Prospettive
assistenziali, n. 11-12, luglio-dicembre 1970
ATTUALITÀ
In margine al tragico caso Davani,
il bimbo focomelico di Roma gettato dal padre nel Tevere, pubblichiamo due
documenti molto significativi.
Il primo è l'intervista radiofonica di Gianna
Menichelli, giovane focomelica, alla radio vaticana.
La stessa giovane è pure stata intervistata dalla televisione per la
rubrica «Domenica domani».
Noi preferiamo pubblicare la prima intervista, perchè è più
rispondente alle nostre concezioni sul problema dell'assistenza
Il secondo documento è un ordine del giorno, molto energico,
dall'A.N.I.E.P. di Roma.
INTERVISTA RADIOFONICA di GIANNA MENICHELLI ALLA RADIO
VATICANA
(Rassegna «Orizzonti
Cristiani» - Confronti a viso aperto a cura di Spartaco Lucarini
- «Genitori e figli» del 23-9-1970)
D. Nel nostro confronto fra genitori e figli
questa volta vorrei soffermarmi su di un aspetto particolare, purtroppo tutt'altro che raro, della famiglia: quali sono e quali
dovrebbero essere i rapporti fra genitori e figli, quando i figli sono
handicappati, handicappati di ogni genere: mentali, i
cosiddetti subnormali (anche se è un termine che io rifiuto); handicappati
nell'uso degli arti, i cosiddetti spastici, handicappati per mancanza di arti,
i cosiddetti focomelici.
Davanti a questo microfono giusto un mese
fa, se non vado errato, ha avuto luogo un dibattito di
esperti sul caso del bimbo focomelico di Roma gettato dal padre, Ilio Davani, nel Tevere. Davanti allo stesso microfono questa
sera abbiamo
Io vorrei che fosse lei stessa a
presentarsi.
R. Io
sono Gianna Menichelli, focomelica, mancante
dell'avambraccio sinistro e quindi la mia esperienza...
D.
Sì, sì dica pure, signorina, perchè ha accettato di
venire qua.
R. Sì, ho accettato di venire qua soprattutto,
perchè mi è stato detto che tratteremo anche il caso Davani ed un po' il caso dei focomelici e degli
handicappati tutti.
Questo per me è molto importante perchè
fino ad oggi io ho visto che questi problemi sono stati un po' dimenticati da
tutti, dalla società specialmente, la società che ci
dovrebbe aiutare in quanto noi handicappati siamo non tutti autosufficienti.
D. Io
le faccio subito una domanda, signorina, tanto per ordinare anche il dialogo.
Lei ha conosciuto il gesto del padre
romano. E come quello del padre romano altri gesti di
questo genere ci sono stati anche in questi ultimi anni.
Ora lei come giudica questo
atto?
R.
Prima di tutto penso che non ci sia la dovuta preparazione di tutti i genitori.
I genitori non vengono
mai preparati ad accettare i figli così come verranno. Essi, cioè,
sperano e credono sempre di averli belli, sani, robusti, intelligenti. Perciò, nel momento in cui si trovano di fronte ad un figlio
handicappato, si sentono perduti e soprattutto si trovano soli. Soli di fronte
a mille difficoltà, sia di carattere economico, di carattere educativo, di
carattere sanitario; di fronte a difficoltà che difficilmente, specialmente
parlando di gente ad un certo livello sociale, riescano
a superare da soli.
Occorre quindi che ci sia da parte delle
persone valide, più illuminate, più coscienti di
questi problemi, una preparazione prima del matrimonio, durante la gestazione
della madre, e subito dopo la nascita del figlio.
D.
Lei, signorina, quando ha cominciato ad accorgersi di essere
diversa dagli altri bambini?
R.
Le sembrerà strano, ma io me ne sono accorta il giorno in cui mia madre ha
detto «tu sei invalida»; al momento, cioè, che essa
voleva iscrivermi ad una associazione di categoria. Avevo allora 19 anni.
D. Fino a quel momento lei ha pensato di
essere...
R. Normale, perchè in casa mi consideravano tale.
Non c'era trattamento diverso fra i miei fratelli e me. Nessun trattamento
diverso.
D. Quindi non c'è stato
un momento nel quale lei ha capito che per i suoi genitori era una figlia
diversa, bisognosa di particolari attenzioni.
R. No, mai. Particolari attenzioni solo nella
difficoltà di muovermi, di... Ma queste attenzioni
erano date talmente bene che non mi pesavano assolutamente. Anche
i miei fratelli nei miei confronti non me l'hanno mai fatto pesare. E' sempre
stata una cosa naturale.
