Prospettive assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969

 

 

STUDI

 

IL PROGETTO DI LEGGE GONELLA E IL PROBLEMA DELLA DEPENALIZ­ZAZIONE NELLA LEGISLAZIONE MINORILE

 

 

La presentazione al Parlamento del disegno di legge sulla «prevenzione e trattamento della delin­quenza minorile» (presentazione avvenuta ad opera del governo Leone: Ministro di Grazia e Giustizia l'on. G. Gonella, che già nel passato si era occupato del problema), e soprattutto l'entusiastica accoglienza di esso da parte degli organi centrali responsabili della rieducazione minorile (leggi: Ufficio IV del Mi­nistero di Grazia e Giustizia, e per esso, la rivista «Esperienze di rieducazione»), ripropone in termini più attuali e più urgenti la vecchia questione della depenalizzazione nel diritto minorile. Una questione, preciso subito, che va giudicata non soltanto come una delle più importanti ma addirittura come pre­giudiziale, rispetto all'intera problematica del disa­dattamento e della delinquenza minorile. Non a caso, del resto, su di essa in questi ultimi decenni sono stati condotti innumerevoli dibattiti con il concorso delle più diverse scienze umane, pervenendo al ri­guardo a tutta una serie di fondamentali approfondi­menti. Il riparlarne quindi in questa sede, oltre al significato di deprecare che in un nuovo progetto di legge (che vuole essere innovatore in quanto recet­tore delle più rilevanti istanze contestatarie emerse in questi ultimi tempi anche in tale settore dell'orga­nizzazione sociale) non si sia avuto il coraggio di «rompere» con il passato su un punto così impor­tante, non ha altra pretesa che di riassumere critica­mente le principali ragioni che avrebbero dovuto suggerire appunto un radicale cambiamento di rotta.

La questione consiste nel chiedersi se sia scienti­ficamente corretto, moralmente (e quindi giuridica­mente) giusto, e tecnicamente conveniente prevedere anche per i minori degli anni diciotto che abbiano commessa un «reato» un trattamento penale. Come è noto, la vigente legislazione italiana in materia è fondata su una risposta a tali questioni sostanzial­mente positiva; l'articolo 98 C. P., infatti, dice testual­mente: «E' imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di inten­dere e volere; ma la pena è diminuita». Né modifica radicalmente la situazione, l'esistenza di un istituto giuridico speciale quale è il «perdono giudiziale» (per il quale si tende a «perdonare», dopo averlo però riconosciuto colpevole, il minorenne che abbia commesso un reato, non troppo grave, per la prima volta); così come non la modifica la diffusa prassi giudiziaria di non condannare il minore degli anni diciotto, ricorrendo piuttosto sia al suaccennato per­dono giudiziale sia alla formula della incapacità di intendere e di volere, spesso accompagnati dall'appli­cazione di una delle previste misure di sicurezza o dell'apertura immediata di una «pratica amministra­tiva» (o rieducativa). Tali soluzioni, infatti, ven­gono applicate solo in sede di giudizio, quando cioè 1'iter giudiziario è già stato percorso dal minore in misura modesta (detenzione preventiva compresa), con tutte le conseguenze negative sul piano psico­pedagogico che sono purtroppo facili da immaginare e sulle quali d'altro canto farò un esplicito riferi­mento più avanti.

Esse tuttavia dimostrano a mio parere l'incertezza e la conseguente equivocità sia del legislatore (che pare essere rimasto a mezza via tra una concezione tradizionale del diritto minorile ed una moderna, aperta alle sollecitazioni delle varie scienze umane), sia della magistratura (che, di fronte al caso concreto, sembra percepire il più delle volte l'assurdità se non addirittura l'ingiustizia della condanna): un'incer­tezza sicuramente vissuta con notevole intensità, come dimostra il fatto che nella stessa vigente legislazione si afferma che un minore degli anni quattordici non può in alcun modo essere giudicato responsabile di atti che risultano contrari alla legge, e che pertanto egli non è passibile di una punizione ma, se del caso, solo di un intervento rieducativo o curativo.

In verità, tale posizione venne assunta perchè si accettò l'idea che per impostare correttamente la pro­blematica giuridica almeno nei casi di soggetti in età infantile non fosse più concepibile un diritto auto­nomo, fondato cioè esclusivamente su considerazioni e valutazioni astratte di carattere morale, sociale ecc., al di fuori quindi di una autentica e serena (obbiet­tiva nel senso di libera da ogni forma di pregiudizio) conoscenza e comprensione dei soggetti cui lo stesso diritto si rivolge; e perchè, alla luce di un simile con­vincimento di base, si ammise che il soggetto di età inferiore ai quattordici anni per definizione stessa non può raggiungere quel livello minimo di maturità personale indispensabile per poterlo giudicare respon­sabile dei propri atteggiamenti e dei propri compor­tamenti.

