Prospettive assistenziali, n. 8-9, ottobre 1969-marzo 1970

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

UNA INIZIATIVA POPOLARE PER LA RIFORMA DELL'ASSISTENZA

 

E' in corso la raccolta di 50.000 firme per la presentazione al Parla­mento di una proposta di legge di iniziativa popolare: «Interventi per gli handicappati psichici, fisici, sensoriali ed i disadattati sociali». La pro­posta - fondata su una serie di studi, ricerche, lavori di gruppi di esperti iniziati da vari anni - è stata elaborata dalla Unione Italiana per la Promozione dei Diritti del Minore, la ben nota federazione di associazioni, enti, scuole che si propongono la protezione degli interessi dei minori e la formazione di personale specializzato.

La proposta merita di essere considerata sotto il duplice profilo del suo significato morale ed ideale e dei contenuti che propone.

Non vi è dubbio infatti che, a prescindere dai suoi contenuti, la proposta ha un preciso significato: trasferire direttamente sul cittadino l'iniziativa e la responsabilità di riformare profondamente, alle radici, una parte sostanziale del sistema assistenziale italiano, sostituendosi alla inerzia dei pubblici poteri ed esercitando un suo preciso diritto costitu­zionalmente sancito, per la soluzione di un problema umano e sociale che, prima di essere proprio di singoli cittadini in condizioni di minora­zione fisica o mentale, è della società come tale.

A fronte pertanto del classico istituto della democrazia rappresen­tativa - pur fondamentale ed insostituibile ma non sempre perfetta­mente rispondente agli impulsi, alle tensioni, ai fermenti contestativi del corpo sociale - è giusto, è coerente con una linea di maggiore consape­volezza e di maggiore presa di coscienza che la società ha di se stessa e dei propri problemi, che i cittadini come tali e nella sfera dei loro diritti costituzionali, realizzino una forma di democrazia diretta, quale è quella rappresentata dalla partecipazione alla formazione delle leggi. Ed ha un significato profondo, sul piano morale prima ancora che su quello politico, che questa forma di partecipazione diretta del cittadino al pro­cesso di formazione della legge si esplichi proprio nel campo della prote­zione e della riabilitazione di quelli che vengono definiti handicappati e disadattati.

Altri motivi sussistono ancora per accogliere con soddisfazione que­sta iniziativa; attraverso di essa, infatti, si crea quanto meno una fonte di stimoli preziosi, si realizza una maggiore coesione con il potere politico, si ha diretta sensazione delle priorità e delle reali esigenze della «gente». Ciò premesso in termini generali, la proposta induce ad una rifles­sione. Si tratta di stabilire, cioè, quale stimolo è alla base della sua presentazione quando - come è noto - sulla materia molte sono state e molte sono le iniziative, sia a livello ministeriale che a livello parla­mentare.

Il motivo - lo si lascia chiaramente intendere nella relazione intro­duttiva - risiede in una sostanziale sfiducia negli organi responsabili e in un giudizio di inidoneità e di insufficienza delle proposte già presentate nella IV e nella V legislatura.

Si tratta di una posizione chiara e pertanto rispettabile, anche se merita un commento di fondo: la parzialità, l'angolazione settoriale, la mancanza di una visione organica e completa del problema - aspetti tutti che avrebbero contraddistinto le precedenti iniziative e sui quali si sof­ferma la relazione alla proposta popolare - altro non sono che il risultato di esperienze diverse, di tentativi, forse incompleti, forse limitati, che la nostra società sta compiendo per affrontare un problema che - non ab­biamo difficoltà ad ammetterlo - resta unico, qualunque sia l'angolo pro­spettico da cui lo si guarda e che va risolto tenendo presente soprattutto questa sua fondamentale caratteristica.

E' così che intorno a questo problema abbiamo l'esperienza del mondo della scuola, l'esperienza psichiatrica, l'esperienza pedopsichiatrica, l'espe­rienza dell'amministrazione della giustizia: esperienze tutte che, come avemmo occasione di affermare in una recente pubblicazione dell'A.A.I. (1), sono comunque testimonianza dell'impegno e dell'appassionata opera svolta in favore dei disadattati dagli operatori dei vari settori.

