Prospettive
assistenziali, n. 11-12, luglio-dicembre 1970
LIBRI
ANDREA CANEVARO, I ragazzi scomodi, Bologna Ed. Dehoniane, 1970.
Il titolo del libro si presenta
polemico e pone già molti interrogativi. Scomodi i ragazzi disadattati a questa
società dei consumi, ove tutto deve essere preordinato in modo tale che
funzioni per la produzione e chi si allontana da questo dettame sia «escluso»
affinché non turbi la pace di coloro che sono
preordinati al ritmo incessante della produzione. E
allora il disadattamento di chi è: della società o del ragazzo? L'autore risponde
in modo discorsivo all'interrogativo ponendo
l'accento sul problema dell'esclusione praticata nei confronti del «diverso»
anche quando questi è diverso nel «meglio».
L'esclusione si presenta anonima ed
impersonale, e ritenuta necessaria perchè c'è la malattia, il disadattamento,
la pazzia, la prostituzione, la vecchiaia ecc.
Ed ecco il sorgere di certe
istituzioni che l'autore definisce assurde perchè concorrono a deformare e disadattare l'individuo, anziché aiutarlo a risolvere i
propri problemi ed assumere la responsabilità delle proprie azioni.
Molti hanno avvertito
l'inadeguatezza delle soluzioni proposte alle singole difficoltà ed hanno manifestato
il proprio scontento attraverso la ricerca di ciò che è da farsi per il
superamento delle attuali istituzioni; ma il discorso è appena abbozzato e non
ci sono ancora le parole per esprimerlo .e tanto meno per concretizzarlo.
Analizzando la situazione delle
istituzioni, l'Autore si sofferma sulle case di rieducazione accomunando
nel «cerchio degli esclusi» personale educativo e ospiti, in quanto i primi
non possono costituire un ponte valido fra il dentro e il fuori, perchè essi
stessi sono isolati dalla società, mal preparati al compito rieducativo
che li schiaccia e li spersonalizza, ed i secondi vengono spinti ad
uniformarsi ad un mondo chiuso da cui cercano di evadere.
Sembra quasi che le case di
rieducazione si reggano su questa frattura tra il dentro ed il fuori. La storia
di Rodolfo è esplicita in tal senso: il piccolo contrabbandiere è redarguito,
consigliato, dal Giudice, dall'educatore dall'assistente sociale che non hanno fatto lo sforzo di capire il problema (di fuori ci
sono coloro che fumano e quindi consentono il mercato ed il rischio e la fatica
dei poveri Rodolfí); l'istituto rimane estraneo al
ragazzo che si sente non capito in un ambiente incomprensibile.
Il problema investe il comportamento
del ragazzo in relazione agli altri, alla società e
perciò diventa problema di disadattamento, che non si comprende se ci si ferma
alle espressioni più violente escludendo il senso autentico del comportamento
del ragazzo.
Si giudica severamente il
comportamento dei ragazzi difficili e si propongono soluzioni autoritarie
appunto per escluderli perchè scomodi perchè danno fastidio. E il giudice minorile ha spesso la mentalità dell'opinione
pubblica che si scandalizza per i comportamenti diversi dei ragazzi e non trova
di meglio che punirlo, rieducarlo con le maniere forti.
Ma non si è pensato che la violenza
dell'adolescente non è altro che un rimprovero al
mondo degli adulti che non riescono a capire la sete di autonomia e la gioia di
vivere del ragazzo. Egli cerca la soddisfazione dei desideri per mettersi in
contatto con la realtà e si integra se ne riceve
gratificazione, e se si ribella è perchè non accetta e non si integra con una
società che gli propone di accettare passivamente anche tutte le sue
ingiustizie. Ma ribellandosi viene bollato di
«disadattamento» e allora lo si mette in istituto di rieducazione, ove troverà
coercizione che significa violenza come risposta al suo comportamento violento
e non gli si consentirà di farsi uomo partecipe di azione. Al disadattamento
iniziale si aggiunge un secondo dell'istituzione che lo rende indeciso,
insicuro, incerto, capace domani di applicare solo le norme e le regole della
società sfuggendo alle proprie responsabilità con
l'acquiescenza ai propri superiori e l'autoritarismo con gli inferiori.
