Prospettive assistenziali, n. 14, aprile-giugno 1971

 

 

NOTIZIE

 

 

«PER UNA RIFORMA DELL'ASSISTENZA NEL QUADRO DI UNA POLITICA REGIONALE DEI SERVIZI SOCIALI»

 

Su questo tema, per iniziativa del Comitato Lombardo per i problemi degli handicappati e dei disadattati, ha avuto luogo a Milano presso il Piccolo Teatro, Via Rovello 2, il 17 aprile c.a. un Convegno.

Il Comitato promotore era composto da: AGN (Associazione Gaetano Negri); AIAS (Associa­zione Italiana Assistenza Spastici); ANFFAS (As­sociazione Nazionale Famiglie Fanciulli Subnor­mali); ANIEP (Associazione Nazionale Invalidi Poliomielitici); ASCOMIN (Associazione Comu­nità Invalidi); UILDM (Unione Italiana lotta di­strofia muscolare); Centro Neurolesi Giuliano Giuliani - gruppo sperimentale L.G.; Gruppo Assi­stenza Minori di Varese; Gruppo S. Marini di Trento; Unione Femminile Italiana; Lombardia Domani; Centro di Cultura G. Puecher; Relazioni Sociali; ACLI; CIF; UDI; DC; PCI; PLI; PSDI; PSI; PSIUP.

Coordinatore: Dott. Giacomo De Antonellis.

Ha aperto il convegno il prof. Carlo Trevisan con una relazione generale sul tema del Con­gresso.

Sono quindi seguite le relazioni dei quattro gruppi di lavoro:

 

1° - Nella I parte la relazione su «Ricerca e prevenzione» ha affrontato il tema della «anor­malità», i cui criteri vengono enormemente am­pliati in una società basata su una sempre mag­giore competitività, la cui ideologia esalta l'effi­cienza e la produttività.

Inoltre gli squilibri economici e sociali, l'emi­grazione di massa, la pendolarità, la distruzione dei rapporti sociali nelle campagne, la congestio­ne delle grandi città industriali, sono tutti feno­meni che causano e accentuano il disadatta­mento.

È quindi importante nel campo della ricerca aver chiaro l'obiettivo di una conoscenza più sistematica ed approfondita sulla genesi e sulla evoluzione dei fenomeni morbosi sia fisici che psichici, che portano a qualsiasi forma di disa­dattamento e sulle reazioni che il corpo sociale ha rispetto a tali fenomeni.

La prevenzione quindi si può articolare in due momenti distinti, sebbene collegati tra di loro; la prevenzione primaria volta alla lotta contro le cause del disadattamento, lotta affidata alla poli­tica in generale e a tutte le forze sociali, com­presi i tecnici del settore.

La prevenzione secondaria volta a prendere tutte le misure, tecnicamente oggi possibili, contro la tendenza della società a emarginare ed isolare in ghetti sia gli handicappati sia i disadattati, per lo più ritenuti e resi tali dalle strutture della nostra società.

La relazione conclude con una serie di norme legislative che devono regolare l'intervento so­ciale affidato alla Regione.

 

2° - Relazione su «Istituto e alternativa all'isti­tuto».

Dopo un'ampia esposizione corredata da dati sull'istituzionalizzazione nell'attuale gestione as­sistenziale, come punto d'arrivo dell'intervento, la relazione pone l'accento su quelle che pos­sono essere le alternative all'istituto, negando l'istituto custodialistico e l'istituzione totale chiusa; il ricovero deve nascere da una valuta­zione la più ampia e seria possibile del bisogno e in quanto a intervento sia ad esso proporzio­nato e finalizzato, miri cioè al suo trattamento e superamento.

Nel breve, medio periodo sembra si possa la­vorare in due sensi:

A) Per coloro che non sono ancora ospiti in istituto: mettere l'handicappato in condizione di poter vivere in famiglia:

1) Un servizio domiciliare gratuito operi nel­la zona e una équipe comprendente medico, psi­cologo, infermiere, educatore, assistente socia­le, dovrà sviluppare il suo compito in due dire­zioni: sviluppare essa stessa il servizio richiesto - preparare, sensibilizzandolo o responsabiliz­zandolo, l'ambiente della zona perchè sappia af­frontare con conoscenza i vari problemi e com­pletare volontariamente il servizio necessario.

2) Formazione di strutture educative riabili­tanti possibilmente in ciascuna zona o in zone limitrofe, in modo che l'handicappato «viva» e si riabiliti nella zona in cui dimora e fra la gente che domani lo potrà aiutare.

3) Preventivare interventi finanziari agli han­dicappati (sotto forma di assegni mensili o si­mili) assolutamente privi di possibilità di gua­dagno: interventi finanziari adeguati alle sue ne­cessità effettive e diverse, a seconda degli han­dicaps, e al reale costo della vita: per tutto il periodo e solo per quello del suo effettivo stato di bisogno.

4) Sperimentare e avviare comunità, gruppi familiari locali, seguiti dalle équipes zonali che possono sostituire in modo adeguato la famiglia carente o mancante.

5) Appoggiare temporaneamente, vale a dire per l'arco di tempo richiesto per la riabilitazione specializzata, il soggetto particolarmente biso­gnoso, in età di obbligo scolastico o plurihandi­cappato, ad istituti aperti temporanei che ripe­tano il più possibile il clima ed il ritmo familiare.

 

B) Per gli ospiti di istituti di tipo internato per­manente:

1) Una speciale commissione zonale o locale vaglierà le richieste di ricovero per valutare se questa è veramente l'unica possibile soluzione per venire incontro a quel tipo di bisogno.

2) Gli istituti dovranno programmare la loro ristrutturazione interna per meglio adempiere al servizio richiesto e valorizzare al massimo anche le più piccole possibilità delle persone ospitate, vale a dire:

a) riunire gli ospiti in piccoli gruppi fami­glia;

b) valutare più scientificamente i problemi di convivenza all'interno dell'istituto;

c) preparare nell'interno il personale onde sia in grado non di improvvisare, ma di compiere con competenza ed umanità il compito richie­stogli.

3) Potenziare l'apertura alla società nei due sensi, cioè dall'interno verso l'esterno e dall'e­sterno verso l'interno, onde arrivare a una mag­giore socializzazione degli ospiti, creare stimo­lazioni di interessi più vivi che li aiutino a for­marsi o ricostruirsi o consolidarsi una persona­lità e a renderli partecipi, per alcuni di fatto, e per altri sul piano della solidarietà umana, della società.

