Prospettive assistenziali, n. 8-9, ottobre 1969-marzo 1970

 

 

LIBRI

 

 

M. SOULÉ - Contribution clinique à la compre­hension de l'imaginaire des parents, in «Re­vue Française de Psychanalyse», 1968, n. 3, pp. 419-464.

 

Il breve saggio di Soulé affronta una pro­blematica piuttosto complessa, in parte appro­fondita dalla sua esperienza di psicoanalista, in parte appena accennata e proposta allo stu­dio e alla riflessione.

Il nucleo più interessante del saggio è nell'osservazione che i bambini adottati sviluppano una dinamica affettiva in gran parte simile a quella di bambini nati e cresciuti nella loro famiglia. Essi tendono cioè a legare alla figura dei genitori adottivi tutte le esperienze, posi­tive o negative, già affrontate nella loro esi­stenza. D'altronde la condizione di abbandono e di ritrovamento, o meglio di essere scelti, appartiene alla vicenda comune dell'umanità, che la psicoanalisi ha aiutato a scoprire nelle fantasie degli adulti.

Chi invece, nell'adozione, può trovare mag­giori difficoltà ad adattarsi alla nuova esperien­za, sono i genitori adottivi.

In effetti l'adozione è stata storicamente vista per secoli solo in funzione della famiglia adottante, dalla legislazione e dal senso co­mune. Ancor oggi, la maggior parte delle per­sone che chiedono di adottare un bambino so­no coppie di coniugi senza figli.

Soulé, che nella sua pratica di medico psi­coanalista presso un istituto di Assistenza Pubblica ha seguito un notevole numero di casi di adozione al momento della scelta e poi nel periodo di adattamento, presenta qui un qua­dro dei principali problemi che queste coppie si trovano ad affrontare. Problemi relativi non tanto alle difficoltà causate dai bambini, quanto all'equilibrio interno di quegli adulti, che si tro­vano di fronte alla propria impossibilità a gene­rare. Questa è sempre una situazione di fru­strazione, che però può essere vissuta a livello di una certa maturità tanto da poter essere su­blimata, e portare a una maternità adottiva fe­lice ed equilibrata. Troppo spesso tuttavia la scoperta della propria sterilità fa regredire la persona a fasi precedenti e mal superate dello sviluppo affettivo: l'individuo torna ai conflitti coi propri genitori, da cui sente provenire la frustrazione (complesso di castrazione), e de­sidera un figlio come rivalsa contro una priva­zione vissuta come diminuzione di se stesso.

Ma un bambino non può in nessun caso essere di per sé un rimedio: la sua stessa pre­senza porta con sé dei problemi che molto spesso fanno precipitare la situazione dei geni­tori, riportando a galla i loro conflitti.

Soulé tuttavia sottolinea come il caso dell'adozione porti in primo piano dinamiche che sono presenti nella vita di ogni famiglia. In­fatti la procreazione viene a trasgredire a un divieto posto dal padre al tempo del conflitto edipico, e i nuovi genitori (in particolare il padre) temono come punizione che ora un figlio possa a sua volta rivoltarsi contro di loro e pri­varli delle loro prerogative. Troviamo un'eco di questo timore nel mito di Urano evirato da Crono, e in quello di Laio che abbandona il figlio per paura di essere spodestato e ucciso.

Nella situazione familiare spesso la pro­creazione è affidata al caso, e questi conflitti restano in ombra, mentre ai genitori adottivi si richiede un'esplicita decisione di trasgredire al divieto, e questo creerebbe problemi parti­colari.

Infine, dei rapporti non equilibrati coi pro­pri genitori possono riflettersi poi nell'atteggia­mento che i genitori adottivi assumono verso questi bambini, e che può andare da un attac­camento morboso fino a un vero e proprio ri­fiuto affettivo.

Il punto in cui tutti questi problemi ven­gono a galla è quello della informazione al bam­bino della sua condizione di adottato. Alcuni genitori rimandano di molto il momento, ed altri addirittura negano il fatto anche a se stes­si, rivendicando la maternità di sangue dei bam­bini allevati.

