Prospettive
assistenziali, n. 13, gennaio-marzo 1971
STUDI
L'INSEGNAMENTO AGLI
INSUFFICIENTI MENTALI ALCUNE CONSIDERAZIONI D'ORDINE PSICOLOGICO
GIANVITTORIO CAPRARA
R.C. Rogers
(1) nel suo lavoro: «Freedom to
learn; a view of what education might become» suggerisce che una
riforma dell'insegnamento deve provvedere:
- un ambiente didattico dove
l'esperienza dell'allievo sia positiva, stimolante,
arricchente;
- un nuovo ruolo dell'insegnante
come guida e aiuto nell'apprendimento piuttosto che come autorità;
- un nuovo apprendimento capace di assicurare lo sviluppo della personalità dell'allievo attraverso
più mature relazioni con gli altri;
- un'esperienza di vita piuttosto
che una preparazione alla vita;
allo scopo di promuovere nell'allievo
una spontanea disponibilità al cambiamento in senso attivo, sul presupposto
che «è nel momento in cui io mi accetto quale sono, che divento capace di
cambiare, e la conseguenza di tale accettazione di se stessi è che le relazioni
con gli altri divengono reali».
Nel momento in cui la famiglia
nucleare viene stressata da una pluralità di oneri che
in larga parte, nel passato, venivano partecipati ed assorbiti dal gruppo più
vasto della famiglia allargata, per far fronte
adeguatamente alle responsabilità dell'educazione della prole, maggiore deve
essere il concorso della società, nella misura in cui minori sono le risorse
interne della famiglia.
La scuola, in particolare, diventa
il luogo dove il bambino trascorre larga parte del proprio tempo, si confronta nelle prime relazioni sociali, traduce i
propri conflitti, trova i modelli di riferimento e di identificazione che
rafforzano e modificano quelli propri familiari.
L'aspetto educativo, in tale contesto, viene decisamente sottolineato rispetto a quello
meramente istruttivo.
Se l'istruzione si può ridurre ad una
statica e quantitativa acquisizione di «sapere», l'educazione ha lo scopo di
favorire lo sviluppo della persona attraverso processi di cambiamento verso sistemi di equilibrio intrapsichico ed interpersonale
più maturi.
L'atto pedagogico può dirsi concluso soltanto quando gli allievi hanno fatto proprio il
sapere trasmesso dall'insegnante, l'hanno integrato nel loro universo mentale,
sono divenuti capaci di reinvestirlo produttivamente in attività diverse ed
originali.
Il processo insegnare-apprendere non
si esaurisce al livello della comunicazione verbale, ma implica un tipo di
comunicazione più profonda, mediata da differenti processi affettivi e motivazionali.
L'educazione, quale esperienza di un
cambiamento e partecipazione di un arricchimento, implica
per il soggetto nuove possibilità di equilibrio e di confronto con la realtà
ed è resa possibile soltanto ove la trasmissione del sapere oggettivo viene
rafforzata dalla risposta attiva, in altri termini dalla adesione
motivazionale, dell'allievo.
Nel processo insegnare-apprendere vengono intieramente coinvolte la personalità dell'insegnante
e la personalità dell'allievo.
Le motivazioni, le aspettative, la percezione e la stima che ognuno ha di se
stesso si confrontano in un rapporto che inevitabilmente comporta scambi
affettivi suscettibili di essere o divenire, per entrambi i soggetti, fonti di
gratificazione o frustrazione.
Come osserva J.C.
Filloux (2), l'avventura educativa
è innanzi tutto un'avventura di relazione.
In tale prospettiva diviene sempre
più difficile distinguere gli aspetti psicologici da quelli propriamente
pedagogici.
E d'altro canto è difficile
distinguere ove la psicologia dell'educazione non diventi piuttosto psicologia
clinica o psicologia sociale. Sostanzialmente l'atto pedagogico si traduce in
un rapporto, o piuttosto in una pluralità di rapporti in cui differenti
soggetti si trovano ad interagire.
Per «interazione» intendiamo da
parte dei soggetti un investimento libidico che si
traduce in termini di percezione, riconoscimento e valutazione dell'altro
quale oggetto stimolo al proprio equilibrio e al proprio cambiamento.
Pluralità di rapporti sullo sfondo
di differenti contesti istituzionali quali la comunità
di appartenenza, la scuola, la classe, la famiglia.
Questo lavoro trova le sue premesse
in un ciclo di lezioni svolte come docente di Psicologia Sociale alla «Scuola per la formazione del personale insegnante ed assistente
degli anormali» (Istituto G. Toniolo di Studi
Superiori - Università Cattolica del S. Cuore).
Con esso mi
sono proposto di sviluppare una serie di riflessioni pertinenti soprattutto
all'attività didattico-pedagogica nel particolare
contesto delle scuole speciali per insufficienti mentali.
Ritengo, infatti, che soprattutto in
tale particolare contesto, debba essere sottolineata
la funzione educativa e di sostegno dell'insegnante.
Come osservano
L.S. Blackman e P. Heinz (3), è sempre più difficile distinguere tra la
psicologia e la pedagogia dell'insufficiente mentale.
Con «insufficienza mentale»,
infatti, si viene a comprendere una casistica svariata in cui le differenze
quantitative e qualitative rispetto alla norma comportano differenti fattori
tanto a livello eziologico quanto a livello fenomenologico e
comportamentale.
Intervengono fattori d'ordine
organico o soltanto d'ordine funzionale, sul versante
della sfera intellettiva come sul versante della sfera affettiva, con effetti
diversi nei confronti dell'equilibrio intrapsichico e interpersonale del
soggetto.