 

3° - Relazione «Formazione del personale».

Dopo una breve esposizione della situazione attuale in Italia che denuncia la carenza del per­sonale specializzato soprattutto nel settore sani­tario, la relazione verte sull'azione che la Regio­ne è chiamata a svolgere per la preparazione del personale che deve essere rivolta in primo luogo alla soluzione del gravissimo problema costituito dalla carenza pressoché assoluta di tecnici in­termedi.

A questo fine si suggerisce:

a) Sollecitare la promulgazione di una legge a livello nazionale che delimiti la figura e le mansioni dei tecnici e conferisca ad essi ricono­scimento giuridico.

b) In attesa di una legge organica nazionale, la Regione può istituire fin d'ora una serie di centri per la formazione di educatori specializ­zati, fisioterapisti, assistenti sociali e sanitari, logopedisti, orientatori professionali, maestri di lavoro.

Questi centri provvedano pure alla prepara­zione dell'altro personale necessario per i servizi sanitari, psichiatrici, socio-assistenziali. Ad essi sia demandato anche il compito importantissimo dell'aggiornamento periodico obbligatorio dei te­cnici e degli educatori.

I centri devono stabilire una costante collabo­razione con i Comuni, le Università, gli Enti e le Associazioni che operano nella Regione, al fine di creare le condizioni ottimali per il loro funzionamento, l'inserimento lavorativo degli allievi, l'elevato livello della formazione impartita.

In attesa di una soluzione organica nazionale la Regione potrebbe demandare ai Centri di cui sopra il compito di tenere seminari, tavole roton­de, corsi informativi presso scuole e università.

Infine la Regione deve curare una corretta sen­sibilizzazione dell'opinione pubblica e promuove­re la collaborazione della collettività alla solu­zione del problema socio-assistenziale.

Il professionista deve sapere intervenire non solo sui soggetti in particolari situazioni, per es. di disadattamento, ma anche sull'ambiente: fa­miglia, scuola, fabbrica, quartiere, quale concau­sa del disadattamento e del ricupero. Gli inter­venti così finalizzati e inquadrati, non potranno naturalmente essere settoriali, ma conseguenti a un lavoro di équipe e di coordinamento in cui saranno coinvolti e corresponsabili tutti i pro­fessionisti, come esperti, e la comunità come cogestore.

 

4° - Relazione su «Unità locale dei servizi».

Una prima parte è dedicata alla denuncia delle carenze nel sistema assistenziale attuale met­tendone in evidenza la discrezionalità, il taglio classista, la strumentazione emarginante, la ge­stione centralizzata burocratizzata e frammenta­ria, che determina sovrapposizioni e vuoti; im­personalità, deresponsabilizzazione.

Non si vede come una politica dei servizi possa essere programmata e gestita indipendentemen­te da una politica sanitaria, da una politica sco­lastica e ,culturale, da una politica del tempo libero, da una politica della casa e del territorio. E questo non solo a livello nazionale o regionale, ma proprio a livello dell'ente locale, dove ap­punto diversi interventi devono produrre una ri­sposta organica, globale, unitaria alle attese so­ciali.

Il diritto alla salute, ai servizi sociali, al lavoro, all'istruzione, al tempo libero, rappresenta un complesso interdipendente di diritti che il citta­dino deve esigere in modo unitario e globale. L'adeguatezza della risposta non può essere ga­rantita dalla concertazione e dall'autocoordina­mento degli organi settorialmente responsabili, come l'esperienza insegna, ma solo dall'inquadra­mento dei diversi servizi in un'unica struttura, programmata e controllata dall'ente locale, che

deve godere di adeguata autonomia, potere ed elasticità di gestione.

Suscita perciò ampie perplessità la costituzio­ne di fondi nazionali settoriali. Se loro scopo era quello di garantire certe risorse finanziarie ad iniziative di riforma di grande rilevanza sociale, ove tale impostazione venisse riproposta con ri­ferimento ai vari servizi e si ponesse come per­manente, ogni autonomia di ripartizione della spesa a livello regionale e locale verrebbe meno, cristallizzandosi una rigidità di bilancio contro­producente sia in ordine all'ottimizzazione delle prestazioni come in ordine alla valorizzazione delle possibilità offerte dalle autonomie degli enti regionali e locali.

D'altra parte non si può non temere anche un ulteriore svuotamento dell'ente locale, ridimen­sionato di volta in volta nella sua funzione poli­tica da strutture che possono anche contemplare momenti di partecipazione democratica, ma che rimangono settoriali. Si arriverebbe così ad una serie di istituzioni rappresentative a competenza circoscritta, con la conseguente definitiva rinun­cia ad una programmazione davvero democratica dei servizi nel loro complesso, come compito qualificante e rivitalizzante di un ente locale ripensato e riformato, anche in funzione di tale compito, nelle sue dimensioni, nella sua organiz­zazione, nel suo rapporto con la collettività.

Per promuovere un assetto istituzionale fun­zionale ad una qualificata offerta dei servizi oc­corre sollecitare uno strumento legislativo che ad un tempo adempia alla funzione di legge di riforma e di legge cornice, per il trasferimento delle dovute competenze alle Regioni.

Senza questo trasferimento infatti le Regioni incontrerebbero sulla loro strada tutto l'attuale sistema e verrebbero così ridotte ad un ruolo integrativo e subalterno rispetto agli altri circuiti assistenziali, degli enti parastatali, statali e lo­cali, che continuerebbero ad esistere ed operare per loro conto, svincolati da ogni coordinamento, cui si opporrebbero non solo interessi specifici, ma le stesse leggi istitutive dei singoli enti, e magari lo stesso flusso di finanziamenti statali, ancora indirizzato ai vari enti nazionali.

Si passa quindi ad analizzare la necessità dell'istituzione di Unità locali dei servizi sociali, co­me struttura tecnico-organizzativa di base, ge­stita direttamente dal Comune, dalle Zone di de­centramento urbano, dal Consorzio obbligatorio di piccoli Comuni delle aree a insediamento di­sperso, idonea a garantire in modo partecipato, organico, efficiente le infrastrutture comunitarie e le prestazioni necessarie all'autosufficienza ed alla socializzazione dei cittadini.

Quanto alle modalità di gestione politica, da parte degli enti locali, delle Unità locali dei ser­vizi sociali, andranno unificate, a livello degli organismi deliberativi di Comune e di Consorzio di Comuni, le decisioni in merito alla formazione dei programmi dei servizi sociali, alla ripartizio­ne della spesa e alla valutazione dei risultati relativi. A tal fine dovranno essere identificati organismi di gestione politica settoriale, dotati di un certo margine di autonomia amministrativa e di iniziativa programmatoria, nel quadro delle linee indicate. La gestione dovrà comunque rea­lizzare accanto alla maggiore organicità anche il massimo di democraticità.