Bisognerà allora che l'educatore
negli istituti si trasformi da detentore di potere all'interno
dell'istituzione in figura di operatore sociale senza poteri con valori
dinamici che ricerchi e viva con la collaborazione di chi gli sta attorno. Bisogna «percepire e cogliere interamente l'esistenza degli altri
per dare corrispondenza alle intenzioni ed agli affetti» afferma
l'autore. Egli considera l'uomo come essere in
continuo divenire in dialogo con se stesso e gli altri. Quando
l'uomo considera un proprio atto assoluto, allora diventa dittatore e si
sottrae alla realtà del divenire. Perciò l'educatore è
chiamato a vivere come figura storica, ritenendo valido ciò che nasce dalla
relazione e dal rapporto con gli altri e non riducendo l'ambiente a misura dei
suoi propri valori.
Per trasformare gli istituti occorre
renderli luoghi di incontri e di educazione,
socializzando appunto gli educatori attraverso la conoscenza, l'informazione,
la partecipazione ai problemi del paese e della comunità.
La struttura dell'istituto è sbagliata* quando è gerarchica, perchè costringe
l'individuo ad interiorizzare valori negativi di servilismo ed autoritarismo,
che è espressione diversa di una stessa dinamica di violenza esistente nella
società. Bisogna puntare su una struttura orizzontale avendo come costante, la
dinamica, e la ricerca per entrare in rapporto autentico
con le persone. Questo però è impossibile per i grossi istituti,
ma praticabile in piccole comunità pedagogiche con strutture dinamiche e liberatorie.
«Io, Jahvè,
ti ho chiamato nella giustizia e ti ho preso per mano;
ti ho fermato e stabilito alleanza del popolo, luce, per le nazioni, affinché
tu apra gli occhi ai ciechi, e liberi dal carcere i detenuti, dalla prigione coloro
che abitano nelle tenebre».
AA.VV., Le
Regioni a statuto speciale e l'assistenza sociale, Edizioni A.A.I.,
Nella prima parte della
pubblicazione sono illustrati i fondamenti giuridici delle attività delle
Regioni a statuto speciale nel campo largamente definibile socio-assistenziale
e cioè in materia sanitaria, assistenziale, lavoro e
previdenza sociale, di provvedimenti speciali in occasione di pubbliche
calamità.
La legislazione emanata dalle
Regioni a statuto speciale nel campo socio-assistenziale,
come sopra definito, è raggruppata per materie specifiche nella seconda parte.
La terza parte illustra le spese sostenute
negli ultimi cinque anni dalle Regioni a statuto speciale nei settori sopra
indicati.
Le strutture amministrative (Assessorati,
Uffici, Commissioni) predisposte dalle Regioni per corrispondere ai compiti
loro attribuiti dai rispettivi statuti sono il campo di trattazione della
quarta parte.
La consultazione della pubblicazione
è particolarmente utile e necessaria in questo momento
in cui iniziano fa loro attività le Regioni a statuto ordinario e potrebbe
servire per indirizzare i loro programmi verso obiettivi più avanzati e più
rispondenti alle esigenze delle comunità.
S. DELOGU - A. FARRACE - A.M. MACCOTTA CECCARELLI - E. PAGLIA
FASOLO - F. SANTANERA, Innovazioni in campo assistenziale: l'adozione, la pensione base, l'unità locale,
i servizi aperti, Quaderno n. 17 della Fondazione Zancan
(Riviera Tito Livio 17, 35100 Padova), L. 2700.
Esistono talvolta interventi
legislativi e fatti culturali che avviano svolte decisive, innovazioni
profonde, cambiamenti radicali nella vita sociale.
dei servizi sociali e di illustrarli e
approfondirli con l'aiuto di esperti in un Convegno annuale a questo scopo.
Due interventi e due elaborazioni
culturali sono sembrati particolarmente significativi
in questo ultimo periodo: le leggi sulla pensione di base e sull'adozione
speciale e gli studi sulla unità locale e sui servizi aperti.
Su questi temi
Il Quaderno n. 17 contiene e
presenta le relazioni degli esperti e studiosi che hanno partecipato alla elaborazione delle leggi e all'approfondimento dei due
temi prescelti e la sintesi delle discussioni.
Jean MONOD, «Les barjots» - Essai d'ethonologie des
bandes de jeunes, Julliard, Paris 1968.
Innanzi tutto occorre spiegare il
titolo: « Les barjots ». Si
tratta d'una forma molto popolare di argot. L'argot è
già di per sé un linguaggio tipico di quello strato amorfo ed indefinibile di indifferenziazione sociale del basso popolo francese.
