Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre 1971

 

 

DOCUMENTI

 

SINDACATI, ACLI, COMITATI DI QUARTIERE DI TORINO

DALL'ASSISTENZA EMARGINANTE AI SERVIZI SOCIALI APERTI A TUTTI

 

 

Questo convegno, tenutosi a Torino il 3 luglio 1971, è stato promosso dalle stesse organizza­zioni (Sindacati CGIL, CISL e UIL, ACLI, Comi­tati di quartiere) che avevano organizzato il 20 maggio 1971 un incontro «sui problemi della scuola a Torino», fatto che da solo indica il gra­do di maturazione sociale dei promotori e la de­cisione, che crediamo irreversibile, di affronta­re globalmente il problema delle esigenze indivi­duali, familiari e sociali, uscendo dalla sorpas­sata azione rivendicativa aziendale o comunque settoriale.

 

Relazione del gruppo promotore

Nella relazione del gruppo promotore, letta da Gianni Alasia, viene condotto innanzitutto l'esa­me dell'attuale situazione nel campo dell'assi­stenza: «i 40.000 enti assistenziali italiani eser­citano una serie di attività disparate, che vanno dall'elemosina spicciola alla gestione di servizi di interesse collettivo». Ne deriva quindi che è «impossibile parlare di riforma dell'assistenza senza entrare nel merito dei problemi del lavo­ro, della salute, della casa, della scuola, dell'as­setto del territorio, di tutti quei bisogni sociali la cui mancata soddisfazione porta alla richiesta individuale di prestazioni di immediata ripara­zione».

Occorre pertanto «rendersi conto che l'attuale impostazione assistenziale paternalistica, basata sull'artificiosa definizione di innumerevoli cate­gorie di cosiddetti “bisognosi” tende ad isolare fra loro e verso il corpo sociale persone che in realtà appartengono alle più ampie categorie: giovani che devono costituire la futura forza­lavoro adatta a mansioni parcellizzate e sperso­nalizzanti, adulti che sono costretti ad un lavoro non predisposto a misura dell'uomo, anziani o minorati che non sono più in grado di assicu­rare un'adeguata produttività».

Premesso che «nessuna forma specifica di e­marginazione si combatte senza combattere an­che le tendenze emarginanti proprie delle strut­ture sociali in generale», le proposte fatte «non riguardano specifiche soluzioni settoriali ma gli strumenti capaci di cambiare il rapporto fra cit­tadini e servizi».

Al riguardo viene richiamato il documento ap­provato dagli Assessori regionali all'assistenza a Bergamo il 27 aprile 1971 (1).

Circa la programmazione regionale, essa «do­vrebbe orientarsi in due direzioni:

a) meccanismo di prestazioni economiche coerenti con gli obiettivi della sicurezza sociale (quindi, per esempio, unificazione ed avvio di un processo di equiparazione delle pensioni di ogni genere; sostituzione dei sussidi assegnati con criteri discrezionali con erogazioni automatiche in presenza di determinate condizioni;

b) copertura del fabbisogno quantitativo e qualitativo dei servizi sociali, e loro struttura­zione in modo tale che le prestazioni a cui tutti sono interessati siano accessibili allo stesso mo­do a tutti, e le prestazioni dirette a soddisfare bisogni particolari non abbiano caratteristiche emarginanti (quindi, ad esempio, adozione im­mediata di soluzioni intermedie verso la pro­gressiva eliminazione degli istituti di ricovero, quali potrebbero essere delle piccole comunità decentrate nei quartieri e nei paesi: ciò compor­ta che di questa esigenza si tenga conto nei progetti edilizi, prevedendo locali nelle normali case di abitazione da destinare a questo uso, nei progetti di riforma della scuola, promuoven­do le condizioni perché possa servire anche a scolari che abbiano necessità di qualche forma di assistenza particolare, e così via)».

 

Relazione di F. Bassanini su «Aspetti giuridico-­costituzionali del decreto delegato sull'assi­stenza».

