Prospettive
assistenziali, n. 11-12, luglio-dicembre 1970
ATTUALITÀ
RIVOLUZIONE
SENZA FANATISMI
Ho partecipato ad un incontro di ex-allievi, prevalentemente giovani, di una istituzione
educativa cattolica. Il motivo centrale, proposto alla
riflessione comune ed al dibattito, era la «non violenza».
Ho avuto l'impressione che il
relatore non dicesse delle «cose» stupide e si
esprimesse con tono carico di convinzione: tono di convinzione che, per me,
risultava maggiormente percepibile in quanto conosco da anni la sua profonda
sensibilità e la sua capacità di «aggancio».
Così pure l'intervento seguente di un animatore eccezionale di un gruppo di studenti universitari
e di impiegati che lavorano tra i baraccati della periferia di Roma, ebbe (pur
nella discrezione della persona intelligente che non altera mai, con toni
trionfalistici, la propria esperienza) un sapore di autentica rivoluzione.
Il pubblico non ha reagito né pro né
contro. E' stato in silenzio! Un pubblico di giovani! Un silenzio squallido, infiorato di sorrisi di superiorità di certi
fautori della violenza (almeno avessero reagito con violenza seduta stante!)
nei confronti di chi sottolineava il valore funzionale della non violenza. Un
silenzio ancor più squallido d'i chi aveva ascoltato
con evidente disinteresse a fastidio una proposta di impegno valida a
stuzzicare il più radicale egoismo (ma l'egoismo è già esperienza umana; quei
giovani sono almeno capaci di egoismo?). Né è valso a rompere lo squallido silenzio l'intervento di
un «adulto», finalizzato a rilevare quanto sia facile, specie ad una certa età,
essere sedotti dalla «mistica» della violenza, per venire poi, nell'arco di
alcuni anni (pochi in verità, cinque o sei), totalmente integrati nel sistema.
Le parole erano chiare, sentite, stimolanti. Questi
giovani, lastricati di educazione confessionale, non
hanno reagito. Eppure alcuni di essi li so impegnati
al servizio dei diseredati, in forme veramente valide. Ma allora, perché non
sono scattati, perché non hanno colto l'occasione per modificare l'atmosfera,
per capovolgere quel contesto di omertà?
Sono queste le perplessità che mi
hanno disturbato per più giorni e che, ora, mi offrono il motivo per ampliare
il discorso e approfondirlo in quello della possibilità o meno di una azione di animazione a largo raggio del H mondo » dei
giovani per i grandi problemi dell'uomo.
Ho l'impressione (e mi si corregga
se sbaglio) che il giovane comune riesca ad essere
sensibilizzato, «caricato emotivamente», mobilitato:
1) a livello di fatti «singoli»,
puntuali, ben definiti nel tempo, di grandi dimensioni (una alluvione,
una grande manifestazione pacifista, una «adunata» oceanica) od anche di minori
dimensioni, ma configurata con estrema precisione (una presa di posizione per
un «torto» subito, una concreta forma di autoritarismo...);
2) a livello di azione
diretta o indiretta, finalizzata alla erogazione di un aiuto immediata,
tangibile (raccolta di denaro per una situazione , raccolta di vestiti,
raccolta di carta, lavoretti di tipo artigianale per realizzare un reddito
utile per un intervento immediato, prestazioni collettive in momenti di diffusa
richiesta di mano d'opera generica, ...).
Un minor numero di giovani si
sentirebbe oggi di impegnarsi:
1) in «analisi» accurate di
situazioni, in elaborazioni di progetti organici di intervento;
2) in azioni organiche di servizi
gratuiti e continuativi di alfabetizzazione,
di dopo-scuola articolati, di scuole serali;
3) in esperienze comunitarie di
gruppo, con carattere di interprofessionalità: servizi
culturali di quartiere, azione politica (non partitica) di formazione di
opinione pubblica, ecc.
Azione spontanea, spesso turistica o
dopolavoristica, sì; azione di intervento organico,
di meno; azione riflessa di analisi, meno ancora.
I problemi che ne scaturiscono,
possono allora essere così formulati:
1) come rompere l'omertà
dell'indifferenza e del disimpegno?
