Prospettive assistenziali, n. 14, aprile-giugno 1971

 

 

STUDI

 

L'EVOLUZIONE DEGLI ISTITUTI PER MINORI PRIVI DI AMBIENTE FAMILIARE NORMALE NEL SUO CONTESTO STORICO GLOBALE

ALAIN NOEL HENRI (1)

 

 

Questo testo è la registrazione di una confe­renza per cui le correzioni non hanno potuto eli­minare lo stile «parlato». Chiediamo scusa ai lettori. La brevità di tempo e l'ampiezza dell'ar­gomento ha portato l'autore a sorvolare e a ridur­re e quindi a certe semplificazioni che uno stu­dio più particolareggiato metterebbe in evidenza; si vorrebbe soprattutto offrire dei motivi di ri­flessione.

Noi siamo qui nell'ambito del Bureau Interna­tional Catholique de l'Enfance. Non è certo per caso che il problema dell'«Infanzia priva di am­biente familiare normale» è trattato in modo speciale in un organismo cattolico. Gli stessi termini «Infanzia priva di una famiglia normale» meriterebbero una lunghissima esegesi, poiché l'idea stessa di essere senza una famiglia implica che si ha diritto ad una famiglia. È evidente che queste parole «senza famiglia», per un pudore che sarebbe esso stesso da spiegare, hanno so­stituito la parola «orfano», mentre la parola «normale» è venuta ad aggiungersi, perché ad un certo punto le espressioni «orfano» e «orfa­notrofio» non sono più sembrate adeguate e la sostituzione è venuta ad essere un avvenimento storico che si è inserito ad un certo momento.

Devo aggiungere inoltre una restrizione: c'è un contesto che conosco meglio degli altri, quel­lo della società francese. Penso che sia possibile una certa estensione, forse con delle trasposi­zioni, per la società delle altre nazioni occiden­tali. Penso d'altronde che sarebbe quasi grotte­sco transporre ciò che sto per dire, nelle altre società, ed in particolare nelle società del terzo mondo, senza prendere estreme precauzioni. Metterò sistematicamente tra parentesi, ed è questo che distingue il mio discorso da quello di Padre Fraisse (2), il problema del valore edu­cativo o del valore religioso dei fatti che sto per dire, lo accetterò delle realtà per quelle che so­no, limitandomi semplicemente, e forse con più modestia che se vi dessi la mia opinione, a sot­tolineare dei rapporti tra i fatti.

Il resto sarà vostro compito comune di lavoro in commissione; il resto significa: prendere po­sizione.

Gli istituti in questione sono sottomessi attual­mente a pressioni per le quali l'espressione «ca­povolgimento» non è sufficientemente forte. Le pressioni talvolta prendono l'andamento di mes­se in causa radicali secondo linee di forza che sono sempre le stesse e si ripetono anche in modo talvolta spossante.

Quali sono queste linee di forza? Ci sono, mi sembra, due poli, ove queste si ricongiungono: uno è il polo della presa di coscienza dei bisogni affettivi, l'altro è il polo dell'apertura al mondo. Attorno a questi due poli, si trova un certo nu­mero di temi:

- Legato direttamente e unicamente al polo del­la presa di coscienza dei bisogni affettivi, si trova il tema della promiscuità, della coedu­cazione dei sessi.

- Legato specialmente al polo dell'apertura sul mondo, si trova il tema del reinserimento nell'ambito cittadino, dentro una società citta­dina, per opposizione agli istituti bloccati in campagna.

- E, più interessanti, a riunire i due poli trovia­mo tre linee:

a) una prima linea parte dai bisogni affet­tivi e va al tema dell'imitazione del modello familiare (creare degli ambienti che abbiano una cornice, un'atmosfera familiare); di là si dirige al tema dei rapporti con le famiglie reali del bambino, e raggiunge così l'apertura sul mondo reale.

b) Un'altra linea ha lo stesso punto di par­tenza e lo stesso punto di arrivo: quella che dai bisogni affettivi ci conduce a preoccupa­zioni di tipo medico-psicologico (l'irruzione del termine «medico-psicologico» nell'uni­verso degli istituti per bambini privi di am­biente familiare normale); dal medico-psico­logico passiamo a un altro tema che Padre Fraisse ha sviluppato, quello della necessità di educatori professionali e non più volonta­riato; e l'educatore professionale in quanto tale, ci conduce anche all'apertura sul mon­do, attraverso la intermediazione del mondo del lavoro.

c) Una terza linea non contiene altro che un anello intermedio, ed è la linea del «tem­po libero».

L'importanza accresciuta data al «tempo li­bero» tocca in effetti in egual modo il proble­ma dell'apertura sul mondo reale e il problema dei bisogni affettivi del bambino.

Si ha dunque tutto un sistema di «incrinature» che, vorrei dimostrare, non è il frutto del caso o di mode passeggere, ma è la proiezione nel limitato campo di nostro interesse, delle muta­zioni globali proprie di tutta la nostra società industriale occidentale.

La matassa è particolarmente intricata, poiché io ho richiamato nove temi dei quali cercherò di seguire le radici. Penso che si debba cercare di seguirle attraverso quattro epoche, o diciamo quattro strati geologici, che, succedendosi nella storia dell'occidente, vi hanno lasciato delle tracce profonde (beninteso, semplifico molto):

- All'inizio, una società agricola, medioevale, dominata dalla classe feudale, della quale certi tratti si ritrovano ancora nella società rurale d'oggi, quella almeno, che sta morendo sotto i nostri occhi.

- Una prima società borghese, fondata sulla produzione artigiana che era dominata da una grande borghesia di commercianti e di gente di toga e che incomincia ad apparire nelle città dell'occidente a partire dal XII-XIII se­colo e che ha incominciato la sua agonia nel XIX secolo.

