Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre
1971
DOCUMENTI
SINDACATI, ACLI,
COMITATI DI QUARTIERE DI TORINO
DALL'ASSISTENZA
EMARGINANTE AI SERVIZI SOCIALI APERTI A TUTTI
Questo convegno, tenutosi a Torino
il 3 luglio 1971, è stato promosso dalle stesse organizzazioni (Sindacati
CGIL, CISL e UIL, ACLI, Comitati di quartiere) che avevano organizzato il 20
maggio 1971 un incontro «sui problemi della scuola a Torino», fatto che da solo
indica il grado di maturazione sociale dei promotori e la decisione, che
crediamo irreversibile, di affrontare globalmente il problema delle esigenze
individuali, familiari e sociali, uscendo dalla sorpassata azione
rivendicativa aziendale o comunque settoriale.
Relazione del gruppo
promotore
Nella relazione del gruppo
promotore, letta da Gianni Alasia, viene
condotto innanzitutto l'esame dell'attuale situazione nel campo dell'assistenza:
«i 40.000 enti assistenziali italiani esercitano una serie di attività disparate,
che vanno dall'elemosina spicciola alla gestione di servizi di interesse
collettivo». Ne deriva quindi che è «impossibile parlare di riforma
dell'assistenza senza entrare nel merito dei problemi del lavoro,
della salute, della casa, della scuola, dell'assetto del territorio, di tutti quei bisogni sociali la cui mancata soddisfazione porta alla
richiesta individuale di prestazioni di immediata riparazione».
Occorre pertanto «rendersi conto che
l'attuale impostazione assistenziale paternalistica,
basata sull'artificiosa definizione di innumerevoli categorie di cosiddetti
“bisognosi” tende ad isolare fra loro e verso il corpo sociale persone che in
realtà appartengono alle più ampie categorie: giovani che devono costituire la
futura forzalavoro adatta a mansioni parcellizzate e spersonalizzanti, adulti
che sono costretti ad un lavoro non predisposto a misura dell'uomo, anziani o minorati
che non sono più in grado di assicurare un'adeguata produttività».
Premesso che «nessuna forma
specifica di emarginazione si combatte senza combattere
anche le tendenze emarginanti proprie delle strutture sociali in generale»,
le proposte fatte «non riguardano specifiche soluzioni settoriali ma gli
strumenti capaci di cambiare il rapporto fra cittadini e servizi».
Al riguardo viene
richiamato il documento approvato dagli Assessori regionali all'assistenza a
Bergamo il 27 aprile 1971 (1).
Circa la programmazione regionale,
essa «dovrebbe orientarsi in due direzioni:
a) meccanismo di prestazioni
economiche coerenti con gli obiettivi della sicurezza sociale (quindi, per
esempio, unificazione ed avvio di un processo di equiparazione
delle pensioni di ogni genere; sostituzione dei sussidi assegnati con criteri
discrezionali con erogazioni automatiche in presenza di determinate condizioni;
b) copertura del fabbisogno
quantitativo e qualitativo dei servizi sociali, e loro strutturazione in modo
tale che le prestazioni a cui tutti sono interessati
siano accessibili allo stesso modo a tutti, e le prestazioni dirette a
soddisfare bisogni particolari non abbiano caratteristiche emarginanti (quindi,
ad esempio, adozione immediata di soluzioni intermedie verso la progressiva
eliminazione degli istituti di ricovero, quali potrebbero essere delle piccole
comunità decentrate nei quartieri e nei paesi: ciò comporta che di questa
esigenza si tenga conto nei progetti edilizi, prevedendo locali nelle normali
case di abitazione da destinare a questo uso, nei progetti di riforma della
scuola, promuovendo le condizioni perché possa servire anche a scolari che
abbiano necessità di qualche forma di assistenza particolare, e così via)».
Relazione di F. Bassanini su «Aspetti giuridico-costituzionali del decreto
delegato sull'assistenza».