Si potrebbe anche pensare di affiancare all'or­gano politico di gestione un comitato con funzio­ni di stimolo e controllo, composto secondo cri­teri della massima elasticità: rappresentanti di quartieri o frazioni, di forze sociali, di categorie di utenti diretti dei servizi, delle loro famiglie, ecc. designati anche, volta a volta, per i singoli problemi trattati.

Un ultimo aspetto da affrontare concerne la partecipazione democratica a livello di base con esperienze e forme che vadano oltre il momento strettamente elettorale.

Ma occorre anche avviare esperienze propria­mente di autogestione che potrebbero essere promosse sia nelle zone in cui l'Unità locale po­trebbe essere divisa, rispetto alle prestazioni erogate a quella dimensione, sia in ordine a sin­goli servizi, coinvolgendovi gli utenti, ma cercan­do di trovare un collegamento con la realtà so­ciale in cui vivono.

Promuovere queste esperienze di base non è certo compito degli organi pubblici: nascerebbe­ro male, avvilite in partenza. Le pubbliche istitu­zioni devono aprire gli elementi conoscitivi e la disponibilità al confronto. Toccherà alle forze sociali, sindacali, politiche, alla spontaneità di base, alla autopromozione di autorganizzazione dei cittadini interessati avviare e consolidare tali esperienze con un significato generale di maturazione civile e politica.

 

Riportiamo, infine:

L'ordine del giorno conclusivo.

Il Comitato Promotore del Convegno, preso atto di quanto anche emerso dal dibattito, richia­ma con urgenza l'attenzione dell'opinione pubbli­ca e delle forze politiche sulla necessità di una radicale riforma del sistema assistenziale. Que­sta riforma è resa tanto più necessaria dalla ca­renza di intervento in una molteplicità di situa­zioni che sono fonti non solo di disadattamento, ma anche di malattie e minorazioni fisiche e psi­cologiche vere e proprie. Situazioni diffuse ed aggravate dall'assenza delle strutture necessarie per garantire il diritto alla salute, dal persistere di condizioni di lavoro lesive della personalità e dell'integrità fisico-psichica del lavoratore, dagli squilibri economici territoriali con i conseguenti fenomeni di emigrazione di massa, dall'autorita­rismo e la selezione classista della scuola, dallo sviluppo caotico delle aree metropolitane, prive delle indispensabili infrastrutture.

Nella società attuale gli invalidi, gli handicap­pati, i minorati, i disadattati, i minori privi di assi­stenza familiare, gli anziani vengono emarginati e isolati in ghetti. Questo è frutto non solo delle disfunzioni del sistema assistenziale, messi an­che in luce dai recenti scandali giudiziari, ma della sua stessa impostazione. Vogliamo in parti­colare richiamare la finalità di controllo sociale per la difesa dell'ordine esistente, la discrezio­nalità che si presta alla utilizzazione clientelare, il taglio classista, la strumentazione emarginante per istituzioni chiuse, lesive della personalità dell'assistito, la gestione burocratizzata, centra­lizzata e frammentaria. Risulta perciò chiara l'as­soluta inaccettabilità di un semplice migliora­mento di un sistema legato ad una concezione segregativa e di «beneficenza» che si presta ai più gravi abusi. Occorre una radicale riforma ispirata ai principi dello sviluppo della persona­lità di ogni cittadino e della sua socializzazione, intesa come valorizzazione della diversità.

Questo è quanto viene anche sancito dagli articoli 1, 2, 3, 4, 36, 38 della Costituzione.

A questo scopo il comitato promotore chiede che:

1) La riforma assistenziale realizzi un nuovo rapporto tra singolo e collettività, sulla base del­la responsabilità di quest'ultima, nei confronti di tutti coloro che sono in condizioni di difficoltà o di bisogno, e con la partecipazione di tutti ad esperienze democratiche ed autogestite di pre­stazione dei servizi.

A questo scopo deve essere garantito a cia­scuno il minimo vitale per un'esistenza dignitosa, saldato ad interventi di sostegno alle iniziative di ogni tipo che contribuiscano al reinserimento nella vita sociale.

2) La riforma assistenziale sia fondata su una profonda trasformazione delle strutture socio­politiche italiane: una diversa impostazione della programmazione dello sviluppo economico, una politica della sanità e della sicurezza sociale, una politica di riorganizzazione del territorio, della scuola, della casa e del lavoro, in modo da svi­luppare una modifica del sistema assistenziale che vada di pari passo con le altre riforme, e in particolare con quella sanitaria. Tale trasforma­zione non può essere finalizzata solo alla razio­nalizzazione e funzionalizzazione del settore dell'assistenza e dei settori della politica sociale, ma deve mirare a due obbiettivi strettamente in­trecciati:

- il superamento dell'emarginazione come meccanismo sociale insito nella logica del si­stema;

- il superamento del classismo - non ab­biamo paura di chiamarlo col suo nome - dello sfruttamento e strumentalizzazione di coloro che hanno meno, da parte di coloro che hanno di più.

3) La riforma assistenziale si inserisce in un articolato sistema di servizi sociali per tutti:

- aperti

- gratuiti

- capaci di rispondere unitariamente alle esigenze e ai bisogni della persona, considerata nel suo ambiente familiare e sociale.

Strumento tecnico ed organizzativo di tale si­stema è l'unità locale dei servizi, la cui azione è programmata e gestita dalle Amministrazioni lo­cali (Comuni, Consorzi di Comuni, valorizzando anche le istituzioni del decentramento democra­tico nelle zone metropolitane) che dovranno a loro volta essere adeguate nelle strutture, nei poteri e nelle dimensioni alle nuove esigenze di una gestione politica unitaria dei servizi, anche attraverso la riforma della legislazione comunale e provinciale.

Alle stesse dimensioni territoriali e allo stesso controllo democratico vanno pertanto ricondotti gli strumenti tecnico-organizzativi relativi agli altri settori e - in primo luogo - le unità sani­tarie locali.

4) Immediato passaggio (a termini di Costi­tuzione) dei compiti di legislazione e program­mazione nel campo dell'assistenza alla Regione, nonché delle funzioni di amministrazione, che la Regione eserciterà mediante delega agli Enti locali.