- Una terza società, nata dalla rivoluzione indu­striale, alla fine del XVIII secolo e nella quale tutto si organizza per accrescere la produtti­vità del lavoro, grazie ad un'enorme attrezza­tura, a una enorme infrastruttura industriale, il cui sviluppo non è possibile se non frenan­do lo sviluppo dei consumi. Questa società era trionfante fino a questi ultimi tempi, lo è ancora, ma è già stata messa in concorrenza dalla quarta, quella che appare sotto i nostri occhi.

- Una società neo-industriale nella quale, da una parte il lavoro è sempre più intellettua­lizzato, ma soprattutto nella quale la produ­zione industriale non può più svilupparsi sen­za sollecitare i consumi, senza crescere di continuo in modo sempre più smisurato.

Penso che ciò che vi ho detto possa sembrare senza alcun rapporto con il nostro argomento. Tenterò di dimostrarvi il contrario.

Complicazione supplementare: ho detto di se­guire nove temi attraverso quattro strati geolo­gici; ma bisogna inoltre seguirli in quattro ter­reni differenti, poiché il nostro soggetto è al punto d'incontro d'una storia dell'infanzia, d'una storia della famiglia, d'una storia dell'emargina­zione (visto che ora la si chiama così ed è un termine comodo) ed infine d'una storia della condizione religiosa.

Non mi fermerò troppo sulla società medio­evale poiché essa serve un po' di contrasto o piuttosto da punto «zero».

In effetti è interessante per contrasto poiché «Istituti per bambini privi di ambiente familiare normale» era allora espressione pressoché pri­va di senso. Essa è caratterizzata da una econo­mia di sopravvivenza, ove tutto il lavoro, duro, sulla terra è appena sufficiente nelle annate buo­ne per sfamarsi, senza evitare la carestia e lo spettro della morte, e io considero la presenza della fame e della morte in questa società agri­cola medioevale, un punto molto importante. Essa dimostra in effetti una larga solidarietà all'interno di una stretta cornice determinata dalla debolezza e dalla mancanza di sicurezza dei mezzi di comunicazione.

La vera unità sociale è la parrocchia, il villag­gio, e all'interno, la famiglia che è intesa in un senso molto vasto e comprende tutta la paren­tela. Essa non è che una zona di questo spazio sociale che è il villaggio. Non vi sono entità ben delimitate, delle famiglie estranee le une alle altre: ma c'è un intreccio di parentele all'interno della comunità parrocchiale.

Non ci sono dunque limiti netti tra la famiglia e il rimanente spazio sociale.

Se io considero allora la storia dell'infanzia, non ci sono limiti netti tra l'infanzia e l'età adulta. Si diventa adulti in modo continuo man mano che si possono assumere piccoli compiti di produzione, poiché non è possibile dispensare il bambino dal lavoro produttivo, come avviene nella nostra società.

Dispensare il bambino dal lavoro produttivo è un lusso e un lusso recente.

Nella società medioevale, e ancora nella socie­tà rurale come noi l'abbiamo conosciuta in pas­sato, proprio prima dell'istruzione obbligatoria, il bambino partecipa immediatamente alla produ­zione, fa il suo apprendistato sociale e il suo apprendistato puro e semplice in contatto con gli adulti senza che la condizione infantile sia netta­mente separata dalla condizione dell'adulto.

L'ho già detto, credo che sia un punto impor­tante: la morte è familiare. Il bambino non può essere un bene prezioso, oggetto di tutte le cure; ne muoiono troppi, ne nascono troppi per sosti­tuire quelli che muoiono; la stessa morte dell'a­dulto è un fatto troppo quotidiano per diventare lo scandalo che è per noi. Essa è più il marchio di un destino che uno scandalo inammissibile.

È la stessa cosa per l'emarginato... nella mi­sura in cui egli esiste. Non se ne trova in effetti che un esiguo numero di categorie; non vedo al­tro che i lebbrosi poiché sono dei morti viventi, dei morti «differiti» trattati come degli esseri già «morti». Il solo vero emarginato è lo stra­niero, colui che viaggia, colui che non appartiene a nessuna parrocchia.

Ma tutti gli altri hanno il loro posto, facilmen­te integrati nella comunità, siano essi l'idiota del villaggio, il vecchio inutile e persino la strega. Essi seno oggetto di una tolleranza che è d'al­tronde compensata da un'intolleranza radicale allorquando il limite è oltrepassato e, allora, la sanzione ne è la condanna a morte. Ma tra la vita quotidiana con tutti e la condanna a morte, non c'è quell'intermediario così importante nell'epoca seguente che è la prigione, l'internamen­to, la clausura: mettere gli emarginati in spazi chiusi ove continuino a vivere, ma dove sono ignorati dal resto del mondo, è un'usanza che la società agricola tradizionale ignora o quasi.

Si crea inoltre in questo periodo un legame estremamente durevole e che ritroveremo fino ai nostri giorni, tra la colpa e la disgrazia. Que­sto sarà d'altronde uno dei temi subiacenti più forti, più vigorosi, della tradizione cristiana sino ad un periodo relativamente recente e che nel medioevo presenta un carattere tendente a spa­rire in seguito: il carattere sacro dell'infelice. Scomparirà come fatto sociale, anche se resta soggettivamente presente nelle coscienze reli­giose.

Pertanto dall'uomo consacrato nel quale si ri­spetta la grazia di Dio fino al povero che si soc­corre, c'è un legame che ad esempio è docu­mentato dall'azione francescana.

C'è un legame tra il soccorso al povero e la redenzione del colpevole poiché il gesto è lo stesso. C'è infine un legame tra la redenzione del colpevole e il castigo. Gli ecclesiastici inoltre non sono ancora ciò che diventeranno in gran parte in seguito: gli esecutori specializzati della carità, dirò quasi i funzionari della carità, coloro che «fanno la carità» al posto del resto della società. La carità ha un senso nell'insieme dello spazio sociale, poiché tutto il mondo è solidale sotto la minaccia costante della carestia e della morte.

Gli ecclesiastici, depositari della parola e della scrittura (sanno parlare in latino, sanno scrive­re), sono piuttosto i responsabili dello sguardo portato sugli uomini e sulle cose, i conservatori per così dire, dell'aspetto caratteristico del me­dio evo.