Ma non per questo vogliamo essere «laudatores temporis acti», tant'è che, in quella pubblicazione, non avevamo difficoltà ad affermare che «...la stessa disparità di soluzioni prospettate impone però agli ambienti qualificati e all'opinione pubblica un esame globale e organico, realizzato possibilmente con una Conferenza nazionale accuratamente preparata (an­che mediante apposite ricerche), che permetta lo studio e la definizione di proposte coordinate da sottoporre all'esame del Parlamento nel corso della presente legislatura»: ed a questo proposito non dimentichiamo che il problema è stato recentemente ripreso nell'ambito di una nuova, appo­sita Commissione di studio istituita dal Ministero della Sanità, ma ancora una volta con l'intendimento di affrontare il problema non integralmente (nell'ottica della Commissione non rientrano infatti i disadattati sociali).

Il problema è e resta comunque urgente, anche perchè occorre recu­perare un notevole tempo perduto. D'altra parte, se la società diventa più difficile, più facilmente restano indietro e sono travolti gli inadatti, di più in più ne aumenta il numero ed aumenta la difficoltà del trovarsi e ritro­varsi idonei alle esigenze del lavoro e del vivere odierno. Occorre stare dunque attenti e non lasciarsi irretire da un senso di fatalistica rassegna­zione e accettare il fatto che in una società altamente industrializzata il successo è dei migliori, dei più capaci: pazienza per quelli che restano ai margini! Ed ecco allora un problema impellente di servizi sociali in genere e di servizi sociali aperti in particolare: da servizi di diagnosi precoce, a servizi che consentano il massimo di istruzione e di formazione consentiti dai vari gradi e caratteristiche delle anomalie e delle minora­zioni, a servizi che valorizzino le spesso elevate capacità di lavoro dei soggetti disadattati, etc.

Siamo perfettamente consapevoli che la proposta di legge popolare muove da queste motivazioni che noi stessi desideriamo riconfermare an­che in questa sede.

Ma le proposta merita un commento anche per quanto riguarda i suoi contenuti: contenuti più strettamente politico-organizzativi, contenuti di largo indirizzo politico-generale sui quali ultimi desideriamo soffermarci cercando di enucleare il «taglio», la filosofia del provvedimento, e la­sciando invece che in altra sede, più adatta di un breve corsivo, se ne commentino gli aspetti tecnici. E, a questo proposito - pur prevedendo che molte saranno le osservazioni, le valutazioni critiche, le proposte di modifica, di precisazioni, di integrazioni, ecc. - occorre dire che nella proposta sono sostanzialmente accolti indirizzi generali su molti dei quali è stato raggiunto ormai un accordo pressoché generale, almeno a livello tecnico, anche se ad essi non è rivolta eguale attenzione dai politici e dagli amministrativi.

Qui vogliamo porre l'accento su alcuni di tali indirizzi che ci sem­brano particolarmente caratterizzanti.

Innanzi tutto, come si è già accennato, il settore è considerato uni­tariamente ed in stretto collegamento col sistema generale di assistenza; la normativa non prevede limitazioni degli interventi od esclusioni in relazione all'età; il sistema di prestazioni rivolto alle categorie conside­rate è organizzato in modo da evitare la emarginazione delle categorie stesse ed assicurare invece la loro integrazione con la restante popola­zione «normale»; l'azione preventivo-assistenziale ha carattere unitario, sì che le diverse fasi, da quella della prevenzione, a quella del dépistage a quella del recupero, a quella della riabilitazione sociale siano fra loro strettamente collegate; viene attribuito preminente valore all'assistenza in famiglia nei limiti almeno in cui questa può avere una concreta e rea­listica attuazione; nella proposta infine assumono rilevante importanza le fasi della prevenzione, della segnalazione e del reperimento organizzato (anche se può essere considerato alquanto autoritario il metodo adottato per realizzarlo).