Tuttavia, nell'argot, si debbono ancora ulteriormente
definire altri tipi di linguaggio, fra i quali una dei più caratteristici è
quello del «verlan», ovverossia
dell'argot delle prigioni. Il «verlan» è quel
procedimento fonetico che consiste nel rovesciare l'ordine normale delle sillabe:
verlan vuol
dire l'en-vers.
Pertanto «barjot»
significa, più precisamente, «jobard» e «jobard» vuol dire «pazzo», ma con
una nota laudativa, più precisamente si potrebbe dire «spericolato» o - meglio
- «colui che è fuori di ogni regola del buon senso sociale e riesce a vivere ed
a resistere fuori di ogni regola convenzionale».
All'origine della lingua francese il
«jobard» era lo sciocco, la vittima dell'accattone
aggressivo (almeno, questo era il senso nei secoli XV
e XVI): ma ora, per «barjot», neologismo in «argot verlan», si intende il tipo originale, anticonvenzionale,
che vive d'espedienti, dell'accattonaggio ed anche del furto. Oggi per «barjot» non si intende più il
soggetto passivo, ma il soggetto attivo di quella frangia d'esistenza al confine
tra la convivenza sociale e la associazione delinquenziale. C'è stato un
rovesciamento, oltre che fonetico, anche semantico della parola, un «en-vers» concettuale, oltre che linguistico.
Gli studi fatti in Francia sulle
bande giovanili sono di tre categorie diverse: «reportages» di tipo giornalistico, studi statistici ed
inchieste di psichiatri o di psicologi sociali. Tuttavia c'è da rilevare che
gli studi statistici ci presentano solo cadaveri di bande giovanili, perchè,
consistendo solo in correlazioni di dati, restano fuori di ogni
realtà viva, la quale non può, per la natura stessa degli studi statistici,
essere colta nel suo vivo processo di svolgimento,
D'altra parte i reportages
giornalistici non vanno oltre lo studio del singolo caso e manca loro una
verace dimensione sociale del fenomeno studiato. Ma neanche le ricerche
sociologiche sono soddisfacenti: innanzi tutti,
almeno per quel che riguarda
Scopo dichiarato, pertanto,
dell'autore di questo libro, è di compiere una indagine
dal vivo che, pur rivestendo gli aspetti esteriori di un reportage, colga le
correlazioni sociologiche e dia, dal di dentro, una visione il più possibilmente
viva ed efficace del fenomeno.
L'A. inizia la sua indagine
prendendo contatto, per mezzo di un educatore del Club della
Prevenzione della delinquenza minorile, con i giovani disadattati del quartiere
di Montreuil a Parigi. La prima scoperta che egli fa
è quella che, a ben vedere, le bande giovanili non esistono più.
Ed allora perchè procedere ad una
ricostruzione storica sulla base di testimonianze di
ex giubbotti neri? Che senso avrebbe ancora o potrebbe
avere una indagine del genere? Nessuna. La realtà è che non c'è più un mito a
tenere in vita le bande giovanili, ma una disgrazia: i giovani raggruppati in
bande sono perciò più disgraziati che mitomani.
Sono dei frustrati in cerca di
compensazioni. Ciò spiega sia il loro linguaggio scurrile essenzialmente
centrato sul sesso, sia il loro atteggiarsi a rivoltosi contro la società. Non
possono procurarsi né le belle donne, ne le alcove lussuose,
né gli innumerevoli beni di consumo che la società offre a chi ha denaro,
perciò, per compensazione, hanno, dei rapporti amorosi, una concezione bruta e
brutalizzante e tendono a rompere con le convenzioni sociali proprio perché,
negando con la violenza certe cose, nascondono la loro impossibilità di
acquistarle.
Il linguaggio scurrile e la rivolta
contro la società sono due forme diverse di una medesima esigenza di essere - o di considerarsi - identici ai grandi, a quei
grandi che tuttavia li escludono dalla loro società.
E perchè i grandi li escludono dalla
loro società? Soprattutto perchè questi giovani spiantati «non fanno mercato»,
non possono consumare e perciò non servono.