Essi hanno inoltre, è vero, ed è ciò che ci inte­ressa, certe funzioni giustificate dagli imprevi­sti, forse proprio perché, messa fuori causa la feudalità occupata nella caccia e nella guerra, essi sono i soli a poterlo fare economicamente. Perciò essi assumeranno per esempio l'accoglienza degli stranieri: è notevole che i primi ordini ospedalieri, che erano d'altronde ordini cavallereschi al limite della feudalità e della chiesa, fossero destinati ad accogliere gli stra­nieri; solo a poco a poco si sono estesi ai ma­lati, agli orfani, e ad altre categorie. Di fatto, questa estensione è avvenuta man mano che si entra in quell'altra società medioevale che è la prima società borghese, quella che costruirono gli abitanti dei borghi.

Troppa sovente l'opinione comune ammette ta­citamente il monolitismo del medio evo, mentre il medio evo vedeva coesistere due società radi­calmente diverse, quella della campagna e quel­la della città.

La società artigianale rappresenta un primo de­collo in rapporto all'economia di sussistenza; bisogna rendere libero del tempo di lavoro umano per costruire degli oggetti e per commerciare; non bisogna più essere obbligati a sopravvivere giorno per giorno, o stagione per stagione. Ci sono due «cose correlate» a tale decollo: da una parte una possibilità di specializzazione dei compiti (al contrario della società rurale ove cia­scuno è polivalente); questa divisione economi­ca del lavoro si tradurrà con una specializzazione dei compiti estesa agli ambiti non esclusiva­mente economici.

Da un'altra parte la morte e la carestia non sono più un destino, ma cominciano a diventare uno scandalo.

Al posto della grande unità polivalente che è la parrocchia, si ha a che fare con unità molte­plici molto specializzate, il modello delle quali è la botteguccia dell'artigiano o il negozio del commerciante, all'interno di quel mondo già mol­to più anonimo della parrocchia che è il mondo della piccola città.

Per ciò che riguarda la regolamentazione della infanzia, il fatto da sottolineare è la comparsa dell'apprendistato come «stato della regolamen­tazione sociale di apprendista».

Ci si ricorda troppo poco che in origine l'ap­prendistato non era stabilito a 14 anni ma a 7. Da quando il bambino non era più un lattante, da quando poteva incominciare a produrre, da quan­do aveva «l'età della ragione», lo si mandava in un'altra famiglia di artigiani per apprendervi il suo mestiere: ecco di che meditare, sulle no­stre considerazioni, quanto al bisogno assoluto, naturale, eterno, che il bambino avrebbe della sua famiglia da zero a 21 anni.

Quest'altra famiglia l'allevava ed esercitava su di lui la funzione parentale, mentre al tempo stesso gli insegnava un mestiere. In realtà era un'unica e medesima funzione.

Di questo vero trapianto in un'altra famiglia, sussisteva ancora poco tempo fa qualcosa nel contratto d'apprendistato, benché protratto in età, poiché il padrone era al tempo stesso, in certo qual modo, il sostituto del padre, e noi sap­piamo come questa forma sociale in declino sia stata utilizzata come strumento educativo.

Di questa lontana traccia del trapianto dell'ap­prendista da una famiglia ad un'altra all'interno di una piccola unità di produzione artigiana, ab­biamo una traccia più importante nel baliatico in campagna, poiché in realtà questo colloca­mento in campagna come lo conosciamo noi, si inserisce in una attività rurale organizzata sul modello artigianale; non più nel modello della grande comunità paesana, ma su quello della pro­prietà privata o della locazione individuale di un pezzo di terra, e la funzione sociale della fami­glia allargata all'interno del podere, assomiglia molto alla famiglia dell'artigiano all'interno della sua bottega.

In realtà non conosciamo più affatto l'organiz­zazione agricola tradizionale, dall'Alto Medio Evo; noi non conosciamo che una organizzazione artigianale della produzione agricola, in attesa dell'organizzazione industriale della produzione agricola che fa progressivamente sparire, come l'ha già fatto nelle città, il modello artigianale e che fa quindi sparire una certa possibilità di collocamento di un bambino in una struttura dove questi sia al tempo stesso educato e produttore.

In questo contesto sussiste quindi ancora lar­gamente una possibilità di creare un destino, senza istituti specializzati, al bambino che non ha una sua propria famiglia poiché la struttura esi­ste; e noi troviamo nella letteratura molte tracce e testimonianze di bambini orfani che si sono tro­vati rapidamente collocati come apprendisti gio­vanissimi presso un artigiano o un piccolo pro­duttore.

Peraltro questo processo è meno facile. Ci sono già delle falle nel sistema e non per caso si vede proprio verso il XII secolo nel filone delle attività degli ordini ospedalieri, apparire i primi istituti collettivi destinati agli orfani; rarissimi all'inizio, essi non si svilupperanno che poco a poco sino ad una svolta importante nel XVII se­colo.

Infatti è nel XVII secolo che si coglie e si indi­vidua veramente questa seconda forma sociale ed è qui che noi incominciamo ad avere a che fare non più con il passato ma già con il pre­sente.

Parlavo di scandalo della morte; è precisa­mente nel XVII secolo che s'inserisce San Vin­cenzo De Paoli. San Vincenzo rappresenta un mo­mento della coscienza collettiva in cui l'abban­dono dei bambini non può più essere un fatto, se non ammesso, almeno tollerato e in ogni caso sul quale si possa chiudere gli occhi, perché in­somma noi ci scandalizziamo, noi, che possiamo permetterci il lusso di scandalizzarcene, del fatto che sino a San Vincenzo De Paoli si siano potuti abbandonare dei bambini alle porte delle chiese; ma dobbiamo tentare di rimetterci nella pelle di tutti quei popoli che lo facevano molto natural­mente per la semplice ragione che non si aveva la possibilità di nutrire tutti i bambini che nasce­vano, e di conseguenza la morte dei bambini era una necessità economica.