Ed ecco il punto: perchè la stessa impostazione del discorso giuridico non venne estesa anche nei confronti dell'adolescente, almeno di quello dell'età compresa tra i quattordici e i diciotto anni? Il fatto è che il legislatore, pur rendendosi conto della ovvia diversità intercorrente tra un adolescente ed un adulto (da cui l'affermata necessità, per il minore degli anni diciotto, di «accertare» la capacità di inten­dere e di volere, presuntivamente ammessa invece per il maggiorenne; e la diminuzione della pena), non riuscì a superare il tradizionale concetto di «di­fesa sociale», né a liberarsi da un'interpretazione della personalità umana sostanzialmente intellettua­listica e moralistica. Da un lato continuò a ritenere giusto per la società «difendersi» da coloro che ne turbano la sicurezza e la tranquillità con la commi­nazione di una pena intimidatoria che giungesse fino alla loro segregazione sia pure temporanea; dall'altro lato, fece propria la convinzione che il raggiungi­mento di una sostanziale maturità fisiologica e di un sufficiente livello intellettuale (caratteristici, di nor­ma, di ogni adolescente) bastasse a «fondare» la responsabilità morale e penale di un soggetto e dun­que giustificarne l'imputabilità. A ciò si aggiungeva, in un certo senso surretizialmente, il criterio della gravità del fatto, introdotto semplicisticamente con la supposizione dell'esistenza di una sorta di «senso morale», inteso però ancora una volta in modo intel­lettualistico: come è possibile (ecco una tipica con­siderazione, conseguente a tale supposizione, ancora frequentemente sviluppata oltre che dal semplice e sprovveduto cittadino anche dal magistrato!) che un adolescente, ad esempio di sedici anni, che usa vio­lenza ad una persona con lo scopo di rapinarla e che possiede una intelligenza normale, non abbia al mo­mento del fatto la capacità di capire quel che sta facendo e quindi la capacità di controllarsi?

In tutto ciò è evidente un mancato approfondi­mento della realtà adolescenziale ed una conseguente incapacità di cogliere quella che si potrebbe indicare col termine «dinamica esistenziale» dell'uomo (in particolare, dell'adolescente), alla quale invece oc­corre far riferimento quando si voglia comprendere il significato autentico di ogni comportamento. Come altre volte ho cercato di chiarire, il comportamento di un soggetto, o la scelta da parte sua di una deter­minata condotta, non è un fatto dipendente da una sola o da due capacità individuali, bensì è la risultante di tutto il suo essere: della sua dimensione psico­fisica quindi e della sua dimensione coscienziale o spirituale (intesa come processo di soggettivazione e di consapevolizzazione di se stesso e degli altri, e quindi come capacità di pervenire ad una consape­vole e normale «visione del mondo»).

L'esperienza concreta nel settore ci insegna del resto che a molti casi di minorenni che commettono reati perchè non comprendono o non hanno com­preso il carattere irregolare del loro atto (per insuf­ficienti capacità logico-critiche, per insufficiente espe­rienza culturale, ecc.), si contrappongono altrettanti casi di minorenni che hanno commesso reati, renden­dosi perfettamente conto che si trattava di azioni illegali, contraria alla tavola di valori che la società dichiara doversi rispettare, soltanto perchè per essi quei valori rimanevano del tutto estranei alla sfera della loro vita intima, sensibilizzata da tutt'altre pro­spettive ed interessi. Voglio dire cioè che, per deter­minare la responsabilità morale e giuridica di un soggetto, occorre guardare soprattutto alle sue moti­vazioni profonde e quindi, in via preliminare, alla sua capacità (o possibilità) di determinare consape­volmente o, meglio, di controllare criticamente tali situazioni.

Orbene, per ciò che ci dicono chiaramente scienze fondamentali per un'autentica conoscenza dell'uomo quali la psicologia (dell'età evolutiva), la psicoana­lisi e la stessa pedagogia, l'adolescente non si trova affatto in tali favorevoli condizioni (al limite, si po­trebbe quasi dire che lo è meno del bambino), assor­bito com'è da prepotenti istanze psicologiche e vorrei dire socio-culturali, quali il bisogno di autoafferma­zione (quanti furti o rapine, ad esempio, sono diret­tamente motivati da tale bisogno!), quello di prender possesso della propria sessualità, quello di assumere un qualunque ruolo sociale (per lo più non ricono­sciutogli dall'ambiente nel quale vive), e così via. In questo senso, egli è veramente immaturo, al di là del livello della sua intelligenza o del sua sviluppo fisiologico, particolarmente bisognoso di comprensione (anziché di un'attitudine giudicante) e di stimola­zioni positive al fine di allargare il suo orizzonte esi­stenziale e la sua esperienza di vita. Così, prevedere, come fa la legge italiana, un trattamento penale per l'adolescente che abbia commesso un reato risulta scientificamente scorretto e moralmente e quindi giu­ridicamente ingiusto!