Per quanto riguarda le strutture pubbliche di carattere politico-ammi­nistrativo, la proposta si caratterizza per la istituzione di un vertice che garantisca una politica unitaria e una unità di indirizzo in sede di pro­grammazione nazionale e di aggiornamento del personale e per la respon­sabilizzazione in questo settore degli enti locali a cominciare dalle Re­gioni, alle Province, fino ai Comuni. Anche su questo aspetto di fondo (come sugli indirizzi generali prima enunciati) esprimiamo il più aperto consenso, essendo nostro preciso convincimento, che una efficace poli­tica di servizi sociali non può concretamente attuarsi se non nella eco­nomia di una concezione moderna dell'ente locale, divenuto elemento insostituibile di una nuova articolazione della società, struttura essenziale a garantire a tutti i cittadini le condizioni per un integrale indirizzo dei singoli e dei gruppi sociali. Con ciò sottolineiamo in altri termini l'esi­genza che una programmazione di servizi maturi e trovi il suo fondamento a livello locale, superando in tal modo il verticismo della attuale strut­tura assistenziale italiana.

Da parte sua l'A.A.I. - che da tempo opera in questo settore silen­ziosamente ma concretamente, seppure in proporzioni corrispondenti alla grande ristrettezza dei mezzi a sua disposizione - rimane disponibile per assumere, se ritenuto utile per la collettività nazionale e per questi particolari gruppi di handicappati e disadattati, più ampie responsabilità di studio, programmazione, promozione e sostegno dei servizi sociali destinati a tali gruppi.

E' facilmente presumibile, infatti, che un periodo non breve di tran­sizione dovrà trascorrere prima che maturi sul piano politico - e sia realizzata poi concretamente - una completa ristrutturazione del sistema assistenziale; ed è in tale periodo di transizione che organi pubblici inter­medi possono operare con efficacia e concretezza, senza costituire pre­giudiziali per le soluzioni che successivamente potranno essere assunte a livello politico.

LODOVICO MONTINI

in «Assistenza d'Oggi», n. 1, 1970,

Editoriale

 

(1) I servizi per disadattati in età evolutiva con manifestazioni antisociali, ed. A.A.I., 1969.

 

 

SCUOLE SPECIALI E CLASSI DIFFERENZIALI: TUTTO DA RIPENSARE

 

Dalla classe differenziale al recupero in ambiente normale con inter­venti di specialisti e un programma di compensazione - Dalle scuole speciali alle classi speciali presso le scuole normali.

 

Il 12 febbraio scorso si è tenuta a Torino, a cura dell'Assessore all'istruzione del Comune, dott. Vinicio Lucci, una Tavola rotonda sul tema «La validità delle classi differenziali nella scuola d'obbligo»: moderatore il prof. Giovanni Bollea, relatori il prof. Franco Tadini, la prof.ssa Andreina Loreti Ricci, la prof.ssa Annamaria Viziale, il dott. Paolo Henry, il pro­fessor Maurizio Pepe.

L'attualità dell'argomento è stata sottolineata dalla presenza e dalla partecipazione attiva di un pubblico numerosissimo e qualificato. I risul­tati sono stati, come alcuni si attendevano, abbastanza nuovi e sconvol­genti nei confronti della mentalità e della pratica tradizionali.

Non pochi dirigenti scolastici e non pochi insegnanti hanno lasciato la sala della riunione con la domanda assillante: «Dunque, tutto da rifare per le classi differenziali e per le scuole speciali?».

 

L'autocritica di G. Bollea

In realtà, specialmente il prof. Bollea, già ben noto sostenitore delle classi differenziali sul piano scientifico e influente consigliere della no­stra politica scolastica al riguardo, ha pronunciato una vera «autocritica» con notevole coraggio e con lucida chiarezza.