Ma, dice l'A., c'è anche un'altra
ragione della frustrazione. Essa va cercata nella mancanza di magia della
società moderna esclusivamente tecnica e razionalistica. Oggi i giovani non devono
più fare tirocinii per essere ammessi alla maggiore
età; non devono più compiere prove speciali e ritualistiche e pertanto non
hanno, concretamente, intuitivamente e palpabilmente, il senso di «essere diventati grandi». Ecco perché
sono portati, da un lato, al l'esibizionismo. Il bisogno di esibizione
è un modo di far prendere coscienza a tutti che anche loro hanno ciò che
credono sia solo appannaggio dei grandi: il pieno possesso ed il pieno
godimento della funzione sessuale.
Ciò è comprensibile se si pensa che
l'adolescenza è sempre un fenomeno di turbinio dei sensi, di faticosa
conquista di un equilibrio sessuale,
Dall'altro lato i giovani, non
accorgendosi d'entrare senza soluzione di continuità nella età
(essi che procedono, nel loro sviluppo, per scatti discontinui e per salti
bruschi), continuano a considerare la società degli adulti come una società
nemica, come una società che non li vuole, che li respinge e quindi a questa
società si ribellano. Nella loro rivolta c'è inconsciamente
un bisogno di sentirsi «grandi», grandi a tal punto da poter giudicare gli
adulti mediante un rovesciamento di valori. La ribellione non è altro che la
«prova» di iniziazione alla maggiore età, quella prova
che, non essendo più richiesta dalla attuale società, viene da essi
regolarmente compiuta, sia pure come un atto che sembra - ed in parte lo è
anche effettivamente - un rifiuto ad entrare proprio in quel?a società dalla
quale si sentono esclusi. Questo fenomeno non è così avvertito negli stati
totalitari perchè, in essi, permane un rituale di iniziazione
graduale alla conquista del pieno diritto di membro «optimo
iure» del partito.
Il libro è diviso in tre parti. La
prima è una inchiesta sulla fine delle bande giovanili
e consiste di tre capitoli dedicati rispettivamente agli svaghi giovanili intorno
alle autopiste, alla noia dei giorni grigi che s'infilano uno dopo l'altro in
monotonia durante la settimana, ed il terzo alla delineazione caratteriale d'un
giovane «barjot» di nome Freddy.
Quest'ultimo capitolo, se pur vivo nella rappresentazione psicologica, è il meno
convincente perchè difetta di conclusioni sociologiche o comunque
di natura teoretica e non si comprende quindi perchè venga inserito, se non per
finalità drammatiche. In questo capitolo si resta sul puro terreno del
reportage, terreno che - tuttavia - era stato
criticato dall'A.
Nella seconda parte, tutto un
capitolo è dedicato alla psicologia della percezione, fenomeno importantissimo
presso le bande giovanili perché c'è tutta una serie
di immagini maschili della fonazione (come ha messo in risalto Saussure) e trasgredire questo codice o semplicemente non
essere capaci di pronunziarlo è segno di mancanza di virilità e, comunque, fa
perdere il titola a far parte d'una banda. Le bande giovanili,
tuttavia, ora sono soltanto riunioni estemporanee a scopo ludico, specie nelle
feste di tipo paesano che si svolgono nei quartieri di periferia.
La terza parte del
libro è dedicata alla vita in banda e si articola in cinque capitoli: formazione
delle bande; gradi di relazioni; bande in azione; ruoli, situazioni e riti; le
bande ed il tempo che passa.
In conclusione il libro insiste
sulle principali cause del disadattamento giovanile con la società
consumistica. La famiglia è causa di disadattamento giovanile sia perchè i
genitori non hanno tempo per occuparsi dei figli, sia perché
i genitori non avendo gli stessi gusti dei figli non li possono approvare, sia
per carenza di conoscenza dei problemi connessi con l'educazione della prole.
La scuola è causa di disadattamento sia perchè sovraffollata, sia perchè ha
programmi antiquati e retrogradi.
La moda, infine, è causa di
disadattamento perchè, attraverso la pubblicità, ipertrofizza
la gioventù legando un'età effimera ad un'epoca irreversibile nel suo processo
diveniente. In definitiva, sembra concludere l'A.,
non è tanto la povertà economica che è causa del malessere giovanile odierno,
quanto piuttosto la povertà culturale.
Roberto JOUVENAL
E. LOPERFIDO, «L'infanzia,
nodo politico attuale della società in trasformazione»
«Psicoterapia e scienze umane», n. 10, 1969, pp. 1-9.
L'Autore, già nel titolo, offre una
marcata sottolineatura di un tema sino a pochi anni fa sconosciuto, in
particolare modo al settore politico: il tema
dell'infanzia.
