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I SERVIZI SOCIALI E LE REGIONI |
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La costituzione delle regioni a statuto ordinario, l'emanazione entro due anni delle leggi-quadro e, a più breve scadenza, l'approvazione degli statuti regionali sono fatti che possono modificare sostanzialmente la situazione del nostro paese anche per quanto riguarda il settore socio-assistenziale. E' però un momento estremamente delicato, in quanto si possono precostituire delle posizioni che sarà ben difficile smuovere in seguito. Vi sono infatti forti tendenze in atto miranti a: - istituire, con il pretesto della prevalente funzione tecnica e non politica, consigli di amministrazione per ciascuna delle materie (assistenza sanitaria e ospedaliera, servizi sociali, assistenza scolastica, urbanistica, ecc.), in modo da impedire che i problemi vengano affrontati in modo unitario e con la partecipazione diretta dei cittadini. Poiché la gestione da parte di «enti» è ormai inaccettata dai cittadini, è significativo il tentativo di introdurre il concetto di amministrazione per mezzo di «agenzie»; - attribuire funzioni operative nelle stesse materie alla regione, alle province, ai comuni, ai consorzi di comuni, alle unità locali, eventualmente conservando qualche competenza ai ministeri o attribuendone anche ad «agenzie» regionali; - predisporre leggi-quadro che indichino in modo dettagliato le attività che dovranno essere svolte dalle province, dai comuni, dalle unità locali, in modo che la potestà legislativa delle regioni diventerebbe poco ampia e quindi politicamente poco significativa; - costituire le unità sanitarie locali tenendo conto esclusivamente dei bisogni terapeutici e limitando l'azione preventiva al livello personale (schermografie, vaccinazioni, ecc.) e non consentendo pertanto interventi sulle strutture sociali disadattanti (scuola, lavoro, piani urbanistici, servizi sociali, ecc.). La costituzione delle unità sanitarie locali senza una visione d'insieme, potrebbe anche portare ad una impostazione esclusivamente o prevalentemente sanitaria e cioè «terapeutica» delle problematiche sociali. Tutte queste tendenze mirano ad escludere o limitare fortemente la partecipazione diretta dei cittadini alla gestione politica. In linea con esse è lo schema di disegno di legge redatto dal Ministero della pubblica istruzione e relativo all'istituzione e al funzionamento delle scuole speciali, ai laboratori-scuola e alle classi differenziali, la cui impostazione è in netto contrasto con il pre-documento della Commissione del Ministero della Sanità incaricata di dare indicazioni sui rapporti fra i servizi sociali e le unità sanitarie locali. Il problema più importante ed urgente, a nostro avviso, è quello di evitare che: - vengano conservate competenze socio-assistenziali ai Ministeri (come ad esempio il settore rieducativo); - le leggi-quadro siano troppo dettagliate; - le regioni svolgano anche funzioni operative sia direttamente sia tramite le cosiddette «agenzie». Il numero degli abitanti nei comuni italiani è estremamente variabile, come risulta dal seguente specchietto che riporta i dati del censimento del 1961:
I Comuni con un basso numero di abitanti non sono in grado di svolgere funzioni politiche; i Comuni metropolitani non consentono la partecipazione dei cittadini, com'è dimostrato dalla nascita spontanea dei comitati di quartiere. D'altra parte le province italiane hanno una popolazione che varia da 3.554.413 (Milano) a 140.367 (Gorizia), secondo i dati ISTAT al 31-12-1966. Da notare che con tutta probabilità il divario è aumentato sia per i Comuni che per le Province a causa delle migrazioni interne e delle emigrazioni esterne e della creazione di nuovi Comuni e Province. Di qui la necessità di ipotizzare le unità locali (1) come organi politici che coincidano con i comuni con popolazione dai 50.000 ai 100.000 abitanti, con il raggruppamento dei comuni con popolazione inferiore ai 50.000 abitanti e con la suddivisione di quelli con popolazione superiore ai 100.000 abitanti. Eventualmente ai comuni attuali non coincidenti con le unità locali potrebbero essere conservate funzioni esclusivamente burocratiche-amministrative (servizi stato civile, anagrafe, uffici elettorali, ecc.). Per quanto concerne le province, ipotizziamo la loro trasformazione in comprensori e cioè in organi politico-amministrativi comprendenti più unità locali di una stessa regione. Alle unità locali ed ai comprensori dovrebbero essere affidate tutte le competenze operative per le materie delegate alle regioni oltre a quelle affidate dalle leggi della Repubblica. Sarebbe però necessario che anche il settore istruzione (pre-scuola, scuola dell'obbligo, scuola superiore e università) venisse delegato alle regioni per la inscindibile connessione fra i problemi sanitari, socio-assistenziali, urbanistici e quelli scolastici e culturali. Naturalmente la riforma proposta, sulla quale sarebbe utile l'apertura di un vasto dibattito per verificarne la validità, ben difficilmente potrà essere attuata a breve termine soprattutto per le note opposizioni a rendere effettivamente partecipi i cittadini alla gestione della cosa pubblica. Possono però essere attuate, a breve termine, riforme di avvicinamento come i consorzi dei comuni piccoli. Per quanto concerne le nuove iniziative, occorrerà premere sulle province e sui comuni affinché i servizi che verranno predisposti o confermati, rispondano alle reali esigenze dei cittadini e non siano segreganti o emarginatori o comunque discriminanti. Sapremo utilizzare l'attuale favorevole momento politico determinato dalla costituzione delle regioni a statuto ordinario? Oppure continueremo a dare la colpa agli altri disinteressandoci dei problemi di fondo?
(1) Secondo la definizione di Trevisan, «con il termine di unità locale si intende una circoscrizione territoriale e demografica valutata come ambito-base o minimo in cui funzionalmente si possa prevedere la presenza di tutti quei servizi di interesse generale il cui massimo decentramento sia auspicabile e possibile».
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Prospettive assistenziali
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