Il loro timore è che il figlia li rinneghi e cerchi, o anche solo fantastichi, dei veri geni­tori più potenti di loro, e contro cui essi non si sentono in grado di combattere.

Ma anche queste fantasie non sono un meccanismo particolare dell'adozione. A un certo punto, in genere all'inizio dell'età scola­stica, il bambino deve constatare la non infal­libilità del padre, fino ad allora considerato on­nipotente. Egli immagina allora che non sia quello il suo vero padre, ma di essere stato allevato da un estraneo, e che i suoi veri geni­tori siano persone di grande prestigio e po­tenza. La creazione di questo «romanzo fami­liare» era già stata osservata da Freud, e si ritrova tanto nelle fantasie di psicotici, quanto nei sogni di adulti normali. Si tratta di una elaborazione cosciente, che assolve a un'im­portante funzione dinamica.

Questo padre infallibile aiuta la formazione dell'«ideale dell'io», e assorbe su di sé l'ag­gressività residua della fase edipica, così che il bambino può continuare ad amare il proprio padre e cominciare a considerarlo come un compagno. Esso allontana anche dalla figura dei genitori il fantasma della scena primitiva, cioè dell'atto sessuale origine della procrea­zione, ed è in definitiva un modo di conservare l'immagine dei genitori creatasi nell'infanzia.

Questa fantasia, appunto perchè cosciente, raramente diventa patologica, tanto da allonta­nare il bambino dalla sua vita familiare, e que­sto solo nel caso che essa sia gravemente in­soddisfacente.

L'esagerato timore dei genitori adottivi verso questa elaborazione deriva da una scarsa accettazione di se stessi, e talvolta anche da un risentimento non ancora sopito verso i pro­pri genitori. In realtà i figli adottivi sono favo­riti nel superamento di questa situazione pro­prio dalla sensazione che hanno di essere stati scelti, e spesso ricreano essi stessi un legame naturale coi genitori che li hanno allevati.

E' dunque costante nel saggio di Soulé lo sforzo di riportare i problemi dell'adozione nel­la dinamica comune delle famiglie, e se le solu­zioni possono essere discusse e necessitano forse di un ulteriore approfondimento, i pro­blemi che affronta sono molto interessanti e stimolanti. Ne risulta un saggio di psicoanalisi della vita familiare che riguarda tutti gli stu­diosi dell'età evolutiva, e il caso dell'adozione è tenuto presente come situazione privilegiata, in cui cioè i problemi sono posti in maggiore evidenza. La tecnicità del linguaggio, e la note­vole quantità di problemi messi in campo non lo rendono però di facile lettura per i genitori a cui forse potrebbe portare un contributo di chiarificazione.

M.T. Roberti

 

 

ARMANDO ROSSINI - Tutti gli altri come me - Forum Editoriale - L. 1800.

 

Il libro di Armando Rossini è la storia della sua vita, scritta con coraggio e con sincerità. Con coraggio perchè cerca di non far leva su sentimenti di pietà, con sincerità perchè non è esibizionista e non cerca la curiosità dell'opi­nione pubbblica. Dice egli stesso: «Questa par­te di me che metto a disposizione della società mi costa e mi costerà... dovrò espormi come non ho mai fatto... sono pochi quelli che capi­ranno completamente il perchè di questa mia esposizione pubblica, ed è per loro e per gli sfortunati ragazzi [come lui], che lo faccio».

E' interessante notare come partendo da una analoga esperienza, lo scrittore americano Cleaver (Edridge Cleaver - Anima in ghiaccio), anch'egli assai profondo nella sua indagine so­ciale, scriva della sua vita in carcere: «Può darsi che parlando come faccio, francamente e senza peli sulla lingua, finisca col danneg­giarmi in qualche modo, ma non me ne importa affatto... Nelle esperienze di questi uomini [i suoi compagni di carcere] vi è la chiave per trovare il modo di aiutare i giovani che stanno avviandosi sulla stessa strada». E poi ancora: «Le autorità del carcere non volevano, né po­tevano aiutarmi. Dovetti cercare da solo la mia verità e dipanare il bandolo della matassa delle mie ragioni». E Rossini: «Nel manoscritto mi sono reso un depravato per arrivare a disprez­zarmi, per aiutarmi a capirmi meglio e a mi­gliorarmi sempre di più».