5) Soppressione di tutti gli Enti pubblici assi­stenziali nazionali e locali e devoluzione alle Re­gioni dei relativi patrimoni.

6) Riunificazione di tutte le competenze assi­stenziali disperse fra i diversi Ministeri, che non rientrino già nelle competenze regionali, in un centro politico responsabile, che non sia orga­nizzato burocraticamente (no alle direzioni gene­rali!) e che comunque non sia il Ministero degli Interni.

7) Riunire le risorse pubbliche oggi destinate a finalità assistenziali e loro redistribuzione im­mediata alle Regioni, evitando l'istituzione di fondi nazionali che dividano in rigide categorie le prestazioni assistenziali, sanitarie, ecc. ridu­cendo così le autonomie locali.

All'interno del processo di riforma generale dei servizi assistenziali e sociali, chiediamo in particolare:

1) Controllo da parte della Regione, dei Co­muni e delle unità locali sulle condizioni sanita­rie ed ambientali, sulle case, sulle fabbriche e sulle scuole.

2) Abolizione degli istituti chiusi e creazione di istituti aperti con ospitalità temporanea legata a situazioni di emergenza, che ripetano il più possibile il clima ed il ritmo familiare. Ristruttu­razione interna degli attuali per i casi gravissimi.

3) Centri locali di riabilitazione e qualifica­zione professionale in rapporto a determinati handicaps.

4) Abolizione delle classi differenziali e delle scuole speciali.

5) Liberalizzazione delle visite in ospedale, e mediatamente anche negli istituti, specie per bambini.

6) Promozione dell'adozione e dell'affidamen­to, superando l'ostruzionismo degli istituti e le resistenze burocratiche.

7) Azione politica per la depenalizzazione della rieducazione minorile.

8) Proposta regionale lombarda per una legge nazionale circa la figura e le mansioni dei tecnici.

9) Centri regionali per la formazione di edu­catori specializzati, fisioterapisti, assistenti so­ciali, assistenti sanitari, logopedisti, orientatori professionali, maestri di lavoro e tutto il perso­nale per i servizi sanitari, psichiatrici, socio­assistenziali. Questi centri avranno il compito del periodico aggiornamento dei tecnici e degli educatori. Integrazione nelle facoltà di medicina di materie riguardanti la riabilitazione e il disa­dattamento.

10) Servizio domiciliare locale gratuito. Strut­ture educative e riabilitanti locali.

11) Sostegno alle sperimentazioni sociali in tutti i campi del disadattamento facilitando la costituzione di piccole comunità e di gruppi fami­liari locali.

12) Indagine sistematica, promossa e finan­ziata dalla Regione e svolta in collaborazione con le forze interessate e con le istituzioni locali, per individuare le situazioni di handicaps, la loro origine e gli interventi atti a prevenirli e fronteg­giarli.

13) Promozione di indagini e di interventi sull'applicazione delle attuali norme sulla assun­zione obbligatoria degli invalidi.

 

 

DAGLI SCANDALI DEGLI ISTITUTI ALLA RIFORMA DI TUTTO IL SETTORE ASSISTENZIALE

 

Il Comitato Lombardo per i Problemi degli Handicappati e Disadattati (20139 Milano - Viale Brenta, 7 - Tel. 53.90.798), del quale fanno parte oltre che l'Associazione Nazionale Famiglie Fan­ciulli Subnormali (ANFFAS), l'Associazione Na­zionale Famiglie Adottive (ANFA), e numerosis­sime altre Associazioni, fra le quali in particolare l'Unione Italiana per la Promozione dei Diritti del Minore, che per prima ha denunciato la cata­strofica situazione dell'assistenza in Italia, si è riunito in assemblea straordinaria presso la Sede dell'ANFFAS, ed ha puntualizzato quanto segue:

Mentre le indagini svolte dalla Magistratura sugli Istituti di assistenza all'infanzia e i recenti scandali riguardanti la gestione dell'ONMI hanno evidenziato una situazione in cui si trova in realtà non solo l'ONMI, ma tutto il settore assistenzia­le, è necessario affermare che si tende ancora una volta a limitare il problema esclusivamente alle responsabilità di alcune persone od istituti, concentrando così esclusivamente alcune delle disfunzioni dell'attuale sistema assistenziale.

Riducendo il discorso a questi fatti che avreb­bero potuto già da tempo essere eliminati con un maggiore senso di responsabilità da parte delle autorità tutorie (Ministro degli Interni, Ma­gistratura), si manifesta la chiara volontà poli­tica di non procedere alla radicale riforma dell'assistenza in Italia.

In realtà l'attuale inefficienza del sistema assi­stenziale è imputabile oltre che a precise respon­sabilità di singoli enti e persone, principalmente al frazionamento delle prestazioni assistenziali e al numero eccessivo di Enti (più di 40.000), per cui le conseguenze sono:

- impossibilità di coordinamento;

- impossibilità di fornire al cittadino delle pre­stazioni continue;

- conflitti di competenze;

- prestazioni non in funzione del bisogno, ma delle categorie di appartenenza.

Tutto ciò concreta l'impostazione di fondo del sistema assistenziale bene espresso e conden­sato dal Ministero degli Interni nella relazione al Bilancio dello Stato del 1969: «l'assistenza pubblica ai bisognosi ... racchiude un rilevante in­teresse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari».

Si perpetua così una concezione di assistenza in termini di emarginazione e di operazione «po­liziesca».

Una reale riforma dell'assistenza deve, al con­trario, incentrarsi su alcuni criteri di fondo:

1) gestione diretta da parte dei cittadini dei servizi sociali, unica possibilità di garantire un effettivo controllo dei servizi offerti ai cittadini;

2) abolizione delle categorie di assistiti;

3) unificazione degli interventi in materia as­sistenziale;

4) attribuzione unicamente agli Enti locali di ogni competenza operativa nel settore assisten­ziale.

Pertanto si chiede che:

1°) vengano soppressi tutti gli Enti assisten­ziali (ONMI, ENAOLI, Ente Nazionale di Assi­stenza Orfani Zone di Confine e gli altri 39.946), i quali, in quanto strumenti burocratici sottratti ad ogni effettivo controllo, sono strutturalmente incapaci di svolgere i compiti loro affidati;

2°) vengano sottratti al Ministero degli In­terni tutti i compiti relativi all'assistenza, non essendo questo un affare di ordine pubblico;

3°) tali competenze siano trasferite ad un mi­nistero dei servizi sociali e sanitari e alle Re­gioni (per quanto riguarda funzioni di program­mazione, coordinamento e alta vigilanza).