Siamo consapevoli che molteplici
possono essere le cause dell'insufficienza mentale, ed effettivamente con essa ci riferiamo ad una pluralità di sindromi e risposte
comportamentali il cui denominatore comune è l'insufficiente capacità di
adattamento alla realtà.
Sicuramente il Q.I. non costituisce
uno strumento diagnostico e prognostico esclusivo ed esauriente; soprattutto
dove i disturbi del comportamento che inevitabilmente si sovrappongono alla insufficiente prestazione intellettuale, ove questa non
sia altro che un sintomo dei primi, rendono particolarmente complessa
l'attività dell'insegnante.
L'imprevisto, l'incertezza,
l'atipicità delle situazioni, specie dei rapporti, in
cui viene coinvolta la personalità dell'insegnante richiedono costantemente
una sensibilità psicologica particolare.
Su tali presupposti si giustifica
l'insegnamento della psicologia, a mio parere, non tanto come
mera acquisizione di contenuti teorici, quanto piuttosto come stimolo ad una
maggiore e migliore attenzione ai propri come agli altrui bisogni.
In tale prospettiva ho rivolto la
mia attenzione soprattutto alla persona dell'insegnante e dell'allievo
insufficiente mentale.
Ho riflettuto su quali possano essere le rispettive motivazioni e aspettative nei
confronti della situazione educativa, prestando particolare attenzione a come
tali motivazioni e aspettative possano tradursi in rapporti interpersonali reciprocamente
gratificanti o frustranti.
L'INSEGNANTE
Se l'insegnamento deve favorire lo
sviluppo dell'individuo e i processi di cambiamento, l'insegnante è il
mediatore di tale sviluppo e di tale cambiamento.
Indipendentemente dal fatto che egli
partecipi o meno il significato profondo della sua funzione,
l'istituzione fa di lui nella classe una persona centrale e riconosce in lui
il principale responsabile dell'insegnamento, soprattutto lo investe
dell'autorità.
L'insegnante viene ad esercitare
nella classe un'influenza che va oltre l'esercizio dell'autorità di cui è stato
investito; comunque, i suoi sentimenti, i suoi
atteggiamenti, il suo comportamento, vengono intensamente partecipati dagli
allievi e determinano la struttura e l'atmosfera della classe.
L'indagine psicodinamica
ha messo in rilievo come l'insegnante, nel vissuto del
bambino, si affianchi e in parte si sostituisca alle figure parentali divenendo
oggetto di identificazione, oggetto di investimento pulsionale
libidico e aggressivo, offrendosi come modello e
sostegno dell'io.
Tale vissuto e tale presenza può rendere un servizio all'io degli allievi aiutandoli a
neutralizzare e canalizzare le loro pulsioni in modo da prevenire i sentimenti
di colpa, in modo da evitare e risolvere i conflitti.
Può, d'altro canto, l'insegnante
servirsi degli allievi per dare sfogo alle proprie pulsioni latenti e ai propri conflitti irrisolti.
È stato sottolineato
quanto possano essere importanti i sentimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti
dell'insegnante nell'assicurare e consolidare presso gli allievi un sentimento
di autostima, in termini di fiducia e sicurezza.
È stato sperimentalmente verificato
che la percezione che l'insegnante ha degli allievi significativamente si
riflette nella stima e nelle percezioni che gli allievi maturano di se stessi,
influenzando considerevolmente i loro livelli di aspirazione
e le possibilità di successo sociale.
Se ci chiediamo chi sia il buon
insegnante, non tardiamo ad imbatterci in liste, più o meno
lunghe, più o meno attendibili, di caratteri e di attributi.
In uno studio condotto presso
l'Università dell'Iowa (4)
nel 1966 tra i fattori che possono influenzare il successo di un insegnante
vengono indicati:
- entusiasmo per l'insegnamento
- iniziativa
- creatività
- non suggestionabilità
- adattabilità, flessibilità,
equilibrio
- capacità e volontà di impostare
buone relazioni con gli allievi
- capacità di programmazione e
realizzazione nelle attività della classe
- varietà di mezzi didattici
- partecipazione attiva al processo di apprendimento da parte degli allievi
- sensibilità alle relazioni
scuola-comunità
- capacità e volontà di stabilire
ricettive e costruttive relazioni con i genitori
- originalità e creatività nel
trattare e collaborare con gli allievi
- assistenza personale e rapporti
spontanei.
In uno studio
analogo dello stesso anno, condotto presso
- elevato morale
- sensibilità interpersonale
- pazienza
- disponibilità personale
- tolleranza
- simpatia
- ottimismo
- capacità di empatia
- flessibilità
- moderata ansietà.
Viene sottolineato che il successo
dell'insegnante è in larga parte determinato dal suo «morale», cioè dalla
misura in cui le sue personali motivazioni trovano soddisfazione nell'insegnamento.
In uno studio condotto nel 1966
presso l'Università del Nebraska (4), l'elevato
morale dell'insegnante viene associato a:
- comprensione e stima
dell'insegnante da parte dei superiori
- stima dell'insegnante nei
confronti della competenza professionale dei superiori
- sostegno da parte dei superiori
all'insegnante in materia disciplinare
- partecipazione dell'insegnante
alla definizione dei programmi
- disponibilità di strumenti
didattici - adeguata formazione professionale - sicurezza professionale
- compensi professionali comparabili
con quelli delle altre professioni che richiedono una formazione simile, in
termini di contenuti, o di tempo e di oneri personali.