E lo fa cominciando a raccontare dal prin­cipio della sua vita.

La prima infanzia si può riassumere nelle terribili frasi scambiate tra il protagonista e la madre, in un loro incontro dopo molti anni. «Sino a 12 anni in brefotrofio. Per madre le suore, le quali mi hanno coccolato finché ero piccolo, poi più grande le botte». In questa pri­ma parte ci sono pagine molto belle, da cui affiorano condizioni spaventose. Il primo incon­tro con la madre. La fantasia del bimbo la iden­tifica con le favole che ha sentito, con i disegni del suo sillabario, forse con la Madonna «la madre di tutti» (a cui deve sempre rivolgersi). E' un desiderio, non un rimpianto ed il bimbo si prepara ad incontrarla con le braccia aperte. Ma la madre non è venuta sola, ha un uomo vicino ed il bimbo, che nei suoi sogni non l'ha previsto, è deluso. Poi la madre parla con la suora, accarezza il figlio, promette di tornare, ma il bimbo ha capito che nulla è cambiato, che resterà lì e smette di «fare il bravo». «Ero diventato il più cattivo ragazzo dell'istituto».

Incominciano le botte. Ha una sua cosa il bimbo, su cui riversare affetto e fantasia e che lo rende felice: ogni anno a Natale i bimbi si radunano in una sala per ricevere i doni. Sono sempre gli stessi, che ogni anno le suore tirano fuori da uno scatolone, dove poi li ripongono quando i bimbi hanno giocato, per l'anno dopo. Il suo era un cavallo e anche quell'anno lo aspettava con ansia. A conferma di un prodigio particolare il suo cavallo si caricava e si muo­veva: perciò lo considerava più bello di quello dei suoi compagni. Ed anche quell'anno egli era completamente assorto nella contemplazione di quel cavallo che muovendosi era un nocciolo di vita tutto per lui. Ma, caricato, il cavallo non si muoveva più. Indignato ne accusa la suora di averlo rotto. Ne ha un ceffone.

Il bimbo bagna il letto: le suore hanno escogitato un metodo per punirlo che dovrebbe servire. «Quando tutti erano pronti una suora mi prese, mi sfilò le mutande e con la faccia al muro fece passare i ragazzi invitandoli a schernirmi e a farmi le boccacce». La scena che segue è piena di avvertimenti. Il bimbo umiliato, offeso si va a nascondere nel ripo­stiglio dei grembiuli bianchi, quelli stessi che le suore tengono per la domenica, per presen­tarli al mondo belli e felici; con furore il bimbo li ammucchia a terra, li calpesta e li prende a calci, come poi farà dei fiori. Incomincia la voglia di dissacrare, di rompere tutti i veli sul bravo ragazzo d'istituto. Qui il bimbo, non an­cora vinto, scrive alla mamma che lo venga a prendere; è l'ultimo tentativo di ricerca di aiu­to, in mezzo alle lacrime. E' scoperto, è di nuovo punito. Ha dieci anni.