 

 

CONVEGNO NAZIONALE ORGANIZZATO DALLO SNASE SULLE SCUOLE SPECIALI E SULLE CLASSI DIFFERENZIALI

 

A Parma nei giorni 26 e 27 aprile si è svolto un Convegno nazionale, organizzato dal Sinda­cato Nazionale Autonomo Scuola elementare sul tema «Scuole speciali e classi differenziali».

Pubblichiamo il documento conclusivo del Convegno, una sintesi delle relazioni del prof. Marco Walter Battacchi e dott. Pietro Cavallini, l'intervento dell'assistente sociale Iole Sosso Meo, che ha partecipato ai lavori a nome dell'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore, e un documento presentato al Conve­gno dalla Associazione per la lotta contro le malattie mentali, sezione di Parma.

 

Il documento conclusivo

Il Convegno Nazionale del SNASE, riunitosi in Parma nei giorni 25-26 aprile 1971 per esaminare i problemi relativi alla «scuole speciali e classi differenziali», presa visione della legge 30 mar­zo 1971, n. 118, deplora che il Ministero della P.I. si sia mantenuto estraneo a un provvedimen­to che contiene anche norme che interessano direttamente e specificatamente la scuola.

Il Convegno, dopo ampia e approfondita di­scussione, anche tenendo conto della legge 30 marzo 1971, n. 118, e in particolare degli artt. 2 e 28, che affermano che per i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, compresi gli irregolari psichici, da insufficienze mentali deri­vanti da difetti sensoriali e funzionali, l'istru­zione dell'obbligo avvenga nelle classi normali della scuola pubblica,

Constatato

che la classe differenziale ha disatteso le aspet­tative di una gran parte di coloro che ne avevano chiesto l'istituzione;

Considerato

anche il parere di uomini di scienza, medici - psi­cologi - sociologi e pedagogisti, conviene che:

si proceda alla sospensione immediata della istituzione di nuove classi differenziali, in ottem­peranza agli artt. 2 e 28 della legge 30 mar­zo 1971, n. 118, e all'assorbimento nelle sezioni di scuola normale delle classi differenziali, at­tualmente esistenti, in un arco di 3 anni;

nel frattempo, nei plessi scolastici, ogni 5 classi o frazione superiore a 2, sia istituita una sezione di interclasse, e il numero massimo per ogni classe non sia superiore a 20 alunni;

ogni gruppo di 5 classi normali sia coadiuvato da equipe di specialisti impegnati a tempo pieno (psico-terapista, logopedista, fisioterapista, ecc.), che provveda alla rieducazione degli alunni di­sturbati nel carattere, nel linguaggio e nella motricità.

I partecipanti al Convegno sostengono la ne­cessità delle classi speciali per gli handicappati di qualsiasi tipo, i quali non possano trarre van­taggio dall'inserimento in classi normali, classi che non devono più agire isolatamente fuori dalla vita comunitaria.

I partecipanti al Convegno indicano come so­luzione ottimale il funzionamento delle classi speciali nelle scuole comuni oppure in plesso staccato ma inserito in un comprensorio costi­tuente un centro culturale a pieno tempo (insie­me di varie scuole, centro sociale giovanile, biblioteca, cineclub, palestra, campi gioco).

Invitano il Governo e il Parlamento, in cor­relazione alla citata legge n. 118, alla presenta­zione sollecita di provvedimenti per dare attua­zione a quanto proposto.

Chiedono che sia organizzato, in ottempe­ranza al D.P.R. 22 dicembre 1967, n. 1518 (Rego­lamento sui servizi di medicina scolastica), da­gli enti locali (regione, provincia, comune e con­sorzi di comuni) un servizio medico psico-peda­gogico su basi scientifiche e a tempo pieno che agisca non avulso dall'attività pedagogico-didat­tica della scuola ove è chiamato a operare.

Ravvisano l'esigenza che il personale inse­gnante trovi la sua qualificazione in sede univer­sitaria e sia chiamato a periodico aggiornamen­to, sempre in sede universitaria.

Auspicano che il Ministero della P.I., anche a testimonianza della volontà politica del Gover­no, presenti sollecitamente al Parlamento il di­segno di legge il cui schema è stato sottoposto al parere della 3ª Sezione del Consiglio Supe­riore della P.I. nel dicembre del 1969, schema che potrà preventivamente essere migliorato e comunque perfezionato in sede di discussione parlamentare.

Auspicano la riforma democratica della scuo­la, anche mediante la sua trasformazione in scuola integrata a pieno tempo, l'abbattimento delle strutture gerarchiche, il decentramento am­ministrativo e la gestione effettiva della scuola da parte di tutte le componenti operanti nelle comunità locali.

I partecipanti al Convegno impegnano il SNASE a promuovere tutte le iniziative che portino verso l'attuazione di quanto contenuto nel presente do­cumento.

 

Relazione del prof. Battacchi

Premesso che parlerà non tanto nella sua qua­lità di docente universitario quanto in quella di operatore di psicologia nel settore delle clas­si differenziali (egli è membro della Commis­sione provinciale di Bologna per le classi diffe­renziali), perché il problema posto all'attenzione del Convegno è di ordine pedagogico e politico più che di livello scientifico, afferma che è ma­turo il tempo per l'abolizione delle classi diffe­renziali per un complesso di motivi: la risonanza che ha questo tipo di discriminazione; la loro inefficienza; lo sfruttamento di questi interventi da parte di enti che gestiscono il trattamento speciale; l'impossibilità di stabilire criteri scien­tifici per un serio reperimento degli alunni; in­fine la conservazione delle classi differenziali può costituire un alibi per non realizzare la ri­forma della scuola.

Mentre questi motivi militano a favore della soppressione delle classi differenziali, si potreb­be anche affermare che - richiamandoci all'e­sperienza esistenziale vissuta da Freud, discri­minato in quanto ebreo - la segregazione nella classe differenziale determina nella psiche dell'alunno un potenziale di reazioni sociali vera­mente enorme e che in ogni caso può provocare una immaturità sociale. Ma il carattere discrimi­natorio della classe differenziale ha assunto un tono traumatizzante per le famiglie quando è stata definita un «ghetto» e non si sono contem­poraneamente avanzate soluzioni alternative, che bisogna proporre perché la semplice eliminazio­ne delle classi differenziali non costituisce di per sé la soluzione. Anche se e quando la scuola diventerà integrata esisterà sempre un margine per un intervento specializzato, ma saranno ne­cessari l'intervento degli enti locali anziché di altri enti, la partecipazione delle famiglie, la ri­duzione del numero degli alunni per classe, pro­grammi elastici, collaborazione fra insegnanti ed équipe, diffusione della scuola materna. In classi normali di non più di 15 alunni potrebbero essere inseriti alunni ora avviati alle classi differenziali, ma dovrebbero essere istituiti corsi di psicote­rapia, ecc. e istituzionalmente gli interventi di specialisti e di insegnanti psicoterapeuti.