D. Per esempio, il periodo della scuola come lo
ha passato? Ha avuto delle difficoltà?
R.
Sì. Il pericolo della scuola è stato molto, molto difficile, ma non nel campo
familiare bensì nel campo scolastico, da parte degli
insegnanti, da parte dei coetanei che non erano abituati alla mia invalidità. Il
mio ingresso fra i bambini non abituati - anche perchè io vivevo in un centro
molto piccolo ed ero un caso unico - non abituati, dico, a
vedermi, destava la loro curiosità. Ed i
bambini, nella loro innocenza, a volte sono un po' crudeli. Questo lo capisco oggi.
Però, a che cosa era
dovuto questo? Alla cattiva educazione data dai genitori ai figli validi
cioè al non averli abituati a stare insieme anche a
quelli non uguali, non identici a loro.
D.
Lei ha avuto una particolare difficoltà quindi anche ad inserirsi nell'ambiente
di lavoro?
R.
Sì, sì. Una difficoltà perchè io ero rifiutata per la mia invalidità dalla...
diciamo.. società, una parola un po' generale. Questo
anche perchè io mi presentavo come steno-dattilografa e con una mano sola è un po' difficile farla, no? Mi rifiutavano quindi, a
priori senza permettermi di fare la prova.
Quando io ho fatto la prova, è stata validissima ma ce n'è ancora voluto, perchè quelli che
avevano fatto la prova mi avevano dato la prova valida, però, quando si è
trattato di firmare i decreti o che, sono di nuovo nati dubbi e c'è voluto
molto perchè questi dubbi si dileguassero, ed ho quindi dovuto lavorare molto.
D. Lei ha dovuto fare uno sforzo supplementare in
tutto quello che faceva, proprio per la difficoltà che trovava nell'ambiente
esterno non però nella famiglia. I suoi genitori, praticamente,
sono stati veramente dei genitori validissimi in questo senso.
R. Sì, sì.
D.
Lei quali consigli darebbe a dei genitori che hanno una figlia od un figlio
handicappato?
R. Di trattarlo nell'identico modo in cui tratterebbero un figlio
valido. Nella stessa maniera, con quelle accortezze, con quelle attenzioni di cui ha bisogno un figlio valido, ma
senza mai far pesare l'invalidità.
D.
Questo, quindi, dipende tanto - lei diceva molto bene prima - anche
dall'educazione che viene data dalla famiglia, dai
genitori anche ai ragazzi sani.
R. Anche ai ragazzi sani! Questo è molto importante. Perchè il
ragazzo, il giovane è buono per natura. non ha la cattiveria
in se stesso. Forse quando i ragazzi crescono l'acquisiscono.
Ma non si nasce cattivi. Si nasce buoni. Poi il
ragazzo prende la piega che gli si dà. Quindi educato
bene il ragazzo viene bene. Avrà più o meno difficoltà
ad adattarsi a certi ambienti o che, ma il ragazzo in se stesso è buono. Quindi educato bene, se gli è stato insegnato come si deve
comportare, quello che deve fare e quello che deve dire, e soprattutto a dare,
il ragazzo non si rifiuta mai. Oggigiorno, anche se vediamo il mondo dei giovani traviato, forse sono più buoni i giovani (anzi,
toglierei senza altro il «forse») che non le persone di una certa età.
I giovani sono più spontanei, danno di più,
e quando lo danno, lo danno veramente e non aspettano
mai la contropartita.
D.
Signorina, io conosco almeno un paio di casi, proprio personalmente, di giovani
handicappati. Ed uno che è focomelico rimprovera
continuamente i genitori di averlo lasciato vivere.
Lei che cosa direbbe a giovani handicappati
in queste condizioni di animo?
R. Siete dei vigliacchi! Rifiutate di vivere.
Rifiutate di lottare. Avete paura e la paura che avete voi la mettete sulle spalle dei vostri genitori. Questo per me è
solo vigliaccheria.
Non sapete abbastanza lottare, non avete
abbastanza coraggio per affrontare la vita e vi
nascondete e cercate il colpevole... i genitori,... gli altri... No. Siete voi.
D.
Lei non pensa che questo dipenda tanto, proprio dalla difficoltà estrema che
vedono nell'ambiente intorno a loro, proprio anche dalla mancanza di aiuto da parte della società?