2) come integrare lo spontaneismo
operativo (sempre valido come momento educativo) in
un atteggiamento politico di analisi riflessa e di intervento organico?
L'indifferenza è la risultante di
più variabili soggettive, che spesso, per essere risolte in una
equazione personale positiva, esigerebbero una terapia di ordine
clinico, sia a livello individuale che a livello di gruppo.
Non è a dire
che la «testimonianza» di alcuni educatori, il prospettare «grandi ideali»,
uno stile educativo di libertà e il sapere «pagare di persona», riescano ad
incidere con notevole frequenza: questi sforzi, per lo più, sono recepiti da
alcune élites. Ordinariamente bisogna fare i conti
con i risultati di una azione, continuata per anni, di
autentico «lavaggio del cervello» di certi ambienti familiari gretti ed
utilitaristici, di certe formule educative ispirate alle «buone maniere»,
all'«ordine», alla «prudenza», al «non esporsi», alle «mani pulite» rispetto
ad ogni impegno politico, al «profitto» negli studi oggi e negli affari domani,
all'essere dei «furbi» e dei «dritti»...
L'«Uomo da marciapiede» di John Schlesinger
è un «istintivo», abbandonato a se stesso, ma è anche un buono. L'uomo «medio»
per lo più è un mediocre: poco intelligente, poco sensibile, poco altruista,
scarsamente disinteressato. E' un insicuro, che procede con i vari «puntelli»
delle «raccomandazioni», del «perbenismo», dell'«osservanza», dell'«obbedienza
cieca»...
Lo spontaneismo, emotivo o meno,
motivato religiosamente o meno, offre delle chances di maggiore, più immediata soddisfazione personale.
l'affrontare invece i problemi (scuola, cultura, casa,
assistenza, ospedali, trasporti, ecc.) in termini razionali, con criteri e previsionali; l'impegnarsi in una azione culturale e
politica di animazione, condotta giorno dopo giorno, non offre tante occasioni
e motivi di soddisfazione; esige rischio, non concede spazio ai divismi e a
tante bambole asessuate, cioè
sembrano ritagliate tutte nella stessa
stoffa, dello stesso colore, con lo stesso stampo. Per fare la rivoluzione non
bastano baffi e barbe, stivali e giubbotti, cinturoni e collari, minigonne e
maxicappotti... A lungo andare tutto questo imbroglia
e può anche risultare solo un palliativo di insicurezza radicale... Per fare la
rivoluzione occorrono idee chiare, energia psicologica, capacità di lavoro,
distacco dagli ideologismi e dai fanatismi, resistenza al «quotidiano»,
massimo disinteresse, una pazienza infinita, un'attitudine all'osservazione e
all'ascolto, un cuore che non conosca grettezze e noia, un grande senso di
umorismo.
In caso contrario, si grida, si
rompe, si percuote, si sparacchia,
si fa rumore: un rumore alto, che copre l'urlo dei problemi, la disperazione
delle persone, la ribellione delle masse. In ultima analisi, il problema si ripropone in termini educativi, in termini culturali le energie,
latenti e manifeste, vanno educate, orientate, stimolate, sostenute. La
società, oggi, per valorizzare tali energie, deve prepararsi su larga scala
nuovi professionisti, gli animatori dell'impegno, in grado di creare uno
stile, un clima culturale di esigenze e di
sensibilità, capaci di condurre il discorso di animazione con alta tensione
spirituale e precisi criteri professionali, che consentano il confronto di
esperienze e sicure previsioni di risultati, pur operando sul terreno friabile
della più grande variabile storica, la libertà del singolo.
E' giunto forse il momento di
proporre, a livello universitario, corsi organici per operatori soci-gli, con
un biennio propedeutico comune, a carattere tecnico-culturale di fondo, e con un biennio professionale differenziato, per
la preparazione specifica di assistenti sociali, di educatori specializzati,
di animatori culturali (animatori di quartiere, animatori del tempo libero,
animatori del turismo), animatori di servizi assistenziali, animatori del
servizio civile, ecc.
Una esperienza culturale così
programmata consentirebbe ai futuri operatori sociali di maturare assieme, già
negli anni di formazione, una linea politica di interventi, altamente critica,
organica e funzionale.
Aldo Ellena
www.fondazionepromozionesociale.it