Sotto gli occhi di San Vincenzo De Paoli, ciò che non è più una necessità economica può di­ventare uno scandalo morale.

Peraltro, ritengo che San Vincenzo De Paoli non sia il più importante. Ci permette soprattutto di capire che si è fatto qualche cosa per il bam­bino senza famiglia.

Inoltre conviene comprendere come, e perché la forma che si è sviluppata partendo da questo grande movimento è stata quella dell'Istituto quale lo conosciamo ancora noi, o quale l'ab­biamo conosciuto fino a poco tempo fa.

Per questo, è necessaria una breve deviazione supplementare attraverso due dati di fatto; da una parte la sorte che, non più l'artigianato, gli strati medi, ma l'alta borghesia e la vecchia feu­dalità (di fatto riconvertita nella vita borghese) creavano per i loro figli; dall'altra parte, la sorte riservata all'insieme degli emarginati mediante la creazione dell'ospedale generale. È curioso in effetti che si trovi un'analogia fra il destino degli emarginati, di tutti gli inassimilabili da parte della società, e il destino creato dalla bor­ghesia ai propri figli.

In effetti, è in questo momento che appare il modello del bambino, protetto-escluso, non es­sendo altro la protezione che una forma ben ma­scherata dell'esclusione; il bambino, questo pic­colo essere fragile che si protegge, come lo si protegge? Mandandolo altrove. È un fenomeno massiccio; tutti i bambini dell'alta borghesia nel XVII e XVIII secolo incominciano la loro esistenza andando a balia, e non appena rientrati dal balia­tico, vengono mandati in collegio; essi non sono inseriti nella società, in quella dei loro genitori che alla fine dell'adolescenza, al momento in cui sono già socialmente adulti. A partire da questo momento dunque nasce una tradizione molto forte che fa del bambino un «impiccio» sul quale ci si intenerisce, espellendolo però dallo spazio sociale reale. E ciò a livello degli strati sociali più elevati della società. La ragione è semplice: i bambini non servono a niente, non producono niente.

Neppure le donne, si dirà? Il caso è differente, in quanto le donne sono un oggetto decorativo, sono incaricate in certo qual modo delle «Public ­Relations», ed è assai fastidioso per loro avere dei bambini.

Voi conoscete d'altronde lo scandalo che sol­levò Jean Jacques Rousseau chiedendo che le madri si occupassero un po' dei loro bambini allattandoli.

In realtà il bambino è mandato presso una brava balia campagnola che si occuperà di lui insieme al proprio figlio.

Michel Foucault ha dimostrato benissimo qua­le unità profonda legasse tutti coloro che veni­vano radunati nell'ospedale generale nel XVII secolo, e che per noi sono eterocliti, perché noi li chiameremmo malati, debilitati, poveri, folli e «libertini» secondo il significato dell'epoca, cioè liberi pensatori.

Che c'è dunque di comune tra tutte queste persone? che non lavorino o siano dissipatori, sono degli oziosi che si vuole riformare facendoli lavorare.

Curiosamente d'altronde li si farà lavorare in modo simbolico, gli si farà cioè fare un lavoro che non serve a niente o quasi a niente, ma per la morale sarà detto che si sono fatti lavorare. A questo punto possiamo constatare che il bino­mio colpevole-infelice è rimasto legato in modo molto forte, ma che il carattere sacro dell'infeli­ce è completamente scomparso, e che l'infelice­colpevole, il colpevole reputato infelice e l'infe­lice sempre reputato colpevole, è ridefinito co­me essere semplicemente pericoloso, e pericoloso in quanto non partecipa al lavoro comune. L'orfanotrofio comparirà come una specializza­zione per i più giovani dell'ospedale generale che da principio, bisogna sottolinearlo, e per lungo tempo ancora ha accolto indistintamente i bam­bini e gli adulti (ad esempio ancora nel XIX se­colo in Oliver Twist). Più tardi, questa sezione specializzata dell'ospedale generale potrà essere ritradotta in una specie di democratizzazione di quelle istituzioni altamente aristocratiche, di quelle prigioni dorate che sono i collegi e i con­venti.

L'assistenza agli orfani è estremamente se­gnata da questa doppia origine: da una parte la «Work House» inglese, e dall'altra il collegio dei gesuiti.

Fermiamoci un momento sulle caratteristiche essenziali di tutti questi istituti dei quali l'orfa­notrofio non è che una specie. Innanzi tutto sono chiusi. Sono attorniati da grandi muri simbolici: ciò che accade all'interno non deve avere alcuna comunicazione con ciò che accade all'esterno. La chiusura è una forma della scomparsa sociale. È perfino la sola maniera che si è trovata per far sparire qualcuno dallo spazio sociale senza ucciderlo.

Non ci sono più roghi, ci sono clausure, pri­gioni, ospedali, orfanotrofi, collegi, conventi. Im­plicano d'altra parte una specie di esclusione dai giri economici concreti, poiché, ancora una volta, questi improduttivi sono resi produttivi in modo puramente simbolico.

Sono degli istituti che, sul piano economico, sono i più autarchici possibile, e dipendono d'al­tronde da, una carità che diventa in questo mo­mento un concetto contabile, cosa che non era assolutamente nella forma sociale precedente­mente descritta. Certamente lo sarà ancora di più due secoli dopo. È notevole che l'atto carita­tivo si attua già sotto la forma astratta del de­naro, e in effetti concretamente tutti coloro che sono dentro questi istituti chiusi, di qualsiasi genere sono dei «nulla» economici.

Gli istituti sono infine dominati dal tema della repressione del desiderio; il che d'altronde non è una loro prerogativa, poiché è tutta questa società ad essere segnata da questo stesso tema. Questo tema è profondamente diverso dal destino tragico che pesa sulla società agricola precedente; ora la repressione del desiderio è apparsa come volontaria ed è simboleggiata dall'idea del risparmio.

Max Weber ha ben sottolineato la parentela che avvicinava il calvinismo ed il capitalismo nascente nel XVI secolo. Si potrebbe aggiun­gervi anche il giansenismo.