R. Soprattutto è questo. Perché
l'invalido, oggi come oggi, non è accettato. Noi siamo ancora ai margini
della società. Davanti a noi vediamo una barriera umana che si chiude
inesorabilmente. Però io le dico una cosa: che
dobbiamo essere noi i primi a tendere la mano, perchè io tendo la mano ed uno
me la rifiuta, due me la rifiutano. Ma poi ci sarà
quello che mi tenderà la mano e mi farà entrare ed io mi farò conoscere e mi
apprezzeranno per quello che sono. Non perchè mi manca un braccio, due
braccia, due gambe ma per quello che sono io, per
quello che posso dare, per quello che ho dentro di me, per intelligenza, per
quello che posso avere... Poco; anche poco. Ma è
sufficiente a volte. Perciò se noi ci isoliamo, la
barriera c'è e rimarremo sempre così.
D. I
genitori in genere, quando hanno un figlio od una figlia handicappata, hanno
vergogna e fanno di tutto per non mettere in contatto il bambino o la bambina
con gli altri..
Lei cosa dice di questo?
R.
E' sbagliato anche questo. E' vero, hanno vergogna, e dico anche che è
vergognoso vedere questo stato di cose nella società di oggi.
Io non vedo cosa ci sia di vergognoso
nell'avere un braccio di meno, una gamba di meno; cosa ci sia di pietoso o che.
Niente.
I primi colpevoli sono i genitori - e molte
volte succede ancora oggi - che rinchiudono i figli in casa, che non li mettono
in mezzo agli altri, che non permettono loro di amalgamarsi con gli altri, di
farsi una mente sociale, e di farsi una posizione
sociale quando saranno grandi, di poter studiare... questo, anche, per mancanza
di scuole... Questo è vero. Perchè lei sa che un giovane in carrozzella in una
scuoia normale non può andare? Ci sono gli istituti, d'accordo...
Ma sono quelli che sono; non sono sufficienti; non sono abbastanza
attrezzati. Ed anche l'istituto, in fondo, é un po'
sbagliato perchè il ragazzo invalido che vive con gli invalidi si crea una
certa mentalità, e quando esce vede un altro mondo, un mondo che non è suo. Il
mondo degli invalidi è un mondo; quello degli altri è
un altro mondo. E non riesce ad inserirsi. Se esce
troppo tardi dall'istituto difficilmente si inserisce.
Quindi è
importante che le scuole siano le scuole normali, e che un ragazzo in
carrozzella possa frequentare una scuola comunale, una come tutti gli altri.
D. Questo significa, in pratica, che bisogna
accettare la vita così come è, e che a un certo
momento nella vita vi sono delle persone sane e delle persone handicappate, ma
che non bisogna separare i sani da coloro che sono handicappati, ma che anzi
tutte e due le categorie, diciamo così, hanno bisogno l'una dell'altra.
R. Assolutamente sì. Si sposano; si sposano... Perchè «tu hai le gambe, ma anche io ho il
cervello»...
D. In
modo particolare i giovani, le persone handicappate, hanno forse una ricchezza
maggiore nell'intelligenza, nel cuore che non hanno gli altri.
Lei cosa potrebbe dire al riguardo?
R. Io
dico questo: che il giovane, perchè handicappato, impara di più a pensare, a
concentrarsi e questo lo rende più intelligente, o meglio, sviluppa di più la
sua intelligenza, lo rende più sensibile. Lui soffre pure, ma non tanto per la
sua invalidità; soffre per questo rigetto della società, per questo essere
isolato dagli altri (a volte purtroppo anche dai genitori e dai parenti),
quindi si affina, capisce di più le cose, le comprende di più. Quindi, secondo
me, può dare molto di più di una persona normale anche se
non può fare il maratoneta... Ma non è necessario fare il maratoneta. Ci sono
cento altri mestieri; quindi studierà, farà quello che sarà più facile per lui
fare...
D. Mentre parliamo qui alla mente è il caso di
tanti genitori che ci ascoltano e che hanno magari un bambino handicappato, un
bambino subnormale e che devono davvero ogni giorno combattere la loro
giornata, proprio per superare questo «choc» che, per quanto sia, è rimasto
loro fino dalla nascita di questo figlio o di questa
figlia.
Pensando a questi genitori cosa vorrebbe
dire loro, in modo diretto?
R. Solo questo. Ognuno di noi nella vita si deve
creare uno scopo e loro facciano del loro figlio il
loro scopo. E allora non sarà più un peso, non sarà
più una fatica. Sarà una gioia perchè il più piccolo
progresso sarà per loro una gioia, sarà per loro una vittoria. Anche se imparerà solo a sorridere, per loro sarà una vittoria:
hanno fatto sorridere il figlio!
D. Quindi lei è grata ai
suoi genitori perchè l'hanno lasciata vivere...
R.