 

Relazione di Cavallini

Premesso che non solamente la medicina, la psicologia o la sociologia si devono occupare del problema in esame, ma anche e soprattutto la pedagogia e la didattica e fondamentalmente la politica, perché le soluzioni vanno ricercate a livello politico, il relatore afferma che i fanciulli subnormali devono, in generale, essere inseriti nelle scuole normali per socializzarli, per to­glierli dall'angoscia e dalla segregazione, men­tre le associazioni che ne tutelano gli interessi devono uscire dal loro settorialismo e dai loro gretti esclusivismi scarsamente produttivi di ri­sultati. «Diciamo no alle corporazioni. Se en­triamo in un centro per spastici, vediamo bam­bini costretti a restare in quella prigione anche se sono dotati di intelligenza normale o quasi. Ho avuto occasione di trasferire, nonostante le resistenze, uno spastico in una classe normale: egli si è inserito nella normalità».

Troppo spesso i centri medico-psico-pedago­gici non operano a vantaggio dei subnormali ma a proprio vantaggio. «Basta con i centri improv­visati, funzionanti a gettoniera. Affidiamo ai co­muni, alle province, alle regioni il compito di istituire questi centri e con personale a tempo pieno. E al personale medico si dia pure il trat­tamento riservato agli ospedalieri». Anche la coscienza popolare è matura per una soluzione adeguata. Ricorda che in passato anche la plu­riclasse era stata esaltata, quindi ancora esi­stono i difensori delle «differenziali» e delle classi speciali segregate. «Ma come si fa a cu­rare una piantina togliendola dal suo ambiente naturale, mettendola in una serra per poi farla morire quando la si espone alle intemperie?». Compiaciutosi per l'aperto atteggiamento assun­to dall'AIMC, da qualche associazione e anche da alcuni settori della stampa quotidiana, cita una vasta documentazione e i dati risultanti da un'apposita indagine svolta sul piano nazionale dallo SNASE.

«No alle differenziali, ma anche alle classi nu­merose. Vogliamo i maestri di rotazione. Il bam­bino non deve essere additato quale deficiente né in classe né fuori di essa. Non vogliamo più lo sconcio di classi con tre alunni, ma vogliamo classi di 15 e al massimo di 20 alunni: si evi­terà o si ridurrà il formarsi di alunni disadattati anche per colpe della scuola e in esse potranno essere distribuiti i bambini che ora vengono av­viati alle differenziali».

Cavallini a questo punto ha richiamato l'atten­zione del Convegno sulla legge 30 marzo 1971, n. 118, contenente nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili, sottolineando in par­ticolare il fatto che, mentre la legge detta anche norme relative ad alcuni aspetti dell'ordinamento scolastico, il Ministro della P.I. ne è rimasto bea­tamente estraneo. (Il concerto è avvenuto fra Colombo, Restivo, Mariotti, Donat-Cattin, Ferrari Aggradi e Giolitti. Riportiamo a parte le norme che non dovevano escludere la competenza del Ministro Misasi). Occorre una nuova concezione dell'edilizia scolastica. La scuola deve essere architettonicamente accessibile a tutti i ragazzi. Non deve accadere che si costruiscano scuole per ragazzi spastici che devono essere presi in braccio per entrare nella scuola. Basta con i me­dici che fanno una visitina e poi spariscono: vogliamo i medici dignitosamente retribuiti ma al servizio della scuola. Ed è necessaria per tutti gli insegnanti una più elevata qualificazione pro­fessionale e specializzazioni veramente qualifi­canti.

Dopo aver dato opportune indicazioni circa l'organico di una scuola speciale, le sue dota­zioni, il suo orario, auspica che si metta in moto la volontà politica, finora rivelatasi inesistente, di risolvere in un vasto e organico quadro il pro­blema generale della scuola anche in riferimento alle particolari esigenze educativo-sociali dei ra­gazzi per varie cause disadattati.

 

Intervento di Iole Sosso Meo

La legge istitutiva della scuola d'obbligo pre­scrive l'obbligo scolastico fino al 14° o 15° anno di età e non fino al conseguimento del diploma di scuola media inferiore. In tal modo non si riconosce al ragazzo il «diritto» di frequentare tutte le classi dell'obbligo, di imparare tutte quelle notizie di cui ha bisogno per la vita con i sistemi più efficaci ed i metodi più adatti a fargli superare ogni difficoltà.

In realtà, i bambini che presentano difficoltà vengono individuati, etichettati ed emarginati, grazie al sistema delle classi differenziali e delle scuole speciali. La loro rapida diffusione non ha il fine di assistere in modo individualizzato al­lievi con carenze di tipo psico-fisico, ma quello di diminuire la pressione dei cosiddetti irrego­lari sulla scuola, senza dover modificare aspetti strutturali del sistema, quali i cicli, i programmi, i libri di testo, gli orari, la formazione del perso­nale, ecc. Per un gran numero di casi il disadat­tamento scolastico non è da imputarsi a carenze individuali insormontabili dei singoli bambini, ma è strettamente legato alla struttura scola­stica, che non solo non è in grado di rispondere alle esigenze dei minori, ma spesso concorre pesantemente a deformarne la personalità in sviluppo.

Gli strumenti utilizzati per mettere in atto l'emarginazione esistente, oltre ai programmi, ai cicli, agli orari, ecc., sono le équipes diagno­stiche medico-psico-pedagogiche.