La comparsa del risparmio non deve far stu­pire, è la condizione assoluta del decollo eco­nomico. Per poter costruire degli strumenti pre­ziosi di produzione, per non veder ritornare lo spettro dell'economia di sopravvivenza, bisogna mettere da parte molto, bisogna consumare mol­to meno di ciò che si produce.

È dunque tutta la società (tranne le classi più favorite, tranne i parassiti del vertice estremo, i cortigiani, che sono un'infima minoranza) che risparmia sotto la pressione di meccanismi eco­nomici non reprimibili e non soltanto coloro ai quali giova questa accumulazione di capitale; dunque la repressione del desiderio è un fatto sociale, generale in quell'epoca.

Solo che negli istituti chiusi si constata quasi un raddoppiarsi dell'austerità legata esplicita­mente al fatto che il debitore non ha diritto ad avere dei desideri: colui che è qui per carità deve accontentarsi dell'essenziale, infine deve accontentarsi di non morire poiché in effetti il motivo perché ci si occupi di lui, è fin dall'inizio lo scandalo della fame e della morte.

E la separazione dei sessi, che nessun fatto obiettivo giustifica, che non si può quindi analiz­zare che a livello di fantasma, esprime molto bene, simbolicamente, questa regola generale della repressione del desiderio, dell'austerità si­stematica nel contesto degli istituti chiusi di qualsiasi specie che nascono nell'età classica.

Qui appare il ruolo specifico dello stato reli­gioso. Non sono molto ferrato nel campo della storia religiosa, può darsi che io dica cose sba­gliate. Mi sembra tuttavia che si possa grosso modo fare la seguente analisi: la chiesa possie­de un'estrema potenza collettiva. Essa è il più grande proprietario terriero, è una potenza po­litica di grandissimo peso, al tempo stesso è ano strumento di promozione sociale privilegia­to, il solo strumento di promozione sociale dei ceti contadini. Per il contadinello intelligente c'è un solo mezzo per diventare qualcuno, essere prete, appartenere alla chiesa. Ma accanto a questa molte situazioni dello stato religioso sono situazioni di emarginazione, almeno a livello de­gli individui che ne costituiscono una certa fran­gia, una certa frazione; poiché la Chiesa è lo sbocco dove si mandano i cadetti di famiglia quando non si ha eredità da lasciare loro, o le figlie eccedenti quando non si è riusciti a mari­tarle.

Entrare in religione ha rappresentato perciò nell'età classica lo sbocco, dove una certa so­cietà mandava quelli di cui non sapeva che fare. Accentuo un po' caricaturalmente per sottoli­neare, un tratto che non si scorge abbastanza sovente, questo carattere ambiguo del religioso o della religiosa nell'età classica che è insieme molto vicino alle più alte potenze e molto vicino a coloro che sono i più reietti della società.

Si ritrova dunque la clausura, si ritrova la se­parazione dei sessi e la repressione dei desi­deri, è il ruolo oggettivo rappresentato dal voto di castità. Si ritrova insieme con il voto di po­vertà l'esclusione volontaria dai circuiti econo­mici. E con il voto di obbedienza, si trova una cieca sottomissione all'ordine stabilito. Chi dun­que, meglio dei religiosi, può nell'epoca classica essere messo nella posizione di doganiere tra gli emarginati parcheggiati negli istituti e l'in­sieme della società? Ma questi doganieri, questi guardiani dell'inaccettabile, ed è un fatto impor­tantissimo, non hanno mai smesso di funzionare sotto il patronato e il controllo della borghesia e dei grandi di questo mondo; infatti se si fa la storia degli istituti, li si trova sempre incappel­lati da un comitato di gente altolocata, dapprima nobili, poi alta-borghesia, e adesso notabili: in­somma... i responsabili diretti dell'ordine stabi­lito, coloro che ne ricavano la sussistenza e in definitiva il guadagno.

Da questo punto di vista, la rivoluzione indu­striale, non apporterà quelle trasformazioni es­senziali di cui ha improntato invece la maggior parte dei settori della vita sociale.

Non si tratterà che di rattoppi, di piccole pen­nellate che si aggiungono, o dei tratti che erano in precedenza semplicemente abbozzati, e che ora si rivelano meglio.

In primo luogo la famiglia. La famiglia non è più unità di produzione. Essa non è più che una unità di consumo.

Si produrrà nell'officina, che non è impresa familiare, se non a livello dei possessori di azio­ni (ed ancora sempre di meno); ma non lo è a livello dei produttori.

Nella impresa artigianale lo stesso coadiu­vante era della famiglia. Noi vediamo dunque la famiglia svuotarsi della sua funzione propria­mente produttrice. A livello della classe domi­nante, non è più che il simbolo della proprietà. I testi che lo certificano sono moltissimi, a co­minciare dal codice civile. Se si disse allora tanto bene della famiglia, non è affatto per le ragioni che sono oggi le nostre; ma perché essa è «la cellula madre della società» e sempre in connessione con la proprietà privata.

In quel momento il bambino senza famiglia, per il semplice fatto che è senza famiglia, diverrà qualcuno altrettanto sospetto quanto già lo era, da tanto tempo, l'uomo senza lavoro. Essere sen­za lavoro, equivale a una minaccia potenziale per un ordine fondato sulla proprietà privata. Ciò che caratterizza a quel tempo il bambino senza famiglia, è che ora era «res nullius» (cosa di nessuno); egli era quella cosa impensabile: un oggetto che non appartiene a nessuno, poiché i testi giuridici concernenti la patria potestà nel XIX secolo, lo trattano esattamente sul modello del diritto di proprietà; si è padre dei propri figli, come si è proprietario dei propri beni e responsabile dei propri domestici, e dei propri animali. Qui si rafforza ancora il legame tra l'in­felice ed il soggetto pericoloso, e qui ancora innumerevoli sono i testi che assegnano la stes­sa sorte al bambino delinquente e a quello senza famiglia.