Sì, senz'altro. Molto. Grata e riconoscente al mille per mille, perchè io sono
felice, sono contenta di vivere. E non ho una vita
particolare, non ho una vita... di... come dire? la
mia è, così... una vita di tutti i giorni. Però mi
basta poco. A me basta un sorriso, basta una carezza, basta
una stretta di mano e mi aiutano ad andare avanti ogni giorno. Basta un
apprezzamento di un collega. Mi basta! O forse mi
basta pure una bella giornata, o vedere i giardini che magari ho visto qui...
D.
Lei pensa che è più facile superare questo stato avendo, come ha detto, un
ideale e quindi avendo anche una fede religiosa?
R. Si, senz'altro.
Senza la fede non si va avanti. E'
importante perchè dobbiamo sapere che sopra di noi c'è Qualcuno che non ci
lascia mai.
Anche quando fa
freddo c'è il sole che riscalda!
ASSOCIAZIONE NAZIONALE INVALIDI ESITI
POLIOMIELITE
Componente l'Ente Pubblico di cui alla legge
23-4-1965 n. 458
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Roma, 10 sett. 1970
Ordine del Giorno
PREMESSO
- che la pubblica opinione fortemente
frastornata in occasione del recente tragico caso Davani,
ha pressoché trascurato l'angoscioso ed insoluto problema di fondo
dell'assistenza agli invalidi civili, manifestando la propria reazione emotiva
quasi esclusivamente rispetto al caso-limite Davani;
caso che viceversa, è la risultante della politica di immobilismo che non ha
ancora risolto il problema della assistenza agli invalidi civili;
- che da più parti in questa occasione,
sotto la mozione di un vieto pietismo, si è giunti all'auspicio di
provvedimenti razzisti - di hitleriana memoria - quali la soppressione del
nascituro o del neonato gravissimamente invalido;
ELEVA
in nome della civiltà, dell'umanità e
della fede la propria più ferma e sdegnata protesta contro ogni teorizzazione volta comunque a vulnerare il principio della
sacrosanta difesa del nascituro e del neonato;
ed
AFFERMA
che tale difesa, in una con
l'assistenza agli invalidi, incombe allo Stato che deve una buona volta per
sempre provvedervi, sul piano della sicurezza sociale e nel quadro dei principi
sanciti dalla Costituzione, attraverso una riforma di fondo delle strutture
assistenziali.
AFFERMA ALTRESI'
che il lasciare ulteriormente e
sostanzialmente abbandonati gli handicappati, alla mercè di molte, di troppe
iniziative private pseudo-benefiche - inquinate dalla
carità pelosa e dall'avidità di noti squallidi figuri che strumentalizzano il
dolore per crearsi centri di potere e per lucrare ai danni degli handicappati a
spese dello Stato e della generosità dei cittadini - è un oltraggio ai principi
basilari delle nostre libere istituzioni repubblicane, anche se non mancano
alcune istituzioni benemerite, rette da menti illuminate e generose;
PROCLAMA
che è un imprescindibile dovere del
potere legislativo ed esecutivo di affrontare urgentemente la riforma di fondo delle strutture assistenziali;
riforma che non è meno inderogabile di altre urgenti ora sul tappeto, anche se
gli invalidi non hanno potuto avvalersi dei mezzi di pressione di altre
categorie.
DICHIARA
che gli invalidi non soltanto
respingono risolutamente la carità e la pietà, ma anche ulteriori palliativi
che valgono a mantenerli ancora relegati nella umiliante posizione di cittadini
di seconda classe. Essi esigono, per
contro, a viso aperto, in contrapposizione dello «status quo», una riforma di fondo
che assicuri la prevenzione dell'invalidità, l'assistenza materiale e morale ed
una guida sicura alle famiglie dei piccoli invalidi, il ricupero, la riabilitazione,
la qualificazione dell'handicappato, il suo inserimento nel contesto sociale,
il suo effettivo collocamento obbligatorio al lavoro nonché una assistenza
reale, adeguata ed effettiva a tutti gli incollocabili
ed irrecuperabili.
Ed infine,
RECLAMA
che il rinnovamento delle strutture
assistenziali ponga veramente fine ad ogni iniziativa parassitaria
assistenziale ed a tutte quelle imprese, dai mille volti, che industrializzano
la sofferenza, ammantandosi per di più di beneficenza, di fede, di carità, di
falsa solidarietà sociale e di categoria, si che resti definitivamente
stroncato un fenomeno, che disonora il nostro paese, depaupera la finanza
statale, sfrutta la buona fede e l'amore dei generosi, a tutto danno degli
handicappati ed a profitta di una miriade di speculatori e sfruttatori.
www.fondazionepromozionesociale.it