L'analisi attuata nei paragrafi
iniziali, illustrante la attuale situazione di questo
«nodo politico» in campo familiare, scolastico, urbano, di servizi sociali, è
realmente affascinante per il suo rigore, aderenza ai fatti, obiettività. Loperfido non lascia nulla, neppure le «sfumature» delle
implicazioni in patologia familiare (p. 2), e più evidentemente ancora sottolinea
i processi di emarginazione attuati dalla scuola (pp.
2-3), quelli di distorsione sino a punte disumane attuati dalle strutture
urbane (pp. 3-4).
Due conclusioni sono riportate:
«1) il modo di essere della società di oggi a livello di tutte le sue strutture e delle sue
istituzioni contraddice le istanze ed i bisogni del bambino ai suoi vari
livelli di sviluppo. compromette più o meno seriamente
il vissuto dell'universo infantile provocando così distorsioni o a livello
psicologico o a livello della estrinsecazione umana e civile della persona;
«2) l'attentato al mondo del bambino
è dovuto sia alla fissazione anacronistica della
famiglia e della scuola a modelli culturali ed educativi fortemente inadeguati
alla complessa evoluzione cui è andata incontro la vita sociale, sia alla
carenza profonda di servizi sociali che avrebbero potuto inserirsi con un
proprio ruolo accanto alla famiglia e alla scuola nel processo educativo del
soggetto in età evolutiva: questo non è certamente casuale ma frutto di una
precisa scelta di fondo».
Ora, proprio se si assume come
valida quest'ultima affermazione, (così come la assume
l'Autore) ci si deve domandare: quale altra scelta di fondo porta alla
rivalutazione della cosiddetta nuova generazione?
Si dovrebbe partire, io credo, dalla
individuazione delle esigenze: a questo proposito in tutta la sua analisi il Loperfido pone l'accento
su ciò che egli chiama «equivoco», cioè l'attribuzione alla donna di compiti
primari, all'allevamento del bambino, mentre (egli sostiene) tali compiti
possono essere ottimamente assunti dallo Stato (asili nido da
Egli vede nella odierna
carenza di questi settori il gioco economico di chi vuole tenere la donna in
totale soggezione.
A questo punto viene spontanea una
domanda: si sta parlando di tutelare le esigenze
della infanzia o quelle della donna lavoratrice?
Tenendo presente la concezione
dell'A. si potrebbe rispondere che le due cose non si escludono. In realtà
esistono delle linee di sviluppo del bambino che vanno rispettate, a questo
proposito deve essere chiaro che adulto, se oltre a procreatore intende
divenire padre (entrare cioè in un rapporto
significativo col figlio), deve attuare proprie scelte.
Non si può essere d'accordo con l'A.
che dichiara esservi un altro «equivoco» ancora: l'identificazione tra
educazione e rapporto affettivo, sostenere cioè, come
l'A., che le due cose possano esistere indipendentemente, nel senso di essere
apporto di due o più persone diverse.
Ciò significherebbe in
termini semplificati, che il bambino vuole bene al padre e alla madre perchè è
nato da loro, ha lo stesso sangue.
Sembra invece importante sottolineare che nei primi anni di vita l'identificazione
dei due momenti, quello affettivo e quello educativo-psicologico
è pressochè totale, Del resto ci si domanda come può
strutturarsi questo fantomatico rapporto affettivo al di fuori di una obiettiva
possibilità di scambi di comunicazioni, di una reciproca esperienza comune
(che per il bambino significa essere accudito, nutrito, subire gratificazioni
e frustrazioni, sentirsi accettato e rifiutato, per l'adulto significa essere
soggetto attivo in tutto ciò, e recettivo delle risposte del bambino stesso)?
Ma proprio perchè l'A. chiama questa
concezione un «equivoco», egli vede la possibilità di mutare la attuale situazione garantendo per il bambino un precisissimo
intervento dello Stato, che offrendo soluzioni ad hoc, garantisca «di costruire persone capaci di assumersi responsabilità
nel trasformare la società» (p. 1).
Ora, questo è il secondo punto che
appare altamente problematico.
Ci si domanda cioè
su quali basi di realtà si possa prevedere questa totale assenza di condizionamenti
dell'individuo che, sin dalla nascita, vive esperienze così capillarmente non-individualizzanti,
tanto apertamente massificatrici. Ci si permetta una
considerazione: ciò che nel titolo viene definito «nodo
politico attuale della società in trasformazione», l'infanzia, sembra sia
stato ancora una volta assunto come strumento di una ideologia che ha grave
urgenza di trovare una sua realizzazione politica.