Il relatore ha premesso che «il
fatto che
Infatti se noi esaminiamo la legislazione
italiana in questa materia, ci accorgiamo appunto come i termini assistenza e
beneficenza siano usati sempre promiscuamente senza distinguere, fra le due
realtà, ma semmai facendo emergere proprio le differenze di concezione, di
principi ideologici nell'intendere l'attività assistenziale, le differenze tra
chi ne sottolinea l'aspetto caritativo, volontario e per così dire «grazioso»
(e dunque parla di beneficenza) e chi ne mette in luce il carattere di funzione
pubblica, come corrispettivo di un diritto soggettivo del cittadino; là dove
si parla di assistenza si ha già una concezione più moderna, là dove si parla
di beneficenza si ha spesso una concezione più arretrata, ma l'oggetto è
sostanzialmente lo stesso, e anzi si potrebbe dire, per esempio riferendoci
alla legge fondamentale che disciplina la materia nel nostro ordinamento, che
(purtroppo) risale al 1890, che i termini «beneficenza» e «assistenza» sono
usati come una «endiadi», cioè come due parole che intendono o connotano lo
stesso soggetto. Si può dire semmai che un termine indica lo strumento e
l'altro il fine, che nella concezione adottata o
presupposta dalla legge del 1890 la beneficenza è lo strumento per l'assistenza,
in quanto per tale legge l'assistenza viene fatta essenzialmente con i fondi
forniti dalla carità dei privati, cioè con fondi erogati da questi ultimi per
beneficenza, o erogati da enti pubblici, ma sempre intendendo tale attività
come facoltativa o caritativa, senza configurare in capo allo Stato e agli enti
pubblici un obbligo di assistere tutti coloro che - in base a presupposti
determinati dalla legge - hanno diritto all'assistenza. Si
tratta dunque di un'unica attività considerata nel suo momento teleologico
(assistenza) e nel suo momento strumentale (beneficenza). Anche nella
legislazione più recente, si prenda per esempio la legge istitutiva dei
Comitati Provinciali per l'Assistenza e per
Sul significato delle competenze
legislative date alle Regioni, Bassanini ha precisato
che «spetta alla Regione legiferare in materia, che d'ora in poi le leggi in
materia di assistenza dovranno essere emanate dalle
Regioni e non più dallo Stato; con una eccezione tuttavia: spetterà infatti
ancora allo Stato dettare i principi fondamentali della legislazione in
materia di assistenza. Qui emergono rilevanti differenze di opinioni
politiche e anche dottrinali. La legge Scelba
prevedeva che le Regioni non potessero legiferare in materia di assistenza finché una apposita legge cornice statale non
avesse dettato i principi fondamentali, con il che evidentemente si rinviava
l'intervento legislativo della Regione in materia di assistenza a quando
sarebbe stata emanata la legge quadro sull'assistenza. La legge sulla finanza
regionale approvata nel
Circa la competenza amministrativa,
il relatore ha chiarito: «secondo l'interpretazione che, secondo me, è di gran lunga preferibile sulla base del testo
costituzionale, e che oggi è sostenuta da tutte le Regioni quale che sia la
maggioranza di governo che si è formata in seno a ciascun Consiglio
regionale, l'attribuzione alla Regione della competenza amministrativa in una
materia significa che
enti, lo Stato cesserebbe bensì infatti
di gestire mediante gli apparati burocratici della sua amministrazione il
settore in questione, ma in sostanza continuerebbe ad intervenirvi come prima,
benché mediante enti pubblici finanziati, diretti e controllati dallo Stato,
nei confronti dei quali lo Stato ha poteri di direzione, di vigilanza, di
controllo, di nomina di tutti o di parte dei componenti degli organi dirigenti».
Il relatore, dopo aver
dettagliatamente analizzato le gravi e anticostituzionali limitazioni degli
schemi di decreto delegato per il trasferimento delle competenze assistenziali alle Regioni, ha concluso affermando che per
modificare l'inaccettabile impostazione del Ministero dell'interno e per
l'attuazione delle regioni «non basta l'impegno delle forze politiche
organizzate in Parlamento, anche ammesso che ve ne siano molte che intendono
impegnarsi in questa direzione. Né basta neppure l'impegno delle
Regioni. Occorre che il problema della riforma e della regionalizzazione dell'assistenza venga
fatto proprio dalle masse e non soltanto dai vertici politici. Non è problema
che possa risolversi con un dibattito e con un accordo
al vertice in sede di contrattazione della “politica delle riforme”, ma è un
problema che si risolverà solo sotto la spinta di una pressione di base che
costringa le forze politiche e in primo luogo il Parlamento a convincersi della
necessità di una radicale riforma con l'integrale regionalizzazione
dell'attività amministrativa in materia assistenziale, ma insieme con una
profonda revisione dei principi che oggi governano la legislazione statale sull'assistenza».
Relazione di E. Ranci Ortigosa su «Le unità
locali dei servizi: una alternativa da verificare
nella teoria e nella pratica».