Il bimbo è ormai vittima dell'ingranaggio assistenziale. Di questo lasciamo parlare un altro assistito da una assistenza più ricca e più efficiente, in America, Malcolm X (Autobio­grafia di Malcolm X). Dice: «Credo che se mai un ente assistenziale ha distrutto una fami­glia, questa è la mia. Noi volevamo stare insie­me e cercammo di raggiungere quello scopo. Il nostro focolare non doveva esser distrutto, ma l'ente assistenziale, i tribunali ed il loro dottore ci dettero il colpo di grazia. Sapevo che loro ci avevano considerato dei puri e semplici numeri, un caso per la loro amministrazione, e non come degli esseri umani, e che tutto ciò esisteva per colpa del fallimento della so­cietà, per la sua ipocrisia, per la sua avidità». Per sua madre ci sarà il manicomio, per lui: furti, droga, il riformatorio, il carcere. E per Rossini, prima i piccoli furtarelli, poi l'amplesso con i compagni più grandi che abusano del suo bisogno di simpatia per soddisfare il loro cor­po. E di pagina in pagina la sua lotta contro l'Istituto, contro la paura, con un desiderio di ambiente e, con il suo sentirsi sempre in peri­colo di ricadere nel rapporto omosessuale, nel sentire il sesso come strumento di conoscenza e quindi di affrancamento e per l'oppressore strumento di repressione. Sarà poi lui ad abu­sare dei piccoli, a regalare pacchetti di siga­rette per ottenere il loro silenzio..

Dice Cleaver: «Mi misi a violentare don­ne. La violenza carnale era un atto di insurre­zione, mi deliziava l'idea di sfidare e di calpe­stare la legge dei bianchi, il loro sistema di valori». E il Rossini alla madre: «Sono un disa­dattato, sono un pederasta, e sai quando ho iniziato? a nove anni, un anno dopo che tu mi rifiutasti ad una famiglia che mi voleva adot­tare; un anno dopo che tu rifiutasti che io mi­gliorassi le mie condizioni, inconsciamente ac­carezzavo il corpo di un ragazzo più piccolo....».

Oramai, come egli stesso dirà, il Rossini è plagiato dall'Istituto. Quando terminerà il suo servizio militare si sentirà così sperduto, così impreparato a vivere nella società, che cercherà ancora sicurezza dove ha vissuto l'infanzia e l'adolescenza: rientrerà nell'Istituto come sor­vegliante. Qui lo ritroviamo a riprendere la sua lotta in aiuto ai suoi compagni, per alleviare il loro senso di isolamento e di sconfitta, i con­flitti insuperabili con la famiglia, la paura del futuro che incombe. Con il suo senso di giu­stizia reagisce alla perquisizione degli armadi dei ragazzi in un caso di furto, e scopre il ladro nell'assistente vicino al Direttore. Questo Di­rettore, che considera un rivale e con il quale, tempo prima, ha avuto una lite vittoriosa, im­provvisamente muore. Ora gli sembra di aver riperso la battaglia; dice: «quando uno muore non si vince mai». Al funerale vede solo facce ipocrite che piangono; ci sono quelli che vo­gliono approntare in una stanza un catafalco, e quelli che vogliono portare la salma in giro per l'istituto, «se veramente sentono qualcosa per lui, lo portino nei loro pensieri con dignità e sincerità, questo era quello che gli volevo dire».

La formazione servile è quella contro cui il Rossini lotta nell'Istituto, una formazione che rende gregari gli individui, che non permette loro di esprimere se stessi, che costringe con la forza e la violenza morale alla servitù, e che viene instillata giorno per giorno.

«In ghiaccio», dirà Cleaver della sua ani­ma, quando essa si trovava in una sorta di mostruosa ibernazione, provocata dal rigore spietato di chi gli negava ogni diritto alla li­bertà e alla rivendicazione «di una sua auto­identificazione».

E Malcolm X: «Per questo io non ho né pietà né compassione per una società che schiaccia la gente e poi la punisce per non esser stata capace di rimanere in piedi sotto il suo peso».

Giuliana Lattes

 

 

Blouson Noir - Testimonianze e note psicolo­giche - Proposte VALNOCI, Genova - Tradu­zione di Cri d'appel d'un Blouson Noir, pub­blicato da FAYARD, Parigi, 1962.

 

La testimonianza di vita di un Blouson Noir è esposta nel libro dopo una breve prefa­zione, come un racconto in prima persona del protagonista, Moustache, intervallato e com­mentato da un prete, ZONZAN, che sottolinea la narrazione e le osservazioni del «ragazzo di vita» con note psicologiche esplicative, ana­litiche e sintetiche.

