Prospettive
assistenziali, n. 10, aprile-giugno 1970
LIBRI
I
figli del sogno, di
Bruno Bettelheim, A. Mondadori
Editore - L. 2500.
Credo che la lettura di questo
lavoro susciti nell'uomo di cultura occidentale una immediata
reazione di panico e quindi l'assunzione di un atteggiamento difensivo che a
lungo rischia di falsare le prospettive della lettura stessa.
L’A. del resto sembra essersi
perfettamente reso consapevole di ciò, sin dall'inizio della sua analisi.
Citando lo studioso Diamond dice (pag. 24): «Nella socializzazione del bambino nato nel kibbuz,
questo porre l'accento, fin dalle prime settimane di vita, sul gruppo dei pari
è stato il mezzo più efficace per rompere il legame fisico tra le generazioni».
E poco più avanti (p. 25): «...
bisogna capire fin dall'inizio che le madri dei kibbuz
non hanno mai considerato la maternità e la cura del bambino come la funzione
principale della vita, al contrario di quanto avviene per quasi tutte o almeno
molte donne della borghesia americana».
Ed ancora, il Bettelheim
vuole ulteriormente chiarire i parametri con cui valutare il fenomeno (in
quanto è quasi impossibile per il lettore restare esente da un atteggiamento
critico) quando scrive (p. 28): «E' in questo contesto
di missione auto-imposta che bisogna comprendere l'intero fenomeno dei kibbuz e, per conseguenza, il comportamento dei genitori
verso i figli. Ciò significa che tutto quanto dirò in
questo libro deve essere sempre riferito a tale contesto».
D'altra parte però lo stesso A. non
si sottrae all'interessante paragone con soluzioni educative offerte
da altri contesti socio-culturali, e ad un certo punto conclude, con
interpretazione a livello psicanalitico (pp. 28-59) che, a suo parere, «lo
scopo dei membri del kibbuz, nel fare appello alla
necessità, era quello di alleviare il loro senso di colpa per aver rifiutato di
prendersi personalmente cura dei propri figli, delegandone l'incarico alla
collettività».
La «tentazione» di rispondere alla
domanda di fondo: è quello del kibbuz
un buon sistema educativo?, se lo è, sarà possibile riprodurlo in una società
del tipo di quella americana? si riscopre a tratti, e
Bettelheim tenta delle risposte parziali lungo
l'esame dei tre «stadi» evolutivi («Prima infanzia», pp. 71-142; «L'età della latenza», pp. 143-196; «L'adolescenza», pp. 197-262).
Probabilmente però la risposta più completa viene
data nell'ultimo capitolo, quando egli conclude: «Non so se sarebbe bello avere
da noi qualche kibbuz, per quanti desiderano sfuggire
all'anonimità, all'egoismo, alla competizione, alla disorganizzazione sociale
e al crescente senso di non avere uno scopo, che troviamo
così sovente nella moderna società di massa. ..... Una simile idea prova la mia
preferenza per una società aperta che, per il suo pluralismo, permetta al kibbuz e ad altri
organismi di coesistere. Disgraziatamente il kibbuz
condanna il pluralismo e la società aperta; cosa che rende insolubile tanto
il mio quanto il loro problema, come avviene di tante questioni-chiave
dell'esistenza umana» (p. 283).
Credo che l’A. voglia, con queste
parole, dare una lezione a se stesso ed a noi; sottolineare che ogni sistema
educativo (e sostanzialmente ogni sistema politico che gli sta alla base) deve
tenere conto in qualche modo almeno, della originalità
e della imprevidibilità dell'individuo, tanto da non
usare violenza alla persona per sottrarle tutto ciò.
Tanto è vero che il Bettelheim, alla fine, non si domanda più se il sistema
educativo del kibbuz sia o
non sia giusto, se dia risultati desiderabili o meno, se crei inconvenienti
per chi lo subisce. Egli torna a considerare soprattutto il «contesto» in cui esso è nato, la volontà di reazione dei
padri al vecchio sistema, e scrive: «Non si può sognare la
vita di un altro, ci si può soltanto costruire la propria. Questo hanno fatto i fondatori del kibbuz,
e i loro figli ne portano il segno. E può essere significativo,
per capire l'educazione del kibbuz, il fatto che,
sotto certi aspetti, i figli siano diventati quali i padri si aspettavano e
speravano, mentre sotto certi altri, siano una cosa del tutto diversa. Infatti, essi non erano fatti della stessa stoffa dei sogni,
ma di carne ed ossa, uomini nati con una patria, sulla propria terra».
C'è invece chi ha visto nella analisi del Bettelheim una
vera e propria critica ad un certo sistema educativo, all'incentramento
dei rapporti interpersonali, particolarmente a quello madre-bambino.
Come si legge nella presentazione
del libro fatta da Bianca Iaccarino («Rivista di
psicologia analitica», vol. I, n. 1, 1970, pp.
190-192), viene affermato che «l'unica cosa di cui siamo certi è che il
bambino, nei primi anni della esistenza, ha bisogno di sicurezza sia fisica
che emotiva, non fa distinzione tra la persona o il numero delle persone che
gliela forniscono. Ciò costituisce un preciso atto di accusa
alle nostre istituzioni educative e rieducative che
non riescono, normalmente, ad assicurare quell'apporto emotivo necessario alla
costruzione di una personalità sana.
«L'obiezione usuale a questa accusa punta sulla mancanza di un rapporto primario,
unico e individuale, e sull'impossibilità di sostituire la figura materna, per
sollevarsi da qualsiasi responsabilità.
«L'esperienza dei kibbuz dimostra invece che responsabile è solo l'incuria e
l'inefficienza di chi amministra l'educazione e la formazione delle classi emarginate».
A mio parere un giudizio del genere
sembra non tenere conto di due fattori. L'uno è la raccomandazione stessa del Bettelheim, di non lasciarsi andare ad estrapolazioni di
tipo socioculturale, tanto è vero che egli stesso, più di una volta, si
obbliga a ritornare al contesto che studia; l'altro è
il non tenere comunque conto di modalità peculiari che portano il bambino a
costruire il rapporto col gruppo, e precisamente la delega fatta al gruppo
stesso dai genitori. Ciò non è, come potrebbe sembrare, una sottigliezza, se si
rileggono le pagine in cui viene descritto il «saluto
serale» dei genitori ai figli, momento vissuto da entrambe le parti con
intensità drammatica nello sforzo di iniziare un dialogo e nella incapacità di
farlo.
Questa sorta di delega rende, a mio
parere, il rapporto tra il bambino ed il gruppo (la comunità) naturalmente
mediato; è un tipo di rapporto in cui, volenti o non, entrano anche i
genitori.
Ciò solo per dire
che le cose non sono così semplici, come apparentemente si potrebbero fare, col
dire che delle buone istituzioni collettive risolvano il problema della
formazione di un individuo sano.
Ed a maggior ragione se riflettiamo
su certi atteggiamenti degli adolescenti dei kibbuz
(mancanza di iniziativa, assenza di creatività,
scarsa coscienza individuale) ci rendiamo conto che le cose non sono così
semplici neppure là dove un particolare contesto ha permesso di attuare la
stessa esperienza dei kibbuz.
Patrizia Pagliari Taccani
www.fondazionepromozionesociale.it