Il relatore ha premesso che «il
nostro sistema assistenziale presenta dei caratteri
obiettivi che giova riassumere: la finalità repressiva (non per nulla il
Ministero dell'interno vi ha un ruolo di primo piano); la sua discrezionalità,
che si lega tanto alla finalità di controllo come all'utilizzo clientelare;
il suo taglio classista, lesivo della dignità dell'assistito; la sua
strumentazione emarginante, per istituzioni chiuse; la sua gestione
centralizzata e burocratizzata ed insieme però frammentaria, per l'articolazione
degli interventi in ordine ad astratte categorie e non alla persona
unitariamente considerata; da cui la rigidità, lo schematismo, le
sovrapposizioni ed i vuoti, la deresponsabilizzazione,
l'impersonalità. Di fronte ai processi sociali anche drammatici ed a carenze
gravissime, le istituzioni pubbliche, anche nella funzione assistenziale,
nel nostro sistema non vanno oltre queste finalità difensive: intervenire per
sottoporre a controllo quelle situazioni individuali o collettive che risultino
pericolose e conflittuali rispetto all'«ordine sociale»; sopperire alle necessità
strettamente «vitali» di quanti non hanno la possibilità, con le loro risorse
individuali, di sopravvivere in tale contesto competitivo. Questo comporta
anche la riduzione delle degenerazioni più drammatiche del sistema, e quindi
delle tensioni sociali e politiche e dei processi contestativi che su di esse potrebbero innestarsi portando la contestazione sulle
stesse strutture sociali. Tanto la finalità di controllo
come quelle più strettamente assistenziali tendono correntemente non ad aiutare
il soggetto a reinserirsi come componente libera e attiva nei rapporti
sociali, ma piuttosto ad estraniarlo definitivamente, sia attribuendogli un
sussidio, che lo lasci vegetare passivamente ai margini della società, sia
isolandolo in istituzioni apposite, inglobanti e totalizzanti, da cui non sia
più in grado di perturbare o disturbare oltre il conveniente i processi
sociali ed economici. Per la nostra mentalità un
bambino chiuso in un istituto, che sia curato adeguatamente, è cosa logica. Come è «logico» che l'handicappato fisico e psichico sia
confinato in un istituto, che il bambino «ritardato» sia messo in una classe differenziale,
che il minore «disadattato» sia chiuso in un riformatorio. Tutto questo è
coerente per una società a base individualistica, selettiva e competitiva: chi
non possiede i necessari requisiti o aiuti per reggere al ritmo e chi non si
adegua alla marcia prefissa, non può rimanere nel contesto
sociale, dove non potrebbe che soccombere o ribellarsi. La società deve quindi
provvedere umanitariamente per prevenire le possibili
degenerazioni, e mettere tali persone al sicuro, in compagnia di «loro simili».
Contestare questa assistenza significa allora anche
ribellarsi al livellamento, alla uniformità imposta, alla massificazione, per
rivendicare spazio alla originalità personale, per affermare un concetto di
socializzazione come valorizzazione di apporti individuali e di gruppo
differenziati, posti in significativo e costruttivo rapporto nella esperienza
quotidiana».
Essenziale è responsabilizzare
la società per la socializzazione di tutti i suoi membri: «si tratta infatti
di non situare la società in una posizione solo passiva, notarile o peggio repressiva
nei confronti delle difficoltà di rapporto e inserimento del singolo, ma di
riconoscerle una funzione attiva di sollecitazione della partecipazione libera
e responsabile di ciascuno, in una prospettiva che non valuta l'uomo solo per
quanto può rendere economicamente, ma per quello che è, come persona umana. In
questa prospettiva ci pare si possa valorizzare la crisi dell'assistenza e la
necessità di una sua riforma come occasione di
superamento del circolo vizioso fra: emarginazione di quanti presentano
difficoltà di vario genere e deresponsabilizzazione
della società nei loro confronti. Se rifiutiamo l'approccio individualistico,
e affermiamo quello socializzante, allora possiamo ricercare un diverso
rapporto fra singolo e società, alternativo a quello della esclusione,
per cui la presenza della persona con difficoltà nel contesto sociale stimola
la collettività a cercare una risposta a questa domanda, offrendo i necessari
servizi, per consentire alla persona una partecipazione più libera ed attiva
all'esperienza sociale; nello stesso tempo la persona in difficoltà, vivendo
nella collettività, entra in dialogo costruttivo con essa, si confronta con
tutti gli stimoli che la molteplicità dei rapporti sociali può offrire.