I punti fondamentali di questa revisione critica sono i seguenti:

1) le più recenti esperienze scientifiche dimostrano che la classe differenziale non è valida al fine del ricupero dei soggetti a cui sarebbe destinata;

2) circa i soggetti che si pensava ricuperabili in classe differen­ziale, occorre abbandonare il concetto tradizionale dello «pseudo-debole» o «falso anormale», come concetto scientificamente superato, e distin­guere invece tre tipi di alunni «immaturi»: immaturi affettivi, sociali, settoriali;

3) acquisita questa migliore conoscenza dei soggetti bisognosi di cure particolari, la classe differenziale diventa anche pericolosa, perchè può concorrere «a creare l'insufficiente mentale», a porsi come una com­ponente della più vasta «catena di montaggio dell'insufficiente mentale»;

4) in luogo delle classi differenziali, occorre aprire la scuola a diversi specialisti che si affianchino all'insegnante di classe normale, per la cura individuale, ambulatoriale, degli alunni bisognosi: pediatri, pedo­psichiatri, psicologi, assistenti sociali, rieducatori specializzati del linguaggio, delle dislessie, ecc.;

5) le classi differenziali non dovrebbero essere fissate per legge; quindi il Bollea giudica il progetto del Ministero della P.I., che si preannuncia al riguardo, in ritardo di un decennio sulle conquiste scientifiche;

6) infine, in una struttura scolastica che preveda in tutte le scuole una effettiva collaborazione interdisciplinare fra insegnanti e specialisti, anche le classi speciali devono trovare posto presso le scuole normali.

 

Le nostre attese

Non è da oggi che soprattutto a Torino si dibattono questi problemi e si compiono delle realizzazioni, direi, in anticipo sulle posizioni del Bollea. Alla Tavola rotonda se ne è fatta portavoce soprattutto l'ispettrice A. Loreti Ricci. Perciò siamo lieti della autocritica del prof. Bollea; se mai possiamo rammaricarci che giunga forse un po' in ritardo, quando già si è avviato un processo di istituzioni e di funzionamento di classi differen­ziali, molto notevole e ora difficilmente controllabile e orientabile se­condo le nuove posizioni scientifiche.

D'altra parte, diversi pedagogisti da anni avevano sostenuto le tesi ora avallate anche dalla scienza medica. Ad esempio, il Volpicelli nel 1959, al 1° Convegno Nazionale di studio sulle classi differenziali, aveva soste­nuto che «certe selezioni di alunni sono le selezioni dei poveri» e che «una parte di alunni differenziati diventano differenziati per varie ragioni durante il corso dell'obbligo scolastico». Sulla stessa linea si pongono R. Dottrens, A. Agazzi, P. Bertolini.

Sulla stessa linea, dall'inizio del secolo, da circa settanta anni, è l'esperienza dei nostri colleghi francesi. La scuola francese non ha mai previsto classi differenziali, ma ha previsto la stretta collaborazione fra insegnanti e specialisti e rieducatori (la rieducazione di particolari aspetti della personalità, di certe funzioni e in certe materie scolastiche è molto avanzata), e infine ha previsto le classi di perfezionamento, equivalenti alle nostre classi speciali, funzionanti presso le scuole normali.

Ora anche in Italia inizia un discorso nuovo anche in sede ufficiale: dobbiamo essere pronti a condurlo anche dal punto di vista pedagogico con idee, suggerimenti ed esperienze che partano dalla scuola.

 

Il problema politico

Chi ha assistito alla Tavola rotonda ha forse avuto la sensazione che alcuni oratori e soprattutto alcuni interventi del pubblico abbiano accentuato in maniera notevole l'aspetto sociale e politico legato alle classi differenziali. Non che ne mancassero i motivi: si sono riferite per­centuali altissime di alunni immigrati e poveri accolti in differenziale; situazioni di isolamento delle stesse classi dalle scuole comuni.

In primo luogo, osserviamo che il prof. Bollea ha fatto bene ad accen­tuare l'aspetto scientifico della questione, dando maggior credito alla sua nuova posizione: la classe differenziale è da ridiscutere, da modificare in primo luogo per motivi scientifici.