Cionondimeno, il problema va ulteriormente ap­profondito dal punto di vista dell'opportunità tecnica, in quanto la «penalizzazione» del trattamento del giovane disadattato o delinquente potrebbe, in via ipotetica, essere legittimata nel caso in cui essa risul­tasse valida al fine di un riadattamento o di una rieducazione. Non a caso, infatti, si sostiene da più parti la funzione rieducativaemendativa», nel gergo giuridico) della pena, sia come riferimento all'in­dividuo cui la pena viene direttamente applicata, sia con riferimento alla sua presunta funzione di esem­plarità e quindi di indiretto freno (stimolazione all'autocontrollo). Ma valida non è da nessuno di questi due punti di vista! Infatti, come tutti sap­piamo, se c'è un'età in cui l'esperienza altrui non viene tenuta in alcun conto questa è proprio l'età adolescenziale, caratterizzata dal bisogno del soggetto di «esperimentare» tutto in prima persona: sicché ritenere che il procedere penalmente nei confronti di un minorenne rappresenti per i suoi coetanei motivo di ravvedimento preventivo, è perlomeno ingenuo ed illusorio se non addirittura un modo per mascherare e giustificare la scelta di un certo orientamento ope­rativo di fondo.

Ma ciò che importa soprattutto sottolineare è la sostanziale negatività rieducativa per l'individuo del cosiddetto «trattamento penale», che nella stra­grande maggioranza dei casi sortisce effetti diame­tralmente opposti a quelli desiderati: l'ampiezza del fenomeno della recidività dei minori sottoposti alla detenzione preventiva (non seguita da altre misure rieducative) ne è la dimostrazione più lampante e più preoccupante. Né potrebbe essere diversamente se si tengono presenti alcune constatazioni: che qualsiasi intervento, assunto in base alla dimensione penale, viene decisa sia sul piano della qualità che su quello della quantità «oggettivamente» e cioè senza tenere sufficientemente in conto quelli che sono i reali biso­gni del ragazzo ed il suo progressivo sviluppo riedu­cativo; che ad un giovane che chiede comprensione almeno nel senso di essere ascoltato si offre al con­trario un «giudizio» per lo più formale (non im­porta se di condanna o di perdono) o al massimo un atteggiamento di tipo chiaramente paternalistico; che nelle istituzioni previste per il ricovero dei minori delinquenti (prigioni-scuola, ma in particolare le sezioni di custodia preventiva degli istituti di osser­vazione) la preoccupazione per la custodia è prepon­derante nei confronti di quella per un autentico trat­tamento, non per difetto di esecuzione o di organiz­zazione ma per la loro stessa struttura; che in esse è quasi inevitabile la formazione e la propagazione della cosiddetta «mentalità da galera» (caratterizzata dalla mancanza di sincerità prima di tutto verso se stessi; dall'omertà; dalla legge del più forte; dall'enfatizza­zione dell'interesse per gli aspetti puramente giudi­ziari e dunque formali del proprio comportamento; ecc.); che gli operatori sociali in esse impegnati non hanno alcuna effettiva libertà di iniziativa e di movi­mento, ecc.

In questo senso dovrebbe addirittura apparire evidente che la penalizzazione del trattamento del giovane delinquente anziché essere la realizzazione di una comprensibile «politica di difesa sociale» si tra­duce nel suo contrario: in uno strumento per raffor­zare (talora in via definitiva) e per diffondere un atteggiamento ed un comportamento veramente de­vianti!

Non vi sono dunque, a mio parere, giustificazioni di alcuna natura per mantenere un tale orientamento nella legislazione minorile: ancor meno per riaffer­marlo in una revisione attuale di quest'ultima. Ed ecco perchè io credo che il progetto di legge Gonella vada senza tentennamenti respinto, ed anzi avversato con ogni mezzo, come antistorico, antiscientifico e controproducente.

Naturalmente con ciò non voglio sostenere che la società non debba interessarsi del problema del disadattamento e della delinquenza minorile: al con­trario, essa deve interessarsene come un «suo» pro­blema (la penalizzazione rappresenta da questo punto di vista un suo evidente e comodo «disimpegno»! ), secondo una politica e con strumenti completamente diversi. Su di essi, quindi, sarà opportuno riprendere il nostro discorso.

Piero Bertolini

 

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