Socializzazione infatti non significa livellamento, uniformità imposta, ma
piuttosto valorizzazione delle diversità, degli apporti originali e differenziati, posti in significativo e costruttivo
rapporto a vantaggio della società intera. Questo nuovo e diverso rapporto di
scambio singolo-collettività, alternativo a quello
dell'esclusione, può essere realizzato solo nella misura in cui non solo degli
specialisti, ma la collettività sociale nel suo complesso, nella sua
dimensione politica quindi, si fa carico di questo impegno continuo e
generalizzato di socializzazione. Solo così infatti la collettività è sollecitata ad elaborare, ad
intervenire, a gestire, maturando così in questa prospettiva moralmente,
culturalmente, politicamente. Ove la collettività rimanga
infatti indisponibile, escludente, non c'è intervento di specialista che
possa risultare efficace, perché è la stessa società che si struttura e vive
secondo un sistema emarginante. Tanto più che lo stesso
ruolo e mentalità dello specialista sono condizionati dalle strutture e dai
modelli che la società nel suo complesso vive ed alimenta. È necessario
quindi rendere istituzionale la responsabilità della società verso i suoi membri in difficoltà, promuovendo una struttura di
ordine politico che si proponga come fine l'organica socializzazione di tutti i
membri della comunità di cui è espressione democratica; predisponendo e
gestendo gli interventi di rimozione degli ostacoli e di incentivazione della
partecipazione che risultino più adeguati. A tale istituzione andrà
riconosciuto anche il potere e attribuiti i mezzi per rispondere adeguatamente
alla domanda sociale, pena il creare una esperienza
soprattutto frustrante. Data la diversità delle posizioni presenti nella
società anche in ordine alla prestazione dei servizi
sociali si instaurerà un positivo confronto culturale e politico, che troverà
riscontro nella raccolta del consenso e nel conseguente orientamento degli organi
politicamente responsabili. Per assolvere alla
funzione indicata questi devono essere espressione di un massimo di
partecipazione democratica, che vada oltre il momento elettorale per
contemplare esperienze di autogestione, strumenti di pubblicizzazione
delle scelte e di controllo ed iniziativa di base, incontri assembleari e di
consultazione diretta degli utenti (referendum). Per realizzare insomma una effettiva gestione sociale dei servizi».
Indicata la necessità di unificare
l'impostazione e la gestione dei servizi sociali per
adeguare strutture e interventi ai bisogni del cittadino, della famiglia, del
gruppo e del quartiere, promuovendo una partecipazione stimolatrice di un
forte impegno critico, il relatore ha precisato che «il luogo naturale di tale
gestione sociale dei servizi è l'ente locale che potrà trovare anzi in questa esigenza
l'occasione storica per una rivalutazione politica, e per quel ripensamento e
quella ristrutturazione che ne sono condizione. Solo infatti
acquisendo la competenza e la capacità di gestire globalmente la risposta alle
esigenze sociali che sorgono in ordine all'insediamento e ad una convivenza
sempre più umana e socializzata nel territorio, l'ente locale può riproporsi
come centro democratico di autogestione dei problemi che alla comunità si
pongono in modo più immediato e diretto nel corso del suo sviluppo. D'altra
parte non si può non temere anche un ulteriore
svuotamento dell'ente locale, ridimensionato di volta in volta nella sua
competenza e funzione politica, da strutture che possono anche contemplare
momenti di partecipazione democratica, ma che rimangono settoriali. Si
arriverebbe così ad una serie di istituzioni
rappresentative a competenza circoscritta, per conseguenza con la definitiva
rinuncia ad una programmazione davvero democratica dei servizi nel loro
complesso, come compito qualificante e rivitalizzante di un ente locale ripensato
e riformato, anche in funzione di tale compito, nelle sue dimensioni, nella
sua organizzazione, nel suo rapporto con la collettività. È chiaro come
questo tipo di prevenzione va perseguito in primo luogo superando le carenze dei vari settori della politica sociale: scuola,
casa, rapporti di produzione, occupazione, previdenza, prima ancora che con
interventi strettamente assistenziali. Non si vede quindi come una politica
dei servizi possa essere programmata e gestita indipendentemente da una
politica sanitaria, da una politica scolastica e culturale, da una politica del tempo libero, da una politica della casa e
del territorio. E questo non solo a livello nazionale o regionale, ma proprio a
livello dell'ente locale, dove appunto diversi interventi devono produrre una
risposta organica, globale, unitaria alle attese
sociali. Il diritto alla salute, ai servizi sociali, al lavoro,
all'istruzione, al tempo libero, rappresenta un complesso interdipendente dei
diritti che il cittadino deve esigere in modo unitario e globale.