L'insegnante, esercitando un potere,
mentre risponde a dei bisogni altrui, allo stesso tempo traduce dei bisogni
propri.
Se da un lato viene
sottolineato che il successo dell'insegnante è in larga parte legato alle motivazioni
che lo sostengono e trovano soddisfazione nell'esercizio della professione,
d'altro canto diviene complesso identificare con chiarezza la natura e il
differente peso dei vari ordini di motivazioni che vengono ad interagire. Ci
riferiamo a bisogni d'ordine differente, ma tra loro interdipendenti e,
pertanto, suscettibili di generare ansie e conflitti ove, nella loro soddisfazione,
vengano a prodursi scompensi significativi.
Nel contesto
sociale allargato ponendo notevole enfasi sulla complessità della formazione
dell'insegnante, sull'importanza della sua funzione, sulla autorità e sulla
responsabilità di cui viene investito, inevitabilmente si promuovono in lui
delle aspettative che in larga parte e paradossalmente vengono frustrate dalla
presa di coscienza dello status assegnato dalla società.
Status, evidentemente secondo un
parametro socio-economico, quale determinato in seno ad una società come quella occidentale in cui viviamo.
Sicuramente non può essere
incoraggiante prendere coscienza che lo status che la società assegna
all'insegnante non è da lui vissuto al livello del ruolo che egli svolge e che
gli altri si attendono da lui.
Tale disarmonia può sensibilmente
incidere sul morale dell'insegnante e può tradursi nella situazione
pedagogica alterando la sua disponibilità e le sue motivazioni nei confronti
dell'insegnamento.
Nell'ambito scolastico, in
particolare, nei confronti dei.propri superiori, nei confronti degli allievi e
delle famiglie di questi, l'insegnante si trova a dover interpretare e
conciliare aspettative non sempre concordanti.
Da un lato i superiori pongono
enfasi sugli aspetti tecnici ed organizzativi dell'attività didattica;
dall'altro gli allievi sottolineano la necessità di
un buon rapporto umano che risponda ai loro bisogni personali.
Non raramente i superiori e gli
allievi hanno una differente concezione del buon insegnante e tale discordanza
di concezioni e di aspettative inevitabilmente viene
ad alterare i processi di comunicazione, produce conflitti di competenza, pone
spesso l'insegnante in uno stato di incertezza ed ambivalenza circa le proprie
motivazioni e le proprie funzioni.
Alcuni sostengono che quella
dell'insegnante debba essere una missione, personalmente credo che si debba esigere l'esatto significato di tale termine, per
smascherarne gli eventuali contenuti difensivi del tipo negazione,
razionalizzazione.
Più che una missione riconosco nell'insegnamento una professione, cioè una sfera
di competenza, e sottolineo l'importanza di una verifica di quelle che possano
esserne le reali motivazioni.
Anche se non possiamo appoggiarci
alla certezza di una metodica verifica sperimentale, l'indagine psicodinamica sottolinea la
possibilità che alcuni soggetti ricerchino nell'insegnamento un'esperienza riparativa a propri vissuti di inferiorità ed insicurezza,
suscettibili di tradursi nella situazione pedagogica in atteggiamenti dipendenti
o controdipendenti, eccessivamente permissivi o
autoritari.
Benché di fatto
l'esercizio del potere, quale viene assicurato dall'istituzione, possa affascinare
la personalità immatura, non sarebbe corretto, in alcun modo, generalizzare
tali osservazioni; piuttosto, a mio parere, anche queste possono costituire,
specie per l'insegnante, materia di riflessione e stimolo alla verifica delle
proprie motivazioni.
Se l'attività pedagogica è
soprattutto una avventura di relazione, l'efficacia
dei rapporti che l'insegnante è capace di instaurare con i propri superiori,
con i propri colleghi, con i propri allievi, con le famiglie di questi e con
quanti altri vengono ad interagire con lui, è imprescindibile dalla maturità
delle sue motivazioni e dalla stabilità del suo equilibrio personale.
La persona matura ha integrato le
proprie risorse energetico-pulsionali conciliando la
loro soddisfazione con le possibilità di scarica e le aspettative
della realtà.
Tale maturità si appoggia a vissuti
di fiducia, di sicurezza e di intimità, capace di
tradursi e di dar vita a rapporti interpersonali non difensivi, spontanei,
interdipendenti.
Maturità che è ancora più importante
sottolineare in seno alla scuola speciale, dove, oltre ad una comunicazione
didattica differente, si rende necessaria una comunicazione affettiva più
intensa, capace di superare soprattutto le resistenze e le difese che
inevitabilmente si associano al vissuto dell'anormalità, nell'allievo, nel
genitore, nell'insegnante stesso.
In tali condizioni, oggettivamente
più complesse e pertanto più ansiogene, maggiori debbono
essere sia la competenza professionale sia l'investimento affettivo personale
dell'insegnante.
È necessario innanzitutto
stabilire dei rapporti reali, sia nei confronti della classe nel suo insieme,
sia nei confronti di ogni singolo allievo.
Stabilire reali rapporti significa
andare oltre le proprie personali resistenze per
rendersi disponibile ad interpretare ed eventualmente colmare i reali bisogni
di ogni singolo individuo.
Il silenzio, la seduzione, I'aggressione sono modalità di
comunicazione che l'insegnante si deve abituare a comprendere.
Ove manchi una spontanea sensibilità
ai bisogni altrui, ove sia assente una reale volontà di accettazione
e comprensione, è troppo facile controllare l'ansia che deriva dal confronto
interpersonale, con atteggiamenti evasivi stereotipali o acriticamente impulsivi.
