzione in stretto contatto con la scuola, col servizio
sociale e con i servizi medico-psico-pedagogici.
Per qualcuno questi sembreranno
problemi remoti del futuro, data la tragica situazione delle istituzioni. O prospettive utopistiche.
Ma se una svolta deve essere provocata,
è bene che lo sia tenendo presente la situazione ideale. L'altra apertura,
verso l'inserimento dei ragazzi nella società, consente di prospettare la realizzazione di strutture più agili e più decentrate, come
pensionati e centri di consultazione, in cui l'educatore - ancora lui -
dovrebbe agire in stretta collaborazione con gli operatori dell'istituzione.
L'educatore stesso troverebbe una pluralità d'impiego tale da prolungarne la
validità professionale - si è già detto come l'educatore impegnato in
istituzione è portato a un logorio che lo costringe ad
abbandonare la professione per tener fede ad una personale dinamica o per
stanchezza; oppure lo adegua alla chiusura della istituzione. E l'apertura alla prevenzione e all'inserimento costringerebbe
la stessa istituzione a modificarsi profondamente, e non essere più
l'intervento così spesso vissuto come autoritario e di fatto sovente portato
avanti senza altra prospettiva se non quella della scadenza burocratica di un
mandato.
L'istituzione negherebbe se stessa
come chiusura e provocherebbe automaticamente una selezione del personale,
costringendo i meno preparati - che attualmente sono i
soli a resistere perchè la loro difesa ed il loro adattarsi alla violenza sono
più facili - ad abbandonare il campo.
Come è logico, non si possono che fornire
indicazioni. La vastità e la complessità del tema non consentono definizioni
brevi, perchè in una materia così delicata la superficialità e l'imprecisione
sono peccati gravi. E d'altra parte si nota ancora una volta come un intervento
delimitato sia poca cosa, utile solo ad avvicinare il momento di una più
radicale riforma in materia di assistenza.
Andrea Canevaro
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