Tali équipes presentano oggi gravi carenze che concorrono a farne un acritico strumento del si­stema scolastico, utilizzato in realtà solo per etichettare ed emarginare i bambini difficili. In­fatti le équipes:

- operano esclusivamente sul singolo bam­bino, a livello diagnostico (test, Q.I. ecc.) e con criteri selettivi;

- non danno alcuna indicazione di terapia, non sono partecipi del lavoro di recupero e non controllano mai il risultato delle loro diagnosi;

- non sono coinvolte nella realtà ambientale, che invece concorre a determinare le cause so­ciali del disadattamento scolastico;

- hanno pochissimi rapporti con gli inse­gnanti, i quali vengono anzi deresponsabilizzati dal ruolo autoritario degli «specialisti» delle équipes;

- alcune équipes sono incomplete per cui viene a mancare l'apporto di discipline fonda­mentali;

- le convenzioni del Provveditorato agli Studi che regolano l'attività delle équipes determinano solo le modalità amministrative senza fissare al­cun obiettivo né contenuto;

- le retribuzioni sono a cottimo per ogni diagnosi fatta e per ogni classe differenziale co­stituita;

- la collaborazione fra i membri stessi del­l'équipe è quasi nulla, e la funzione dei singoli tecnici è mortificata: di conseguenza il giudizio sul bambino non riesce mai ad essere completo e scientificamente attendibile e la conseguente emarginazione si fonda su basi che una corretta critica a livello psicologico e pedagogico scalze­rebbe con estrema facilità.

In queste condizioni di lavoro prive di conte­nuti ed obiettivi, le équipes si traducono di fatto, al di là della buona volontà dei singoli operatori, in uno strumento di emarginazione, mentre in­vece le équipes stesse sarebbero veramente in­dispensabili, sia per un trattamento individualiz­zato delle situazioni più problematiche, sia per un apporto all'opera educativa della scuola verso tutti gli allievi. L'apporto dei vari tecnici è an­cor più necessario nella prospettiva di realizzare l'educazione permanente.

«L'educazione permanente - come riferisce il bollettino dell'Unione mondiale dell'organizza­zione per la salvaguardia dell'infanzia e dell'ado­lescenza edito a Parigi - non ha più per oggetto solo l'adattamento a nuove condizioni di vita e di lavoro; essa è l'azione di gruppi e di individui su loro stessi per conquistare il loro equilibrio, dare alla loro esistenza nuovi significati e nuove fonti di soddisfacimento. Si tratta di sviluppare lo spirito critico, l'autonomia, l'attitudine a co­municare ed a cooperare, il senso estetico, la creatività, tutte qualità che permettono all'uomo di fare delle scelte, cioè di orientare efficace­mente la sua evoluzione personale e di influen­zare l'evoluzione della società. Anziché inculcare le conseguenze, la scuola tenderà a fare acqui­sire agli allievi gli strumenti che permetteranno loro di ricercare e di organizzare ulteriormente le informazioni di cui avranno bisogno, di acqui­sire l'autonomia sia sul piano intellettuale che sul piano affettivo e di stabilire le relazioni con gli altri.

L'educazione permanente richiede un nuovo tipo di insegnamento che tiene conto della com­petenza scientifica o tecnica, della qualità di ani­matore e della padronanza dei mezzi moderni din insegnamento. Il problema della formazione e del perfezionamento continuato (aggiornamento) de­gli educatori, risulta il problema fondamentale della trasformazione del sistema educativo. Tale sistema però è impensabile possa essere defi­nito ed istituito senza una partecipazione attiva dei giovani. Quali sono le loro aspettative in relazione alle strutture, ai contenuti, ai metodi, agli stessi fini del sistema educativo? Come fa­vorire la espressione dei loro bisogni e delle loro aspirazioni in tema di formazione? Quali sono le forme istituzionali che possono permet­tere loro di collaborare con gli adulti senza sen­tirsi minacciati di integrazione?». Certamente gli adulti non sono in grado di dare idonea ri­sposta a questi interrogativi di fondo senza la partecipazione dei giovani.

Chiudendo la parentesi sull'educazione perma­nente e ritornando al ruolo nuovo che si intende dare all'équipe, si può affermare che:

- devono cambiare sostanzialmente gli obiet­tivi delle équipes, abbandonando i criteri selet­tivi individuali, per puntare alla prevenzione e al recupero di ogni forma di ritardo;

- le équipes vanno intese come un gruppo di specialisti che si affianca al personale inse­gnante e che viene direttamente coinvolto nell'attività educativa della scuola, la cui attività dovrebbe essere diretta allo sviluppo integrale del ragazzo, a situarlo criticamente nella realtà sociale ed a compensare o ridurre le differenze d'ordine economico, sociale, psico-fisico;

- si deve perciò tendere ad una équipe per ogni scuola, abolendo l'attuale dannosa attività a tempo parziale;

- gli specialisti impiegati nella scuola devo­no far parte degli operatori già impegnati a pieno tempo nella zona territoriale interessata dalla scuola, in quanto i problemi dei ragazzi possono essere risolti solo da interventi coordinati a livello di servizi di quartiere, assistenza familia­re, organizzazione di tempo libero, ecc.;

- lo strumento principale di intervento deve essere il continuativo lavoro di gruppo fra inse­gnanti, specialisti, allievi e genitori.

La presenza di più tecnici, nella scuola è resa obbligatoria dal D.P.R. n. 1518 del 22 dicem­bre 1967, e dalla legge 30 marzo 1971, n. 118, sulle «Nuove norme a favore dei mutilati ed invalidi civili».

La legge 118, agli articoli 2, 23, 28, dichiara che «si considerano mutilati ed invalidi civili tutti i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite compresi gli irregolari psichici, gli insufficienti mentali derivanti da difetti senso­riali e funzionali»; stabilisce altresì per questi l'addestramento e la qualificazione e riqualifi­cazione professionale e l'accesso alla scuola d'obbligo mediante adatti accorgimenti per il su­peramento delle barriere architettoniche, me­diante l'assistenza durante gli orari scolastici agli invalidi più gravi e ribadisce che l'istruzio­ne dell'obbligo deve avvenire nelle classi nor­mali della scuola pubblica.

Da questa legge sono esclusi i ciechi ed i sordomuti perché leggi precedenti hanno prov­veduto diversamente. Bisognerà lavorare affinché anche a queste categorie siano estese le norme della legge che riguarda tutti gli invalidi civili.

Il nuovo tipo di équipe di tecnici allora deve porsi come uno degli strumenti che concorrono a fare della scuola una struttura capace di ri­spondere ai bisogni di tutti i bambini in qual­siasi situazione si trovino, realizzando nei fatti il diritto di tutti alla scuola dell'obbligo prescrit­ta dalia Costituzione.