A volte si può venire
coinvolti in una relazione seduttiva o aggressiva, narcisisticamente gratificante o frustrante,
sostanzialmente alienante da una effettiva comunicazione; in tali circostanze
gli aspetti competitivi ed autorassicurativi pregiudicano
irrimediabilmente il sentimento di mutualità o reciprocità, cui dovrebbe
ispirarsi una comunicazione matura.
Relativamente agli «anormali» esiste una pluralità di
stereotipi, la cui connotazione, benché non sia sempre propriamente ostile,
comunque non è mai favorevole. È difficile dire quanto siano
rigidi e suscettibili di verifica tali stereotipi che, con assai poca
chiarezza, discriminano l'insufficiente mentale dal «matto» o dall'«individuo
pericoloso».
Soprattutto è difficile dire quanto possa essere influenzato anche l'insegnante da tale superficialità
popolare.
Benché l'atteggiamento pietistico sia
molto frequente, personalmente non credo che esso sia l'atteggiamento migliore,
nella misura in cui vi riconosco evidenti connotazioni difensive a pregiudizio
di un vero rapporto.
Il pietismo, a mio parere, implica
un distanziamento, un
sentirsi superiore, un sentirsi migliore, che raramente si associa al rispetto
dell'altro nella sua dignità di persona; persona come noi, indipendentemente
dalla capacità o meno di certe prestazioni.
L'insegnante può con la propria
stima e fiducia significativamente influenzare e promuovere nell'allievo una
nuova stima e fiducia in se stesso. Soprattutto nei confronti
dell'insufficiente mentale, tale ruolo dell'insegnante,
di sostegno e rassicurazione, trova particolare enfasi.
Mostrare nei suoi confronti certe aspettative, trattarlo in un certo modo, prestargli o non
prestargli fiducia e confidenza, soprattutto coll'insufficiente
mentale, significa influenzarne le aspettative ed il comportamento, attraverso
le frustrazioni e le gratificazioni che dal nostro atteggiamento egli può
ricevere.
Diverse ricerche (6) hanno
confermato l'ipotesi che molti dei comportamenti sociali inadeguati che si associano all'insufficienza mentale, quali la
passività, la dipendenza, la ribellione, spesso non siano altro che la
conseguenza di passate e presenti interazioni del soggetto con persone che da
lui si aspettavano, e in lui, benché indirettamente, incoraggiavano quegli stessi
comportamenti inadeguati.
Parlando di rispetto mi riferisco
soprattutto alla capacità di valorizzare quanto una persona è in grado di fare
o di dare, piuttosto che porre costantemente l'accento su quanto, invece, non è
capace di dare o di fare.
Rispetto che si traduce in
partecipazione comprensiva al mondo interiore, ai sentimenti, ai bisogni dell'altro; che si associa a sentimenti di
interdipendenza e di reciproca accettazione e stima, da cui soltanto possono
essere efficacemente incoraggiati una comunicazione spontanea ed un rapporto
reale.
L'ALLIEVO
Abbiamo già sottolineato
le difficoltà che emergono quando più chiaramente si vogliano definire i
concetti di insufficienza mentale o di anormalità.
Anche prescindendo dai numerosi
stereotipi, peraltro largamente diffusi, dobbiamo renderci conto che in materia
esiste tuttora una notevole perplessità anche tra i non profani.
Nel «Compendio di Psicologia» di J. Delay e P. Pichot (5) vengono indicati almeno quattro tipi di normalità:
statistica, soggettiva, funzionale, ideale.
Normalità relativa
alla presenza e alla frequenza di certi caratteri quantitativi e
qualitativi, ascrivibili ad una certa popolazione o distribuzione, secondo
parametri d'ordine fisico, psichico e sociale.
Definita la norma, diviene anormale
tutto ciò che, in qualche modo significativo, si viene
a differenziare o ad estraniare da quanto la norma stessa prescrive o
comprende.
La norma generalmente prevede un
intervallo o gamma di valori o di caratteri cui si uniforma la maggior parte
della popolazione o della distribuzione del fenomeno cui la norma stessa si
riferisce.
È anormale quanto viene a collocarsi
all'esterno, prima o dopo, sopra o sotto, rispetto all'intervallo o alla
gamma normale.
Per il fenomeno fisico, d'ordine
prevalentemente quantitativo, è relativamente facile isolare e confrontare i
differenti valori e pervenire così alla definizione dell'intervallo mediano.
Per il fenomeno psichico, d'ordine
prevalentemente qualitativo, è assai più complesso identificare, isolare,
valutare le differenti variabili, dalla cui interazione emerge il dato comportamentale
suscettibile di osservazione e rilevazione.
Se l'intelligenza si lasciasse
ridurre ad un rapporto quale viene espresso dal Q.I., evidentemente molte di tali argomentazioni apparirebbero
superflue.
In realtà, benché con relativa
facilità si parli di insufficienza, di ritardi, di
disturbi dell'intelligenza, non è sempre chiaro di che cosa si stia parlando,
a quali ordini di cause e di effetti si faccia riferimento, con gli stessi,
indubbiamente utili entro certi limiti, modelli concettuali.
Con questo lavoro non è mia
intenzione tentare né una riformulazione né una sintesi di tali concetti;
suggerisco piuttosto di guardare all'anormalità secondo una prospettiva fenomenologica, come ad un «essere», ad un «sentirsi», ad
un «essere e sentirsi» percepito dagli altri come
differente da loro.