Lo si manda nelle stesse strutture poiché se­condo l'opinione dell'epoca è il medesimo bam­bino, la stessa vivente minaccia contro la pro­prietà: è la stessa mescolanza ambivalente di pietà e di inquietudine che caratterizza l'attenzio­ne rivolta su di lui.

Si tratta quindi di farlo sopravvivere; tuttavia ciò non basta: si tratta anche di preservarlo dal­le cattive influenze, e io penso che riguardando i vecchi testi che regolano le vostre istituzioni, per poco che datino dal secolo XIX ritroverete quasi sempre questa associazione: dar loro da mangiare, vestirli, e preservarli dalle influenze cattive.

Vogliamo sottolineare di passaggio che l'orfa­notrofio, l'orfano, sono già da tanto tempo un alibi; quando noi oggi diciamo: non ci sono più orfani negli orfanotrofi, crediamo spesso di sco­prire un fatto recente, mentre, comunque, già da molto tempo gli orfanotrofi sono abitati da tut­t'altre persone che da orfani.

Modifica maggiore, portata però dalla rivolu­zione industriale, benché sul tardi. Vi si è im­piegato qualche decina d'anni a farla: la scuola obbligatoria. Agli inizi, si mandano i bambini de­gli operai all'officina come gli adulti; niente da stupirsi: se fossero rimasti contadini, avrebbero lavorato i campi; vanno molto naturalmente a lavorare in fabbrica, e non proprio nelle stesse condizioni di ambiente; ci vorrà però un po' di tempo per accorgersi che lavorare 14 ore nei campi e 14 ore in fabbrica, non è proprio la stessa cosa; sapete che si è dovuto attendere, per lo meno in Francia, la fine del XIX secolo perché fossero apportate le prime timide limita­zioni. In ogni caso la proibizione è avvenuta nel momento in cui diveniva possibile economica­mente, nel senso che, man mano che l'industria si sviluppa, i compiti diventano sempre più com­plessi e si ha sempre maggior bisogno di operai addestrati. Arriviamo a quel punto cruciale ed essenziale per il nostro argomento, e che è un fatto recente: quello dell'istruzione primaria ge­neralizzata, perché obbligatoria.

Per noi, un bambino che cos'è dunque? È uno scolaro. Tutto il nostro modo di vedere riguardo all'infanzia è stato completamente capovolto da questa identificazione del bambino con lo sco­laro. E tuttavia questo fatto non ha un secolo di anzianità e Dio sa se la terza Repubblica ha stentato a realizzarlo, poiché l'istruzione prima­ria obbligatoria ha dovuto vincere molte resi­stenze. Generalizzata, essa non è più un lusso dei ricchi, l'istruzione è di tutti, e in questo momento vediamo aggiungere, all'obbligo di nu­trire, di dare un mestiere, di moralizzare, l'ob­bligo di istruire.

In questo preciso momento si ricongiungono le due linee parallele, quella del collegio scola­stico per i figli dei ricchi, e quella della «Work House» per minori, e noi vediamo formarsi que­sto modello unico di istituto che è nello stesso tempo un convitto scolastico, il cui modello è raggiunto di passaggio attraverso strutture nate dall'insegnamento pubblico. I convitti scolastici, all'inizio semplice comodità, diventano, poco a poco, delle specie di orfanotrofi; sovente nell'am­bito sia di collettività locali, responsabili della «beneficenza», come di opere para-scolastiche (sempre nel caso particolare della Francia).

In questo contesto si inasprisce l'antagoni­smo, già sottolineato a livello di una società essenzialmente artigiana, tra l'atto di carità e gli imperativi di rendimento. Infatti questa so­cietà borghese del XIX secolo, tutto lo dimostra, è interamente fondata sul rendimento del gesto, e sull'integrazione progressiva del massimo di dati in un sistema contabilizzato.

Quindi che cosa si deve fare di questo ele­mento economicamente improduttivo, al quale si fa la carità? L'esperienza dimostra l'estrema difficoltà che si riscontra nel ridurlo. Si ricorre ad un certo numero di astuzie, di piccoli tocchi: in primo luogo il rigore delle austerità, in se­condo luogo il bilancio caritatevole. Quando si esaminano i vecchi quaderni di conti di una fa­miglia borghese del XIX secolo, c'è sempre una voce «Carità». C'è qualcosa di ammirevole in questo modo di far entrare in una contabilità, con l'intermediario dell'astratto «denaro», ciò che non ha alcun significato economico intrin­seco.

In terzo luogo, c'è peraltro un certo rendi­mento nel bilancio caritativo; è indirettamente, quello dell'estetica del gesto; poiché infine i ritratti dei generosi fondatori, la loro iscrizione su lapidi di marmo, sono sui muri degli istituti, una moneta, oserei dire, assai corrente. Il gesto di dare è generalmente un gesto che paga a livello «dell'apparenza sociale».

È anche talvolta un gesto elettorale.

In quarto luogo, l'artificio maggiore è l'impiego di personale non pagato. La carità, la generosità, sono cose tanto belle e rispettabili!

Ed anche, il voto di povertà delle religiose fa ben comodo a coloro che a tale voto non son legati. È molto comodo contare su un certo nu­mero di persone che lavorano gratis o pres­sappoco, per occuparsi proprio di persone per le quali non si ha voglia di spendere, perché non rendono nulla. Non ci si perita d'altronde a rico­prirle d'ammirazione.

Un'altra trovata consiste nell'utilizzare delle forze economiche regressive.

Così, nello stesso modo in cui si ammira la generosità delle religiose, si renderanno, al se­guito di Maria Antonietta e di qualcun altro, molti omaggi all'agricoltura che manca di brac­cia, come tutti sanno: tutto un romanticismo agricolo permette così di mandare tutti coloro, che nelle città appaiono indesiderabili, a respi­rare l'aria buona di campagna, e tanto più, per­ché è possibile, a livello appunto di forme agri­cole primitive, di non contabilizzare gli elementi di produttività.