Ma subito vogliamo aggiungere un suggerimento: si veda il recente numero di «Scuola di Base» dedicato a «L'alunno dell'ambiente socio­culturale depresso». In questo numero si esaminano con estrema chia­rezza e con notevole coraggio le influenze sociali, socio-economiche e socio-culturali, della famiglia e dell'ambiente, sul rendimento scolastico di molti alunni, non solo, ma anche sullo stesso livello mentale. Molti alunni denunciano un livello mentale inferiore di chiara origine sociale: il loro ricupero - si documenta nella stessa Rivista - non si attua nella differenziazione, ma instaurando una nuova metodologia che viene chia­mata di compensazione, di intensificazione. Una compensazione anzitutto a livello delle strutture familiari e sociali, a livello poi delle strutture sco­lastiche (assistenza, doposcuola, scuola a tempo pieno), infine a livello della didattica da attuare nelle classi comuni.

Alla scarsa stimolazione che molti alunni ricevono dai loro ambienti familiari e sociali, deve rimediare la scuola con una stimolazione più in­tensa e più prolungata nel tempo (di qui anche i problemi della revisione del calendario scolastico), comunque sempre in ambiente normale, perchè più ricco, vario, stimolante appunto, rispetto all'ambiente più povero e meno stimolante che si attua con la differenziazione degli alunni.

(a cura di P. ROLLERO)

 

 

DOCUMENTI SUI PROBLEMI DELLA RIEDUCAZIONE MINORILE

 

La carenza di personale

Paurosa, incredibile, assurda carenza di personale specializzato (230 assistenti sociali e 160 educatori per tutta l'Italia, di fronte a una somma di 25.000 denunciati penalmente, 5000 segnalati in via amministrativa e almeno 10.000 casi civili) ; carenza incivile e ingiustificabile se si tiene presente, ad esempio, il continuo aumento e ampliamento degli organici della polizia femminile: mentre gli assistenti sociali sono, in media, 10-12 per regione, la polizia conta decine di elementi in ogni provincia, tenendo così in mano tutta l'opera di reperimento e interferendo, spesso pesante­mente, nell'opera rieducativa: tutto ciò, oltre tutto, è nettamente contrario alla Costituzione.

 

Intolleranza e repressività delle strutture sociali

La nostra società, sempre più conformista e sempre più esigente in fatto di efficienza e di funzionalità, ha una bassissima soglia di tolleranza per comportamenti anche minimamente devianti dai suoi schemi e piut­tosto di sopportare la tensione proveniente da queste situazioni è disposta a pagare cifre altissime più di 1000 miliardi all'anno) pur di stare tran­quilla e di poter credere di avere la coscienza a posto. Il risultato è che chi entra nel giro come «cliente» è subito etichettato e classificato e se è povero resta povero, se è disadattato resta disadattato, se è ammalato resta ammalato. Si impongono ai soggetti sistemi di vita e di comporta­mento preordinato, si nega loro in realtà la possibilità di un'autonoma e libera espressione della personalità: e, per essere più tranquilli in questa operazione, ci si affida alla scienza e alla tecnica. Tramite questi stru­menti il soggetto viene trasformato in oggetto, i meccanismi di collabo­razione interdisciplinare e il lavoro d'équipe, nel garantire una presunta ma non dimostrata scientificità all'agire, deresponsabilizzano quella stessa società che aveva prodotto il disadattamento attraverso i suoi meccanismi competitivi e discriminatori. L'uso di conoscenze tecniche diventa potere di decisione sulla vita dell'altro: la sentenza dell'équipe piomba sul de­stino del singolo, sopprimendone ogni autonomo progetto di vita. Ma ciò non è tutto: le contraddizioni del sistema allontanano sempre di più il lavoro di diagnosi dalla vera realtà del soggetto, rendono sempre più astratte e retoriche le formule con cui si cerca di classificare ogni sog­getto, arbitrarie, oppressive e inutili molte forme di trattamento. Il ser­vizio sociale, in particolare, nato come forza di trasformazione e di pro­gresso, rischia così di mutarsi in un fattore di involuzione: dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a ciò, prendere coscienza di questi mu­tamenti quasi inavvertiti, ma sostanziali, dire basta a questo lavoro inu­tile e oppressiva per gli utenti, discutere e analizzare a fondo questi problemi tra di noi e con gli altri operatori e con gli utenti stessi, riuscire ad imporci all'attenzione dell'Amministrazione e dell'opinione pubblica, riuscire a cambiare.