Mi preme soffermarmi a considerare
quale sia o possa essere l'esperienza di tale
differenza, ove tale differenza sia una insufficienza.
In particolare suggerisco di
riflettere su come tale differenza-insufficienza sia o
possa essere denunciata nel rapporto interpersonale.
Sostanzialmente ci
imbattiamo in tre ordini di considerazioni tra loro interdipendenti:
- quale è
il vissuto dell'anormalità e come esso influenzi l'autostima e lo sviluppo psicosociale del soggetto;
- come l'anormale è percepito e
accettato dagli altri;
- come lo sviluppo psicosociale dell'anormale è influenzato dagli aspetti
della situazione sociale in cui è collocata e dal comportamento degli altri nei
propri confronti.
La stima di sé è il risultato delle
esperienze e dei sentimenti che si associano alla presa di
coscienza di sé come persona.
Tale presa di
coscienza si accompagna progressivamente a processi di differenziazione
ed identificazione, nei confronti della realtà e in particolare dell'ambiente e
delle persone dell'ambiente in cui ci si trova ad esistere.
La psicologia genetica sottolinea l'evoluzione di un processo dinamico in cui
vengono ad interagire almeno quattro fattori:
- l'identità biologica
dell'individuo;
- le relazioni con i genitori;
- l'accumulazione di una propria
esperienza;
- la percezione del proprio
successo.
Un ulteriore
fattore, risultato dei primi, viene sottolineato da R. White
(6): il «sentimento di competenza», cioè la capacità ed il vissuto di tale
capacità nel trattare efficacemente con il proprio ambiente.
L'immagine di sé, o autostima,
dunque, viene ad associarsi al sentimento del proprio valore, quale discende
dalla natura degli scambi, gratificanti o frustranti, che avremo sperimentato
a confronto con la realtà.
Soprattutto il successo e le
esperienze gratificanti promuovono i processi di differenziazione ed
integrazione cui si accompagna la crescita dell'ego.
Al contrario le frustrazioni, specie
se non compensate da adeguate soddisfazioni, producono soprattutto disorganizzazioni ed inibizioni che irrimediabilmente
pregiudicano lo sviluppo della personalità.
L'anormale è tale o diviene tale
perché non è in grado di interagire efficacemente con la realtà. Il suo modo di
reagire alle sollecitazioni della realtà è differente da come
il maggior numero di persone reagisce. È inferiore a quanto gli altri si
aspettano normalmente. È inadeguato.
Il confronto con la realtà e soprattutto
il confronto con gli altri diviene l'esperienza di una estraneità
ed occasione di frustrazione.
Lo scacco rischia di diventare nella
sua vita una costante, in cui viene frustrato ogni
sentimento di competenza, e con esso il sentimento del proprio valore e della
propria stima.
Tutto ciò: il fatto di essere
costantemente sollecitato da stimoli e tensioni cui non si è in grado di
rispondere adeguatamente e nei confronti dei quali
non è possibile maturare le stesse aspettative di successo che gli altri maturano,
il fatto di sentirsi differente dagli altri, può effettivamente rappresentare
una continua occasione di frustrazione. Per tali motivi
alcuni hanno riconosciuto nella condizione esistenziale degli anormali
la condizione dei «cronicamente frustrati».
A tale vissuto della propria
inferiorità inevitabilmente vengono ad associarsi, infine, sentimenti di ansietà, di insicurezza, di solitudine, di abbandono, che
frequentemente si traducono in tratti di comportamento a connotazione rigidamente
difensiva o reattiva, con i quali diviene estremamente difficile trattare.
S.L. Garfield
(7) suggerisce i seguenti interrogativi: «Quali sono le cause significative capaci di orientare negativamente il
comportamento sociale dell'anormale?... Tale comportamento socialmente
inadeguato è forse il risultato di precoci esperienze affettive frustranti
quali il rifiuto o l'ostilità parentale?... In quale
misura l'insufficienza mentale può ostacolare l'accettazione delle normali
frustrazioni e dei normali adattamenti che la vita di ogni giorno comporta?...
È forse l'esperienza del fallimento più frequente nella vita dell'anormale?...
In quale misura questa più ricorrente esperienza può essere causa del
comportamento socialmente inadeguato?... Quanto è importante la consapevolezza
della propria anormalità nella produzione di ansietà e di sentimenti di
insicurezza?».
Principalmente ci imbattiamo
in due ordini di considerazioni inerenti alle esperienze dell'anormale,
rispettivamente in seno alla propria famiglia e in seno ai differenti contesti
sociali, in particolare la scuola e i gruppi spontanei, in cui si viene a
trovare.
Quali sono state le premesse e le
condizioni di crescita della personalità in seno alla famiglia? Quali sono
state le prime esperienze con la realtà?
La natura di quelle prime esperienze
affettive è stata prevalentemente gratificante, associata a sentimenti d'amore
e di cura, o piuttosto prevalentemente frustrante per l'ambivalenza, l'ansietà,
l'ostilità latente o manifesta dei genitori?
N. Ackerman
(8) indica nella famiglia l'unità base dell'evoluzione e dell'esperienza, del
successo e dello scacco, della malattia e della salute.
La famiglia viene
riconosciuta come l'unità funzionale il cui compito fondamentale è quello di
socializzare l'individuo fanciullo, promuovendo lo sviluppo della sua
identità.
La famiglia sostanzialmente è un
sistema dinamico-transazionale in cui i valori
scambiati dovrebbero soprattutto essere amore e solidarietà.