Pertanto esiste, accompagnato da un colpo di turibolo, una specie di rigetto, verso un'agricol­tura tradizionale, del bambino in soprannumero, sistema che si dimostra molto chiaramente per quanto riguarda le nutrici dell'assistenza pub­blica e che si vede in modo meno chiaro, ma tuttavia abbastanza netto, a livello di quegli istituti che si stabiliscono, che nascono delibe­ratamente in campagna, in un grande parco, con un orto che così permette di vivere nel modo più possibile autonomo. È vero che questo aspetto è legato al fatto che gli istituti religiosi dell'epoca, si sentono più a loro agio in un am­biente contadino che non in quell'ambiente ur­bano, industriale, il quale, bisogna ricordare, si era all'inizio creato in contrapposizione ad essi, giacché per tutto il XIX secolo la Chiesa fece fondamentalmente lega con la società rurale rappresentata dalla nobiltà, dal monarchismo ecc.

Bisogna sottolineare che l'organizzazione ca­ritativa diviene di giorno in giorno più com­plessa.

Nello stesso modo in cui si passa dall'arti­gianato alla società industriale, si passa dall'or­ganizzazione caritativa tanto vicina al donatore quanto a colui del quale ci si occupa, a dei com­plessi sistematici e talvolta enormi; qui ancora per la Francia, il supporto giuridico sarà la legge del 1901 che organizza, sul modello delle società a funzione economica, associazioni senza scopo di lucro, con alcuni correttivi che semplicemente permettono di non farle diventare società a sco­po di lucro; a forza di prestare attenzione a tali differenze, si dimenticano le rassomiglianze che sono considerevoli e caratteristiche di una orga­nizzazione sociale di tipo capitalistico.

Si creerà intanto un fatto importante che mo­difica un po' il sistema che a noi interessa.

È la comparsa del settore di «azione sociale». In effetti, il termine «sociale» s'introdusse in Europa come una specie di reazione vaccinante all'aggressione costituita dalla minaccia socia­lista. Il fatto è molto evidente quando si con­siderino, ad esempio, le origini del cristianesi­mo sociale, che nasce come un germoglio dei movimento socialista e al tempo stesso come una diga destinata a trattenerlo.

In concreto vediamo a poco a poco, operarsi un movimento di concentrazione nelle mani dei pubblici poteri di ciò che all'inizio era preroga­tiva della carità privata. Ci riempiono spesso le orecchie, della trasformazione del «caritatevo­le» in «sociale» come di una rivoluzione radi­cale: ma l'azione sociale è rivestita di tutte le caratteristiche dell'azione caritatevole, tranne che per una sfumatura: cioè che è organizzata dallo stato. È infatti una cosa comunissima, in una società fondata sulla libera impresa, che lo stato sia gravato di tutte le funzioni collettive che l'iniziativa privata non riesce ad assumersi. Per conseguenza, dal momento in cui si scopre che l'iniziativa privata non poteva organizzare da sola l'azione sociale, e quindi contenere la pressione dei movimenti di rivendicazione e la minaccia rivoluzionaria, l'organizzazione dell'at­tività caritativa si è concentrata sempre più nel­le mani dello stato, ma, significativamente, come sostegno all'iniziativa privata.

In Francia, i fondi dello Stato passano sempre attraverso strutture private e queste strutture sono, in generale, amministrate da dei consigli d'amministrazione di notabili.

Ho detto prima che la mutazione essenziale riguardo al nostro oggetto, avviene sotto i nostri occhi. Essa non è legata alla rivoluzione indu­striale, ma al passaggio della società industria­le ad una nuova fase. Risparmiare è far funzio­nare, una certa quantità di forza lavorativa, di­sponibile a un dato momento; come il risparmio, nell'economia di mercato, è il più delle volte messo a frutto, così questa parte di lavoro di­sponibile è orientata verso degli investimenti a danno dei consumi. Ma, dopo un certo periodo, l'apparato di produzione, frutto del capitale ac­cumulato, è tale da aver un bisogno ancora maggiore di smerciare i suoi prodotti e quindi incentivare i consumi piuttosto che frenarli; a questo punto si pone, io credo, la sfaldatura fon­damentale: noi usciamo da una società ove l'im­perativo categorico era di frenare i consumi, ed entriamo in un'altra società che si propone come imperativo quello di stimolarli.

Alla regola d'oro «economizzate» tende sostituirsi un'altra regola «spendete». Gli indi­vidui sospetti non sono più l'ozioso e il prodigo, ma ora sono l'asceta, colui che non ha bisogni, che non spende nulla, colui che va «contro corrente».

Il legame diretto tra un fatto economico ed una questione di idee è qui evidente e ciascuno di noi avverte sicuramente il movimento di bi­lancia che avviene sotto i nostri occhi, e che rende sospetto colui che ha visioni ristrette, risparmia molto, spende poco per sé, colui che riceveva ancora fino a poco fa tutti gli incensi.

Bisogna quindi trovare dei nuovi consumatori. Come nel Medio Evo non ci si poteva permettere di lasciare da parte un produttore potenziale, così noi arriviamo ad uno stato di cose tale per cui non ci si può permettere di trascurare un consumatore potenziale, così che noi troviamo la reintegrazione dei due grandi esclusi dell'e­poca di mezzo che sono i bambini e gli emargi­nati. I fanciulli non sono più quella quantità tra­scurabile da alloggiare come si può, accordando loro il meno possibile, ed attribuendo loro sol­tanto una funzione d'apprendistato, coloro ai quali si dice una cosa sola «impara!». Arrivia­mo a un'epoca in cui si dice al bambino: tu hai dei bisogni, consuma! Il bambino anzi è un con­sumatore privilegiato, poiché non produce nien­te, è soltanto un consumatore, e voi sapete bene come la pubblicità utilizzi in modo massiccio questo tema del fanciullo consumatore.