 

Arcaismo dell'organizzazione attuale caratterizzata da: gerarchismo, cen­tralizzazione, settorialità, penitenziarismo, carenza estrema di personale e di mezzi

La situazione è infatti caratterizzata da:

- un gerarchismo che deresponsabilizza proprio quegli operatori che dovrebbero dare autonomia e capacità di autodecisione agli utenti del servizi e crea un diaframma tra esperienza sul campo e direzione dei servizi, differenza accentuata dalla eterogeneità professionale dei gruppi direttivi rispetto agli operatori di base;

- da una conseguente centralizzazione delle decisioni e degli inter­venti che impedisce un vero decentramento e l'adeguamento alle condi­zioni locali (così varie da regione a regione) e pregiudica aperti e co­stanti rapporti con le comunità d'origine degli utenti;

- da una organizzazione settoriale delle varie attività (tecniche, edilizie, del personale) divise tra più uffici caratterizzati da indirizzi tra loro eterogenei (in quanto si occupano indiscriminatamente sia di pro­blemi minorili che di problemi delle carceri per adulti) e che impedisce una politica coerente, globale e specializzata (è evidente che il fatto rieducativo è unico e non ammette suddivisioni);

- da un sistema di riferimento, di procedere, di mentalità pretta­mente penitenziarie conseguenti al fatto che i servizi minorili, fatto unico tra i paesi più progrediti, sono inquadrati in Italia nella struttura peni­tenziaria;

- da una carenza estrema di mezzi e di personale specializzato (conseguenza evidente del fatto di cui al punto precedente). Mancano infatti le piante organiche dei magistrati dei Tribunali per i minorenni, gli educatori sono 160, gli assistenti sociali 230... mentre la maggioranza del personale è di formazione penitenziaria (gli agenti di custodia sono 800...). E' incredibile e ridicolo che si possa pensare ad una politica rieducativa con simili carenze nei ruoli tecnici.

 

Necessità di una cultura integrata e il contributo dei «disadattati»

Una società a compartimenti stagni, che ignori parte della realtà che pur la costituisce, non può che essere autoritaria e repressiva, non può che produrre una cultura incompleta, accademica o di evasione e una azione politica frammentaria o di comodo; una società democratica deve invece prendere atto di tutte le proprie componenti ed elaborare una cultura e un'azione politica che tengano conto della condizione umana, delle esigenze, dei cambiamenti di cui sono portatori i cosiddetti «disadattati», sia che si tratti di originalità reattiva al crescente conformismo della nostra società, sia di ribellione alla violenza e allo sfruttamento pur essi crescenti; solo così i servizi rieducativi potranno assumere la loro vera fisionomia di servizi democratici ed aperti, a disposizione di chi, per qualsivoglia motivo, si trova in difficoltà comportamentali.

 

Assenza di una politica per la rieducazione

Dobbiamo rilevare come, a tutti i livelli, manchi o sia impedita una politica per la rieducazione e per la prevenzione, come la nostra società si sia sviluppata economicamente lasciando nelle primitive condizioni i suoi servizi sociali; come, in particolare, manchino i «servizi sociali di base» che, gestiti dagli enti locali, sarebbero i soli a poter effettuare una vera prevenzione, togliendo ai servizi specializzati (giudiziari o psi­chiatrici) tutte quelle funzioni vicarie di cui oggi sono caricati per la mancanza, appunto, di altre strutture.

 

Dal «IX Congresso Nazionale degli Assistenti sociali

del Ministero di Grazia e Giustizia»

(Roma, 12-14 giugno 1969)

 

 

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