Perciò anche la riforma della medicina scola­stica si inquadra ed ha significato solo nella più vasta e profonda riforma della scuola. Nel nuovo sistema scolastico che andiamo prospettando non ci sarà bisogno delle classi differenziali, mentre per gli handicappati più gravi (che at­tualmente vengono a torto considerati non sco­larizzabili o che semplicemente non possono an­dare a scuola perché non ci sono classi speciali vicine) si devono creare subito classi speciali nelle scuole comuni, non assurdi doppioni delle classi normali, ma strutture dotate dell'attrezza­tura necessaria per mettere in atto quelle stimo­lazioni conoscitive che permettono al bambino la graduale acquisizione del massimo livello di autonomia cui l'handicap gli permette di giun­gere.

Primo passo della necessaria riforma è un radicale cambio di direzione politica: è urgente che tutto il servizio di medicina scolastica sia sottratto alle strutture burocratiche del ministe­ro della Pubblica istruzione (a Torino le 19 équi­pes - 7 del Comune di Torino, 8 della Provincia di Torino, 3 dell'ENPMF e 1 dell'ONMI - sono attualmente tutte convenzionate con il Provvedi­torato agli Studi).

Con l'istituzione del «Servizio di medicina scolastica», gli Enti locali avrebbero possibilità effettiva di intervenire sulle scuole o istituti di istruzione pubblici e privati, sulle istituzioni pa­rascolastiche e sugli istituti medico-psico-peda­gogici, educativi ed assistenziali, mettendosi realmente sulla via della costituzione delle unità socio-assistenziali e sanitarie locali, unica reale alternativa di fronte al fallimento dell'ONMI e di tutta l'assistenza minorile. Ciò è permesso, anzi richiesto, dal DPR del 22 dicembre 1967, n. 1518 (Gazzetta Ufficiale n. 43 del 6 giugno 1968) che impone ai Comuni ed ai Consorzi di Comuni (so­stitutivamente alle Province) l'obbligo di istituire il servizio di medicina scolastica con funzioni sia igienico-sanitarie, sia medico-psico-pedago­giche.

La suddetta legge demanda al Servizio di me­dicina scolastica, oltre che il compito di avviare i ragazzi alle classi differenziali e speciali, an­che compiti ben più ampi ed efficaci di quelli richiesti dalle attuali convenzioni del ministero della Pubblica Istruzione, quali appunto gli inter­venti sugli insegnanti, sui minori, le famiglie e l'ambiente, i trattamenti psicoterapici ambula­toriali e presso internati.

Un semplice trasferimento di competenze dal ministero all'Ente Locale non è di per sé risolu­tivo, senza una sostanziale modifica di rapporti fra le strutture scolastiche e la comunità. Biso­gna ottenere forme nuove di cogestione, con­trollo democratico e partecipazione di cittadini, comitati di genitori, gruppi di base, organizza­zioni di quartiere, ecc., che inseriscano la lotta al disadattamento scolastico nella più grande lotta a ogni forma di emarginazione sociale.

 

Documento dell'Associazione per la lotta contro le malattie mentali - Sezione di Parma: Per chiudere le differenziali

1. Ogni bambino ha diritto a un anno di com­pagni e non a un anno di differenziali.

2. Fine delle differenziali perché esse servono a tutti - tranne che ai bambini. Le maestre delle ex-differenziali siano impiegate per gli sdoppiamenti.

3. Il bambino «in ritardo» sia affidato alla protezione e all'infinita premura dei compagni bambini.

4. Lasciargli una possibilità di poter andare nelle altre classi quando egli sta passando un brutto momento - perché là può esserci un suo grande amico, cioè un grande educatore.

5. Ogni maestro non dimentichi mai che quel bambino «in ritardo» gli vuole molto bene. Che non si deve dare un dispiacere ai genitori.

6. Compilare un elenco di maestri che accol­gano bambini insopportabili ad altri maestri.

7. Distribuire tutti i test nelle scuole e far divertire i bambini.

8. Il principale sussidio didattico del bambino «in ritardo» sono tutti i bambini. Secondo sus­sidio didattico è un maestro che non lo disprez­zi. Se questi due sussidi non bastano, si chiami in classe il nonno del bambino.

9. Il fattore decisivo è il bambino e non il sussidio.

10. Bisogna avere fede speranza e carità in tutti i bambini.

11. Il Quoziente Intellettuale non misura l'in­telligenza di quel bambino ma la sua sofferenza e la nostra presunzione.

12. È la grande varietà dei rapporti umani, l'in­treccio continuo fra una vita e molte altre, che «guariscono» i ritardi intellettuali - e non la separazione, la divisione, la segregazione, l'iso­lamento, Lasciare tutti i bambini insieme alle grandi passioni infantili: la generosità, l'amicizia, la tenerezza, la solidarietà, l'orgoglio sentimen­tale, l'indipendenza, la serietà. Fare una scuola che «afferri l'intera vita del bambino».

13. Gli esperti visitino bene quel bambino - perché può essere malato. (Come fa un bam­bino a restare sano in una società capitalistica che disprezza il suo corpo?). E intanto impa­riamo da lui tutto quello che egli ci dice col suo silenzio, con la sua confusione, col suo ner­vosismo, con le sue orecchie rosse.

14. Fatelo fuggire dal centro. Prima di rispet­tare la scienza, si deve rispettare quel bambino: è lui il bene più prezioso. Egli è un'alba e noi siamo un tramonto.

Non mandatelo giù come un cane bastonato. Accompagnatelo fino in fondo alle scale, saltate con lui gli ultimi cinque gradini, fategli attraver­sare la strada e ditegli:

- Va, ritorna fra i tuoi compagni! - perché ogni bambino aspetta gli altri bambini e ha bi­sogno di sentire le loro voci; e che ci sia un maestro che gli dica:

- Avevo paura che tu non tornassi più! Sei rimasto fuori troppo tempo, ero in pensiero per te. Metti giù il paltò.

 

 

AGGIUNTA DI FAMIGLIA PER I MINORI AFFIDATI

 

Con circolare del 27 marzo 1971, n. 19/114980 il Ministero del Tesoro, Ragioneria Generale del­lo Stato I.G.O.P. ha disposto che ai dipendenti dello Stato sia riconosciuta l'attribuzione delle quote di aggiunta di famiglia per i minori affidati (affidamento preadottivo, baliatico, affidamento a scopo educativo).

Detta circolare è stata emessa sentito il pa­rere favorevole n. 225 del Consiglio di Stato, emesso nell'adunanza generale della 2ª Sezione in data 19-2-1970.

Il beneficio decorre dalla data di affidamento emesso dalle competenti autorità (tribunale per i minorenni, enti di assistenza).

Gli aventi diritto possono richiedere gli arre­trati non corrisposti, anche nel caso in cui sia decorso il termine della normale prescrizione di due anni.

 

 

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