In modo significativo d'altronde, sparisce quella barriera fondamentale tra il bambino e l'adulto, che consisteva nella proibizione di sa­pere troppo presto alcune cose! «Lo imparerai quando sarai più grande». Il bambino guarda la televisione come gli adulti, accede agli stessi mass-media degli adulti. Di giorno in giorno, i mass-media per bambini scompaiono e i mass­media per adulti sono comunicati ai bambini. Cre­do che questo simbolizzi molto bene il reinseri­mento del bambino, non nella comunità dei pro­duttori, ma in quella dei consumatori.

Altro fatto che allarga il primo: l'infanzia si prolunga man mano che l'età dell'introduzione al lavoro aumenta, e nell'intervallo appare una ca­tegoria completamente nuova: l'adolescenza. L'adolescente è un adulto nel corpo, ma social­mente è un bambino.

In questa evoluzione che si svolge sotto i no­stri occhi, conviene dare una collocazione a parte e un risalto all'apparizione dell'adolescen­za come fatto sociale di massa.

Anche l'emarginazione è reintegrata, è rein­tegrata sul modello significativo di assimilazione generale alla malattia. Il malato è il solo emar­ginato per il quale la colpevolezza si dissocia, con evidenza, dalla disgrazia. Egli è l'oggetto di disgrazia pura, egli è «lo scusato». Ora, il pro­cesso che noi vediamo svolgersi sotto i nostri occhi riguardo agli emarginati è ben caratteriz­zato, fondamentalmente dalla scusa, la messa «fuori causa» attraverso, se posso dirlo, la «messa in causa», l'assegnazione alla regola di funzionamento patologico.

La pazzia aveva aperto la via; anche la delin­quenza è adesso una malattia; un caso sociale è il prodotto di una malattia sociale.

Se poniamo così la malattia «in tutte le sal­se», è perché essa è il solo espediente attra­verso il quale l'emarginazione può essere rein­trodotta nella collettività mediante uno statuto ambiguo. È significativo tra l'altro che al binomio normale-anormale, nettamente diviso, che era prima in evidenza, si sostituisca il binomio «adattato-disadattato», con il sottinteso che noi siamo tutti più o meno disadattati. Il concetto di disadattamento rappresenta il recupero della continuità tra la malattia e la normalità.

Offrire prodotti di consumo, è trovare nuovi consumatori, è anche inventare nuovi bisogni; la gamma dei bisogni economici, che non era cambiata in nulla durante i secoli, si allarga in modo considerevole da alcuni decenni, e qual­che volta si ritrova un bisogno economico là dove meno lo si aspettava: bisogno di svaghi, bisogni affettivi, per esempio. Se si parla tanto di affettività, è perché essa incomincia a com­parire come bisogno economico solvibile, e la prova è che si pagano degli educatori per far consumare «tenerezza», «affettività», «rela­zioni» ai bambini e agli adulti.

L'affettività è dunque diventata un fatto socio-­economico nuovo.

In questo contesto, la famiglia cambia signi­ficato. Priva della funzione produttiva, priva del monopolio della trasmissione culturale, per la semplice ragione che il cambiamento è troppo sensibile da una generazione all'altra, la famiglia diventa il luogo per eccellenza del consumo af­fettivo. Essa è il luogo dove si è a proprio agio, dove ci si occupa dei bambini, e si è qui tanto lontani dalla famiglia come simbolo della pro­prietà privata, quanto dalla famiglia come unità di produzione artigiana. La famiglia è diventata il luogo «dell'ammaternamento».

C'è d'altronde un intimo rapporto, tra questo nuovo bisogno fra tanti altri, e il movimento ge­nerale d'estensione dei bisogni, poiché l'affet­tività è in effetti il luogo del desiderio.

E noi siamo in un mondo in cui regna il desi­derio. Lo conferma un fatto molto simbolico: la reintegrazione della sessualità, terreno proibito per eccellenza, tra i fatti di cui pubblicamente si parla, di cui si parla per privilegio, reintegra­zione che non per caso è associata alla sua uti­lizzazione massiccia come veicolo pubblicitario, cioè come strumento d'incitamento ai consumi. Tutto si collega.

Per terminare vorrei sottolineare che, in que­sto contesto, religiose e religiosi cercano, non senza disorientamento, il loro posto. Poiché le ragioni specifiche, che io ho prima richiamato e che davano loro il quasi monopolio del controllo degli emarginati, vanno sparendo rapidamente e ineluttabilmente.

In quanto religiosi, il nuovo sistema non li privilegia e nemmeno li elimina: li considera co­me gli altri. La crisi è tanto più profonda in quanto anche nello stato religioso, appaiono esattamente le stesse linee di frattura che ho descritto all'inizio a proposito degli «Istituti per minori privi di famiglia normale».

Ma non è il nostro problema, oggi. Queste incrinature, noi possiamo ricordarle ora, e la loro coerenza apparirà evidente:

- Presa di coscienza dei bisogni affettivi: sviluppo e allargamento qualitativo del consumo.

- Apertura al mondo: reintegrazione degli esclusi nella massa dei consumatori.

- Imitazione del modello familiare e legame con la famiglia reale: luogo privilegiato del consumo affettivo.

- Generalizzazione del modello medico-psi­cologico: legato alla figura dell'emarginato, scusa e og­getto privilegiato di cure.

- Operatori sociali normalmente salariati: integrati nei circuiti economici.

- Importanza del tempo libero: altra estensione di massima importanza del cam­po dei consumi.

 

 

 

 

(1) Professore alla Facoltà di Lettere e Scienze uma­ne dell'Università di Lione. Relazione tenuta al VI Collo­quio internazionale della Commissione Istituzioni e Comu­nità per minori privi di ambiente familiare normale (Roma, 5-10 aprle 1970). La Redazione ringrazia Mons. G.P. Car­rol-Abbing, Presidente della stessa Commissione, che ha gentilmente concesso la pubblicazione della traduzione eseguita a cura della Rivista.

(2) Luciano Fraisse è stato relatore allo stesso Col­loquio Internazionale, su tema: «La risposta della Chiesa ai bisogni dei ragazzi privi di ambiente familiare normale. Il senso attuale della carità».

 

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