Come già abbiamo
accennato, soprattutto la psicologia genetica ha messo in luce l'importanza
delle prime relazioni ed esperienze affettive, specie con la madre, quali
condizioni imprescindibili per la maturazione di tutta la personalità.
La psicologia e la psicoterapia
della famiglia hanno messo in luce quali possono essere le transazioni bene-adattive, e quali quelle male-adattive
per la famiglia e per ciascuno dei suoi membri; sul presupposto che la
stabilità dell'individuo dipende in larga parte dalla stabilità della famiglia,
e la stabilità di questa dalla natura degli scambi, o transazioni, che hanno luogo tra i diversi membri.
In particolare nei meccanismi di
proiezione ed identificazione, nelle modalità espressive degli affetti, nella
flessibilità o rigidità dei ruoli, sopratutto nella dinamica
dell'aggressività e dell'affettività è stata sottolineata la presenza di
modalità di comunicazione non verbale, suscettibili di alterare
significativamente la stabilità del sistema e l'equilibrio personale dei suoi
membri.
S. Fisher
e D. Mendell (9) suggeriscono che si possano trasmettere, in seno alla famiglia, modelli di
comportamento nevrotico: « membri della stessa famiglia sono spesso afflitti
dai medesimi conflitti... i desideri e le fantasie dei genitori
significativamente possono influenzare il bambino... tale processo di
trasmissione soprattutto avviene per quei contenuti che non affiorano alla
coscienza poiché vengono rimossi... ». Riprendendo l'intuizione freudiana
secondo cui nella formazione del Super Ego il fanciullo
soprattutto si identifica al Super Ego del genitore, piuttosto che ai
contenuti normativi consciamente partecipati e verbalmente comunicati da
quello, M. Giffin, A. Johnson,
E. Litin (10) e Szurek
sottolineano la trasmissione, in seno alla famiglia dei difetti del Super Ego:
«il comportamento asociale del fanciullo può essere inconsciamente
facilitato, incoraggiato, consolidato dall'atteggiamento dei genitori che
trovano una soddisfazione «vicaria» alle proprie pulsioni represse, attraverso
il comportamento del bambino...».
Altri autori riconoscono nella
disfunzionalità della famiglia la causa principale a tutta una serie di
disturbi e di arresti nello sviluppo della
personalità.
Parliamo di disfunzionalità per
indicare sentimenti latenti o manifesti di ostilità,
per indicare il fallimento della solidarietà, per indicare la rottura della
comunicazione affettiva.
In tali circostanze la famiglia
diventa un sistema dall'equilibrio estremamente
precario, che può ancora rispondere a certi bisogni strumentali, benché
divenga sempre più difficile rispondere a quelli affettivi. In tali condizioni
non si può più parlare di mutualità, ma piuttosto, come suggeriscono L. Wynne e Coli. (11), di «pseudomutualità», con
cui si salvano le «apparenze» lasciando che i conflitti abbiano il proprio
corso a livello inconscio.
Tale «pseudomutualità»
può anche trovare una valvola di sicurezza in un «capro espiatorio»,
all'esterno o più frequentemente all'interno del sistema. Quando il ruolo di
capro espiatorio è all'interno del sistema, alcune volte viene
occupato alternativamente da diversi membri, con funzione stabilizzatrice;
altre volte, invece, viene occupato sempre dallo stesso membro, designato dalla
famiglia in quanto emotivamente ed oggettivamente più vulnerabile.
Secondo L.
Wynne «la persona ostracizzata, il "capro
espiatorio designato" svolge inconsciamente un ruolo importante nel
mantenere la pseudomutualità o la superficiale
complementarietà del resto della famiglia».
Nella selezione del capro
espiatorio, come osservano E. Vogel e N. Bell (12), vengono generalmente privilegiati i membri in
qualche modo più vulnerabili, spesso più o meno
direttamente, più o meno consciamente, associati ai motivi di tensione e di
conflitto che turbano l'equilibrio familiare.
Il fanciullo
emotivamente disturbato, l'adottato, il ritardato, l'anormale, si
predispongono frequentemente a questa ingrata funzione stabilizzatrice del
sistema.
Il «deviante» viene così a svolgere
una funzione importante per la famiglia, offrendo la possibilità di canalizzare
e fissare su unico bersaglio le cariche aggressive, assicurando nello stesso
tempo la stabilità e la solidarietà del gruppo.
Funzione evidentemente ingrata, come
osservano Bell e Vogel,
poiché: «se da un lato la proiezione delle tensioni familiari nel bambino serve
a minimizzare e controllare le medesime, d'altro canto la famiglia impone e
sostiene un ruolo del fanciullo che è incompatibile
con un suo completo sviluppo psicosociale...».
L'accettazione e la presenza del fanciullo anormale, come viene confermato da diverse ricerche,
è per la famiglia motivo di costante tensione.
S. Olshansky
(13) attribuisce all'insufficienza mentale del fanciullo
i caratteri di una tragedia familiare cui i genitori reagiscono con atteggiamenti
e sentimenti «cronicamente sofferenti».
Wolfensberger (13) riconosce nell'anormalità del fanciullo la causa di tutta una serie di effetti negativi
per tutta la famiglia; «il legame affettivo tra i genitori ne viene stressato,
le consuete attività sociali pregiudicate, i fratelli si sentono socialmente
imbarazzati».
Oggettivamente e criticamente non vi
è dubbio che l'insufficiente mentale possa essere motivo
di depressione, fonte di frustrazione nei confronti delle proprie aspettative,
di ansietà e di preoccupazioni per il presente come per il futuro.