Patrizia Pagliari Taccani
Marco W. BATTACCHI, Delinquenza minorile - Psicologia e
istituzioni totali, ed Martello, L. 1500.
L'opera, che riunisce quattro saggi
appartenenti a periodi diversi, testimonia il ripensamento
critico di un'esperienza personale non fissata in un momento definito, ma colta
nel suo evolversi nel tempo, in funzione della maturazione e della
consapevolezza che lo psicologo acquista del suo ruolo e di quello sempre più
totale dell'istituzione di cui si scopre egli stesso vittima e strumento.
Nella prima parte del volume l'autore
si occupa delle forme di trattamento individuale per
minori dissociali in istituto e cerca di distinguere tra il trattamento
psicologico e l'opera rieducativa, tra la funzione
dello psicologo e quella dell'educatore. Nessun criterio appare rigorosamente
valido; anzi, si verificano delle convergenze: la
psicoterapia del giovane dissociale non può non essere rieducativa
in senso stretto, così come la vera rieducazione non può non essere
terapeutica. Una vita comunitaria fermamente regolata, in cui il minore sia
«accettato affettivamente» per quello che è, costituisce un ambiente
terapeutico in cui il trattamento individuale ha una funzione integrativa.
Per l'educatore e il terapeuta si
può, al più, parlare di una diversa finalizzazione di compiti: l'intervento del
primo deve essere di limitazione (azione a livello
del Super-io, dell'ideale dell'io e delle richieste della realtà esterna), il
secondo deve accettare il comportamento del giovane senza valutarlo moralmente,
pur facendo intendere che non è l'unico possibile e offrendosi come oggetto di
identificazione (azione a livello dell'io). Il Battacchi,
esaminando poi gli obiettivi e i limiti della rieducazione in istituto,
riscontra come essa, oltre a non consentire un progressivo
reinserimento nella vita libera, favorisce una evoluzione della personalità in
senso dissociale e una sempre maggiore deresponsabilizzazione,
il cui risultato è un intreccio di atteggiamenti vittimistici,
opportunistici, aggressivi. Si giunge così alla denuncia
delle strutture istituzionali repressive, come riformatori giudiziari, case di
rieducazione, istituti psichiatrici ad amministrazione penitenziaria.
Sotto la spinta
di un'esigenza antiautoritaria e antimonopolizzatrice, negli ultimi due saggi si
prende in considerazione l'ideologia alla base dei servizi di rieducazione e si
propongono nuove soluzioni, nuovi modelli.
In alternativa
al compito istituzionale dello psicologo (di osservazione e di trattamento di
minori, il cui comportamento è considerato in assoluto e non in relazione alla
particolare condizione di internati), si propone un rapporto fiduciario
basato sulla reciprocità non realizzabile in un istituto in cui il paziente sia
costretto ad entrare e dove il successo della terapia ne condizioni la
permanenza. Lo psicologo che gestisce, direttamente o no, il trattamento degli
irregolari della condotta e partecipa al potere decisionale non può dunque
realizzare un rapporto fiduciario. L'opera di rieducazione; per soddisfare a
tale rapporto, deve dipendere non dall'esecuzione penale, ma dalla scelta del
minore e questo può avvenire solo in una struttura a gestione comunitaria. Di
qui la proposta di un modello collettivistico di giovani, con adulti in
funzione di consulenti, in cui i minori dissociali trovino un'istituzione
rassicurante e comprensiva con ingresso forzato, ma
con permanenza facoltativa.
E' interessante tuttavia notare che,
anche in tale istituzione, la funzione diagnostica, quella di consulenza e
quella politica dello psicologo non permettono la realizzazione
di un rapporto fiduciario che non ammetta altro potere che la competenza
tecnica. In conclusione, la strumentalizzazione è necessaria e deve essere
sfruttata dal terapeuta perchè il paziente impari a farne a meno.
L'opera si risolve così attraverso
contraddizioni, soluzioni rivedute, corrette e anche rifiutate, non in una
denuncia negativa, ma in una apertura a nuove concrete
prospettive alla ricerca di un positivo e consapevole rapporto alla pari fra
psicologo e ragazzo.
Marisa VIETTI
JAN DE HARTOG, Di chi
sono i nostri figli, Edizioni Ferro, 1970.