La storia di Moustache è quella di tutti i ragazzi come lui, dei Blouson Noir: ragazzi usci­ti da famiglie e ambienti tristi e corrotti, re­spinti e banditi dalla società ma ancor prima dalla madre o dal padre, traumatizzati da espe­rienze precoci ed amare (angoscioso è nel libro il racconto del collegio e dei giochi amo­rosi della madre del protagonista), buttati in­fine sulla strada ad abituarsi alla legge dei ragazzi di vita, unico loro baluardo alla solitu­dine e all'angoscia, all'incapacità di inserirsi nella società e alla paura.

L'analisi del commentatore è acuta: bimbi nati da madri sciagurate, che presto li buttano allo sbaraglio, a rubare, ad uccidere, a violen­tare, a concepire nuovi figli che saranno a loro volta ragazzi infelici e disperati.

Un circolo chiuso che si può spezzare solo con un rapporto personale, autentico, aperto con ciascuno di quei ragazzi, con un colloquio vero che li costringa a parlare, a «piangere di dentro», come dice Moustache, ad aprirsi in­fine al consolante conforto di non essere soli.

Così conclude la sua storia Moustache: con una nota di speranza e conforto. Ha impa­rato a «parlare» con qualcuno, a sentirsi me­no solo, meno disperato, a capirsi e a capire.

Il libro, oltre all'interesse di un linguaggio «dal vivo», ottimo anche nella traduzione, of­fre una analisi estremamente profonda e vera di uno dei problemi più gravi dei giovani d'oggi.

 

 

JEAN CAMP et CHRISTIAN CHALAMIS - Les jeunes d'aujourd'hui - Editions du Centurion, 1967.

 

Il libro nasce dai dialoghi tra un gruppo di giovani e di adulti che si tennero sotto i pini di Roquefort-les-Pins, durante le cosiddette De­cadi di Provenza, una serie di discussioni impe­gnate su temi vari e profondi che toccano i problemi più angosciosi del nostro tempo. Nella XVII Decade si affrontò appunto il problema dei giovani, appassionatamente discusso in una se­rie di proposizioni che comprendono l'essenza, la problematica della gioventù, la posizione dei giovani dinanzi alla cultura, all'arte, alla poli­tica, ai maestri, agli adulti e al mondo d'oggi.

Alcune testimonianze di giovani sono ap­passionatamente disperate e lucide: la giovinezza non è l'età più bella della vita, è l'età della debolezza e dell'impotenza di fronte alla vita, il tempo dell'attesa, il tempo delle «pas­sioni inutili», come dice Sartre.

I giovani si annoiano nella parte che gli adulti preparano loro ed impongono, ed è que­sta «noia d'esistere» che suggerisce per di­sperazione la teatralizzazione della vita, che non è altro se non necessità di esistere, al­meno come costume.

Di fronte al mito della giovinezza, inter­vengono nel libro gli adulti, occorre opporre la salda realtà dell'uomo, tale in tutti i tempi della sua vita: « giovane non è un sostantivo ma un aggettivo », ciò che conta è l'uomo.

Il giovane deve imparare non ad essere giovane ma ad essere, a realizzarsi non come giovane ma come uomo, ad inserirsi nel mondo adulto rinnovando ma insieme continuando, per­ché la continuità è più vera ed autentica della rottura.

La gioventù si afferma ovunque, è corrotta dalla dilagante pubblicità, dai films, dalla stam­pa, da ogni forma di sollecitazione costringente, ma in ultima analisi non si può non ammettere che la gioventù è, tra tanta angosciosa incer­tezza e in un mondo così ostile alla libertà e alla spontanea espansione e realizzazione di se stessi, sana e vitale più dell'atteso, pronta alla responsabilità che i vecchi le scaricheranno sulle spalle, in attesa di quei valori e di quegli esempi che gli adulti hanno il dovere di far conoscere e rispettare attraverso le loro opere.

Tutto il libro sembra risuonare di parole appassionate e l'eco d'esse vibrare dell'entusia­smo con cui ogni interlocutore ha sostenuto la sua tesi.

E' in sostanza un libro interessante e vivo, capace di far pensare.

 

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