Non vi è dubbio che tale anormalità
ed insufficienza venga, comunque, ad alterare il
normale equilibrio familiare.
Se da un lato taluni autori come K. Holt e S. Mahoney (13)
suggeriscono che l'anormale può offrire un contributo positivo
alla coesione e alla solidarietà familiare, Bell e Vogel, come già abbiamo accennato, pongono l'accento sulla
possibile ambiguità di quel contributo e di quella solidarietà.
A conclusione di numerose
considerazioni critiche, appoggiate ai risultati di differenti ricerche
sperimentali, Warner Wilson (13) in « Social Psychology and mental retardation » - 1970, riassume nei seguenti tre punti le
opinioni degli esperti relativamente al vissuto, da
parte dei genitori, dell'anormalità del proprio bambino:
«1) Un bambino
anormale è un evento traumatico (W. Abraham 1958);
che sicuramente provoca sconforto, angustia, frustrazione, aggressività (W. Wolfensberger 1967); che
precipita una crisi (R. Farber e Ryckman
1965); cui si rende necessario assicurare un sostegno affettivo e materiale per
tutta la vita (M. Appel 1963; M. Begab
1963); che causa uno «sconforto cronico» (S. Olshamsky
1962).
2) I genitori debbono
accettare, amare, curare il proprio bambino ed è possibile che tale
investimento affettivo sia contraccambiato da molte esperienze gratificanti (G.
Milligan 1965).
3) I genitori debbono
opporsi ad ogni tentativo di istituzionalizzazione del bambino; restare a casa
può giovare al benessere del bambino, della società e persino della famiglia;
l'istituzionalizzazione può, al contrario, aggravare l'angoscia dei genitori
(Wolfensberger)».
È evidente che tali indicazioni sono
suscettibili di assumere una validità ed un significato differente a seconda dei differenti contesti in cui il fenomeno si
presenta.
Ogni situazione, di fatto, presenta
aspetti differenti e richiede interventi particolari. Prestando attenzione
alla famiglia è necessario operare diverse valutazioni relativamente
allo status e alle dinamiche del gruppo: quali sono le condizioni
economiche e sociali di vita? quali i modelli di
riferimento e i livelli di aspirazione? quali i ruoli
e di che natura gli scambi in seno alla famiglia?
Certi interventi corretti nelle
premesse teoriche e di principio falliscono all'attuazione pratica; alcuni
interventi si possono esperire con successo ove esistano certe condizioni,
mentre sono del tutto impossibili ove tali condizioni
non esistano o vengano a mancare.
Il trattamento dell'allievo anormale
da parte dell'insegnante inevitabilmente comporta, direttamente, una presa di
contatto con l'ambiente familiare del ragazzo.
Direttamente o indirettamente,
poiché non sempre viene offerta da parte della
famiglia una reale disponibilità collaborativa; la
quale può venire a mancare per una pluralità di motivi:
- Ove il genitore viva in termini di
competitività il rapporto coll'insegnante.
- Ove il comportamento asociale del
ragazzo sia un sintomo della disfunzione familiare di cui si rifiuta la presa
di coscienza, e con essa i sensi di colpa che vi si
associano.
- Ove vi siano leggerezza,
superficialità, ignoranza, tolleranza acritica e difensiva, come
è tipico di certi ambienti socialmente molto svantaggiati in cui, col
meccanismo della negazione, ci si pone al riparo di un test di realtà troppo frustrante.
In tali circostanze, in particolare,
diviene importante agire all'interno del gruppo scolastico, sforzandosi di
creare un ambiente in cui diventi effettivamente possibile per il fanciullo trovare affetto e sostegno.
La classe da principio non tarda a
configurarsi come un gruppo attorno alla leadership formaleistituzionale dell'insegnante.
Successivamente viene ad assumere connotazioni
sempre più tipiche di gruppo, attraverso l'assegnazione dei ruoli, modalità e
direzioni di comunicazione particolari, i diversi processi interattivi che
costantemente vengono a prodursi.
Tali scambi possono prodursi
direttamente tra i vari membri o soltanto tra ognuno di questi e la figura
centrale che viene così a filtrare e veicolare ogni comunicazione ed ogni rapporto.
La figura centrale può agire od
essere vissuta come presenza rassicurante o piuttosto minacciante.
In seno al gruppo allargato si
possono venire a costituire nuovi sottogruppi suscettibili di modificare, in
senso positivo o in senso negativo la stabilità del
primo.
Come è
caratteristica
di ogni sistema, anche il gruppo scolastico tende a stabilizzarsi secondo
modalità tipiche di economia e di funzionamento.
Stabilità e funzionalità, quelle del
gruppo, che è opportuno considerare secondo due parametri che non sempre
coincidono: da un lato l'equilibrio e il progresso del gruppo come entità sopraindividuale e, dall'altro, l'equilibrio e la maturazione
dell'individuo in seno al gruppo.
Benché oggi sia molto ricorrente la tematica del «gruppo», personalmente non credo che essa
venga sempre trattata ponendo sufficiente attenzione ai differenti aspetti che
la caratterizzano; soprattutto, spesso, ne viene trascurata la dimensione soggettivo-individuale.
Esistono almeno due possibilità
d'analisi da cui non si può prescindere e che non possono
essere confuse: come il gruppo si presenta oggettivamente e come il gruppo è
vissuto soggettivamente da ogni individuo membro.
Il correlato dinamico
di certi ruoli, di certe norme, di certi comportamenti, è rappresentato da una
varietà di vissuti e di scambi affettivi che non soltanto costituiscono il
tessuto connettivo del sistema, ma, allo stesso tempo, sono occasione di
sviluppo o regressione per i diversi soggetti.