L'adeguatezza della risposta non può essere garantita dalla
concentrazione e dall'autocoordinamento degli organi
settorialmente responsabili, come l'esperienza insegna, ma solo
dall'inquadramento dei diversi servizi in un'unica struttura, programmata e
controllata dall'ente locale. Quest'ultimo quindi deve godere in proposito di adeguata autonomia, potere ed elasticità di gestione».
L'unità locale viene
concepita come «una struttura tecnico-organizzativa di base, gestita direttamente
dal comune, dalle zone di decentramento urbano, dal consorzio obbligatorio di
piccoli comuni delle aree a insediamento disperso, idonea a garantire in modo
partecipato, organico, efficiente le infrastrutture comunitarie e le prestazioni
necessarie all'autosufficienza ed alla socializzazione dei cittadini. Si dovrà
certo tenere presente la non corrispondenza nelle dimensioni ottimali in ordine alla prestazione di servizi diversi. Le corrette
esigenze tecniche potranno essere soddisfatte grazie
ad una attenta distribuzione delle competenze di programmazione, gestione e
controllo in ordine alle diverse materie, tra livello regionale e livello delle
Unità locali. In alcuni casi il servizio potrà essere programmato
e gestito esclusivamente a livello locale, salvo gli indirizzi generali e le
risorse finanziarie offerte dalla Regione; in altri, all'opposto, la
competenza locale potrà ridursi al controllo sull'adeguatezza ed
efficienza delle prestazioni. Possono poi essere individuate tutte le articolazioni tecnico-organizzative necessarie (macrocomprensoriali,
provinciali, ecc.). Tale elasticità dovrebbe permettere la composizione
ottimale sia di esigenze politico-democratiche che di esigenze
funzionali, ripartendo con elasticità poteri e compiti tra gli enti
interessati. Va riconosciuto che il dibattito sul «livello intermedio» fra quello locale e quello regionale non ha ancora portato alla
maturazione di valutazioni conclusive, coinvolgendo d'altra parte la
necessaria, anche se graduale, ridefinizione dello
stesso ente locale, in ordine a costituirlo come centro funzionale, politicamente
ed amministrativamente, all'esercizio di certi
compiti. Finché l'ente comune presenterà l'attuale varietà
(dalle poche centinaia ai milioni di cittadini) il discorso deve
necessariamente specificarsi. La proposta del consorzio
per le aree rurali e del decentramento per le aree metropolitane deve mirare
appunto ad avviare un processo di ristrutturazione anche articolato su
esperienze differenziate. Il dibattito sul livello intermedio deve
necessariamente anche confrontarsi con l'attuale provincia, per una scelta
fra: (a) la sua trasformazione, con l'assorbimento delle funzioni
comprensoriali, che ne rivaluti quindi la funzione;
(b) il suo ridimensionamento progressivo creando e potenziando invece il
comprensorio; (c) la sua abolizione pura e semplice.
Infine il relatore ha affrontato il
problema del controllo democratico e delle esperienze autogestionali.
Dopo la relazione di Ranci Ortigosa sono state riferite
alcune esperienze di base in linea con il superamento dell'intervento
assistenziale.
Nel dibattito sono intervenuti
parlamentari, amministratori regionali e comunali, sindacalisti, lavoratori e
operatori sociali.
Il convegno, concepito come l'inizio
di una campagna che abbia suoi momenti centrali e periferici, ha messo delle
forze in movimento. Si tratta ora, come auspichiamo, di raccogliere le
indicazioni emerse e di associare forze operaie con gruppi sociali vari,
trovando specifiche controparti in enti, istituti, amministrazioni locali per
condurre uniti la lotta contro l'emarginazione sociale e ottenere servizi sociali aperti a tutti.
(1) Il documento è
stato riportato da Prospettive assistenziali,
n. 14, pag. 4 e segg.
(2) Lo schema di
decreto delegato predisposto dal Ministero dell'interno è stato riportato su Prospettive assistenziali, n. 14, pag.
8 e segg.
www.fondazionepromozionesociale.it