Per ribattere l'opinione troppo
diffusa che l'adozione abbia quel qualcosa di eroico e
di sublime che si pretende riconoscerle per limitarla e all'occasione confutarla,
un olandese: Jan de Hartog,
scrittore, ex marinaio, diventato a cinquantatrè anni
padre di due orfane coreane di 5 e 3 anni, racconta la sue esperienza. Lo scopo è stato raggiunto perché l'Hartog
ci conduce con sagacia e buon senso in questo terreno ancor minato dal «tabù
del sangue». Lo stesso titolo CHILDREN che in Italia è stato
tradotto «Di chi sono i nostri figli» nella pretesa di renderlo più stimolante per il nostro pubblico, è invece coerente al
libro di Hartog per cui un bimbo vale l'altro purché
si crei tra genitori e bimbi un vero rapporto affettivo e materiale. Un tale
rapporto che, il figlio sia naturale o no, si perfeziona dopo, quando il
diuturno contatto stimola e cementa le reciproche tendenze affettive nascenti
dal bisogno di essere amato e protetto da parte del bambino e da quello di amare e di proteggere da parte del genitore.
Questo libro ci avvince con la
storia di un legame a cui si arriva quando si è capaci
di amare intensamente e costantemente al di là del processo biologico con un
intreccio di circostanze che hanno del miracoloso (la gravidanza preadottiva - un alto e basso di ansie e di angosce, di
nervi e di inespicabili felicità a cui vanno soggetti
anche i mariti - la nascita, la prima notte, il primo passo, le paure, il
gioco, la musica, la scuola, i viaggi). Ci sono pagine molto poetiche, come l'aspettativa all'aeroporto che produce una manifestazione
emotiva così intensa da essere paragonata ad un parto psicologico: «Scoppiereste
a piangere sulle spalle di vostro marito... alla fine quando
siete così intorpidita dall'emozione che l'intera cosa vi sembra remota ed
irreale, l'arrivo viene
annunciato e voi correte con gli altri per vedere l’aereo che esce dalle
nuvole... che finalmente arriva... d'ora in poi vi sentirete molto vicina ai
vostri colleghi genitori... ma nel momento stesso in cui avrete in braccio il
vostro bambino dimenticherete tutto e tutti e sarete sole al mondo con questo
patetico ramoscello di vita che trema tra le vostre braccia di un terrore
straziante... Noi uomini non sapremo mai quando stiamo attraversando la linea
di confine: per una donna la realtà comincia nel momento in cui sente il corpo
del bambino contro il suo». Dispiace che una cattiva traduzione impedisca al
lettore di gustare anche il valore letterario del libro; la lettura ne risulta infatti molto frammentaria ma anche così cogliamo l'ironia
dello scrittore e il brio dell'uomo che ha molto viaggiato. Nel «primo panico»
dove il primo incontro tra la bimba maggiore (dopo verrà
adottata anche la sorellina) e l'autore padre è così raccontato: «Ora lei stava
seduta calma e composta, appollaiata sul suo sgabello, seriamente impegnata a
lottare con il suo gelato, di tanto in tanto tentava anche di mettere a suo
agio con un sorriso ed un cenno quel vecchio insicuro accanto a lei, che appena
si erano seduti, si era messo a fare frenetici discorsetti
- come possono fare i bambini - e a disegnare
cagnolini».
Seguono poi pagine di gran buon
senso che dovrebbero essere lette con attenzione da ogni genitore. Cosa fare quando il bimbo diventa improvvisamente ostile e
cupo quando insomma «per sei mesi ho pensato a lui come un vero figlio ed ora
eccolo un perfetto estraneo, quasi un nemico?». «E' semplice, risponde Hargot, prenderlo sulle spalle, se è abbastanza piccolo e
portarlo sulle spalle per tutto il resto della giornata» e poi spiega meglio: «immergetevi
nelle piccole e confortanti attività quotidiane (sotto i suoi occhi) che per il
solo fatto di far parte di una routine prestabilita potranno dare al bimbo e a
voi un senso di sicurezza... le sue necessità sono
talmente essenziali, così elementare la natura della vostra relazione che i
vostri più sicuri alleati saranno proprio i piccoli e insignificanti rituali della
vita quotidiana... è dalla verifica dei limiti del vostro territorio che lui
ricaverà un primo timido senso di sicurezza».