Una leadership di tipo autoritario,
o democratico, o eccessivamente permissivo, non soltanto assicura il
raggiungimento di certi scopi oggettivamente definiti, ma allo stesso tempo può essere occasione di sostegno o di conflitto, di
benessere o di ansietà, di soddisfazione o di frustrazione.
Relativamente al ruolo di capro espiatorio restano
valide le osservazioni che abbiamo già svolto trattando della famiglia.
Il gruppo dovrebbe essere allo
stesso tempo produttivo nei confronti degli scopi oggettivi
perseguiti e formativo per i suoi membri; e lo può essere ove
effettivamente i bisogni del gruppo siano complementari ai bisogni dei singoli.
Ove tale complementarietà non sia
perseguita e realizzata, il gruppo rischia di diventare
piuttosto una condizione competitiva e manipolativa in cui si traducono e si
esaltano le proprie ansie e le proprie fantasie.
L'insegnante nel gruppo scolastico
può svolgere un ruolo importante nel promuovere tale complementarietà, che
d'altro canto è ben lontana dal realizzarsi spontaneamente, specie in un contesto ove l'immaturità dei soggetti tende piuttosto a
reagire impulsivamente ed egoisticamente.
L'esperienza di gruppo, come viene osservato da diversi esperti, può essere particolarmente
frustrante per il fanciullo anormale, relativamente indifeso e più vulnerabile
rispetto ai coetanei.
Festinger (14) tra i fattori che incoraggiano
la adesione al gruppo riconosce: «una importanza
determinante al desiderio di autovalutazione
attraverso il confronto con gli altri; si cerca qualcuno con cui confrontarsi;
soggetti che siano sufficientemente simili, il confronto con i quali consenta
un'accurata valutazione di se stesso; vengono invece evitate le persone che
differiscono significativamente, dal momento che la non confrontabilità
non è soddisfacente... Larga parte del comportamento dell'individuo in seno al
gruppo consiste in un progressivo avvicinamento ai soggetti più simili, ed un
progressivo distanziamento nei confronti dei
soggetti meno simili a lui... coloro che deviano, in tali circostanze sono
pressati dai propri e dagli altrui bisogni di autovalutazione
ad orientarsi secondo i comportamenti modali del gruppo, oppure a lasciare il
gruppo, se eccessivamente devianti... ne consegue, specie per gli anormali,
una riduzione della comunicazione e del rapporto, per l'assenza o l'insoddisfacenza della confrontabilità...
Quando viene formato un gruppo per realizzare una certa attività, è possibile
che inizialmente il gruppo tenda ad aiutare i membri che si mostrano meno
efficienti, ma se la loro inefficienza è troppo rilevante e persistente, questi
soggetti verranno piuttosto isolati e ignorati mentre gli altri membri
tenderanno a confrontare le proprie prestazioni con quelle di coloro
considerati al proprio livello».
Dentler ed Erikson
(14) suggeriscono che il «deviante» può prestarsi a svolgere il ruolo di capro
espiatorio, esercitando così una funzione positiva per
il gruppo; essi aggiungono: «se si offre ai membri di un gruppo la possibilità
di scegliere o rigettare un soggetto deviante, essi saranno molto più ben
disposti nei suoi confronti se egli si definisce chiaramente «deviante», se
chiede esplicitamente assistenza, se il gruppo trova qualche utilità nel
denunciare l'inadeguatezza del suo comportamento agli altri membri... quando
il deviante abbandona il gruppo, questo si troverà ad attribuire a qualche
altro membro le caratteristiche sfavorevoli, che precedentemente erano state
attribuite all'anormale...».
Quanto emerge da tali considerazioni
è dunque assai sconfortante; l'anormale, il deviante, o viene
rifiutato, o viene sopportato, o è in qualche modo strumentalizzato; raramente
viene accettato; sembra destinato a dover sperimentare il rifiuto o la pietà
piuttosto che l'amicizia e la solidarietà.
In una realtà regolata da principi
economici e da rapporti competitivi il rifiuto e l'isolamento, troppo spesso,
rischiano di divenire le costanti della vita dell'anormale.
Soprattutto appoggiandosi a tali
considerazioni alcuni esperti hanno rischiato l'impopolarità
proponendo l'istituzionalizzazione.
Personalmente mi sono convinto, pur
prendendo in considerazione la varietà delle situazioni
esistenti, che l'istituzionalizzazione è l'ultimo e tra i più disumani dei
provvedimenti.
Anche se l'istituzione può porre
l'individuo al riparo delle sollecitazioni e delle frustrazioni che il
confronto con la realtà sociale inevitabilmente comporta, essa favorisce una
progressiva alienazione del soggetto in una realtà fittizia.
L'autonomia, l'iniziativa, ogni
libertà personale vengono frustrate, i rapporti interpersonali
diventano stereotipali e dipendenti.
Il distacco dalla realtà sociale
inevitabilmente promuove sentimenti, atteggiamenti,
aspettative e comportamenti irrealistici a pregiudizio di ogni possibilità di
reinserimento adeguato.
Più efficaci sembrano essere i
diversi interventi diretti a maturare in seno alla famiglia una maggiore
sensibilità verso i problemi del fanciullo ed una
maggiore apertura nei confronti della scuola.
La scuola speciale in larga parte ha
risposto positivamente alle aspettative che l'avevano
incoraggiata, e l'esperienza passata ancor più incoraggia un intervento educativo-formativo piuttosto che meramente didattico.
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