Una sicurezza che
nasce quindi solo dall'affetto e che trasforma poveri bambini
disorientati, pieni di paura e disperatamente soli, in bimbi con una bramosia
smisurata di abbracciare e di stringere, finché non riescono a ricuperare nel
giro di pochi mesi le privazioni affettive della loro esistenza di prima.
E attraverso le comunicazioni delle
due bimbe con il nuovo ambiente, nelle loro scelte: le scarpe, i capelli,
l'abbigliamento, nel loro linguaggio, nelle loro reazioni ai genitori siamo portati attraverso i vari capitoli a constatare quello
che già ci ha detto Piaget in termini più teorici «Quanto all'amore del bimbo per i genitori, i vincoli di sangue
non sarebbero sufficienti a spiegarlo, se non ci fosse quest'ultima comunanza
di valorizzazioni che fa sì che quasi tutti i valori dei bambini ineriscano all'immagine della madre e del padre».
E poiché esiste uno stretto parallelismo
tra lo sviluppo affettivo e quello delle funzioni intellettuali non ci stupisca vedere le due bimbe ormai quietate d'amore incominciare
l'esplorazione del nuovo mondo: Il gioco, Il sesso, La scuola, I parenti, Gli
animali domestici.
Ma ancora una cosa dobbiamo all'autore: avere trasformato la inquietante
fotografia dei bimbi asiatici (vietnamiti, coreani, pakistani) in cui la
denuncia si è esaurita nella pubblicità dell'informazione di massa, in due
bimbette a loro agio nella famiglia adottiva, ricche di vezzi esotici e non
più capricciose delle altre, sì che alla domanda: «Perchè non un bambino della
vostra terra?» la risposta di Hartog genitore è: «Perché la relazione tra voi e il vostro futuro figlio come la
relazione tra qualunque genitore e suo figlio ha radici nella sfera del
sentimento, è un fatto emotivo» lo porterà poi a dire «Come accade con tutti i
figli forse comincerete a scorgere anche nel vostro
bambino asiatico alcuni tratti familiari. La cosa curiosa è che questi tratti familiari
sono proprio i vostri».
Due
articoli meritano di essere segnalati all'attenzione del lettore:
1) CELSO COPPOLA, Riforma dei servizi per «disadattati» e
riforma dei servizi sociali, in «Assistenza d'oggi»,
n. 3 - Giugno 1970.
Dopo aver rilevato che lo stato
della legislazione sui «disadattati» (fisici, psichici, sensoriali e sociali)
e la realtà dei servizi «costituiscono una veridica spia delle consapevolezze,
degli impegni e delle contraddizioni di un'intera società», l'Autore tratta
delle interrelazioni tra disadattamento e politica dei servizi sociali (rapporti
con i sistemi assistenziali, di sicurezza sociale, di
tutela giurisdizionale); illustra quindi criticamente e con ampia
documentazione le proposte di settore e la loro evoluzione rispetto alla
precedente legislatura, l'attività delle associazioni di utenti e di operatori
tecnici, e indica le prospettive di soluzione in materia.
La lettura dell'articolo è
consigliabile a tutti coloro che desiderano avere un
quadro documentato e completo sulla situazione attuale relativa ai
«disadattati».
2) GIANNI SELLERI, La società di fronte agli esclusi, in Relazioni sociali, (Via S. Michele del Carso 15, 20144 Milano) n. 9/10, 1970.
La mancanza di una politica
dell'assistenza rischia di aggravare la situazione di
un numero assai consistente di cittadini oggi esclusi dalla partecipazione alla
vita sociale, culturale, economica.
L'articolo, partendo dalle cause
dell'esclusione sociale, propone un quadro di riferimento entro il quale è possibile collocare soluzioni positive evitando il
settorialismo che finora ha improntato le scelte pubbliche nel campo della
esclusione.
Le direttrici assistenziali
per una strategia complessiva sui temi ed i contenuti dell'esclusione sono
indicati: 1) nell'azione politica; 2) nell'azione sociale ed educativa; 3)
nella ricerca scientifica; 4) nella promozione degli esclusi dall'interno della
loro realtà.
Indispensabile è la lettura di questo articolo da parte dei pubblici amministratori, degli
operatori sociali e degli esclusi affinché il problema venga reimpostato
secondo una nuova e valida prospettiva, che non può che essere politica,
superando la vecchia ma comoda, non per gli esclusi ovviamente, impostazione
benefica ed umanitaristica.
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