Il relatore ha premesso che «il fatto che la Costituzione parli di “beneficenza pubblica” non ci consente (...) di ritenere, come invece ha tentato di sostenere il Ministero dell'interno nel corso dell'elaborazione dello schema di decreto delegato per il trasferimento delle funzioni alle Regioni nella materia (2), che le Regioni avreb­bero competenza soltanto su una piccola fetta di quello che noi comprendiamo nel termine di assistenza».

Infatti se noi esaminiamo la legislazione italia­na in questa materia, ci accorgiamo appunto co­me i termini assistenza e beneficenza siano usa­ti sempre promiscuamente senza distinguere, fra le due realtà, ma semmai facendo emergere proprio le differenze di concezione, di principi ideologici nell'intendere l'attività assistenziale, le differenze tra chi ne sottolinea l'aspetto cari­tativo, volontario e per così dire «grazioso» (e dunque parla di beneficenza) e chi ne mette in luce il carattere di funzione pubblica, come cor­rispettivo di un diritto soggettivo del cittadino; là dove si parla di assistenza si ha già una con­cezione più moderna, là dove si parla di benefi­cenza si ha spesso una concezione più arretrata, ma l'oggetto è sostanzialmente lo stesso, e anzi si potrebbe dire, per esempio riferendoci alla leg­ge fondamentale che disciplina la materia nel no­stro ordinamento, che (purtroppo) risale al 1890, che i termini «beneficenza» e «assistenza» sono usati come una «endiadi», cioè come due parole che intendono o connotano lo stesso sog­getto. Si può dire semmai che un termine indica lo strumento e l'altro il fine, che nella concezio­ne adottata o presupposta dalla legge del 1890 la beneficenza è lo strumento per l'assistenza, in quanto per tale legge l'assistenza viene fatta essenzialmente con i fondi forniti dalla carità dei privati, cioè con fondi erogati da questi ultimi per beneficenza, o erogati da enti pubblici, ma sempre intendendo tale attività come facoltativa o caritativa, senza configurare in capo allo Stato e agli enti pubblici un obbligo di assistere tutti coloro che - in base a presupposti determinati dalla legge - hanno diritto all'assistenza. Si trat­ta dunque di un'unica attività considerata nel suo momento teleologico (assistenza) e nel suo mo­mento strumentale (beneficenza). Anche nella legislazione più recente, si prenda per esempio la legge istitutiva dei Comitati Provinciali per l'Assistenza e per la Beneficenza pubblica (e cioè il decreto legislativo luogotenenziale n. 173 del 1945), si usano indifferentemente le espres­sioni «assistenza», «beneficenza» «assisten­za pubblica», «beneficenza pubblica», che ricor­rono con lo stesso significato, e sono utilizzate promiscuamente l'una o l'altra nello stesso arti­colo di legge. È chiaro quindi che nell'art. 117 della Costituzione col termine beneficenza si in­tendeva stabilire la competenza delle Regioni su tutto il settore dell'assistenza; si qualifica la be­neficenza come «pubblica» perché le Regioni e in genere gli enti pubblici si occupano e si occu­peranno dell'assistenza per quanto sia ritenuto d'interesse pubblico; in altri termini, l'attività di assistenza, sia che venga prestata da privati che da enti pubblici, rileva sotto il profilo di quanto debba essere ritenuto di interesse pub­blico. Le precisazioni or ora accennate sono im­portanti perché, come vedremo, il Ministero dell'interno tende invece a sottrarre alle Regioni una parte della materia assistenziale sotto il pro­filo che si tratterebbe di attività non di benefi­cenza, ma di assistenza in senso proprio, e ten­de a sottrarre alla vigilanza delle Regioni e quin­di a tenere sotto la vigilanza del Ministero dell'interno stesso tutta l'attività di assistenza e beneficenza svolta dai privati, da enti o istitu­zioni private, perché secondo il Ministero dell'interno la Costituzione prevede una competen­za regionale solo per la beneficenza pubblica e non per la beneficenza privata. Questa interpre­tazione non appare convincente perché la no­stra legislazione in materia non limita affatto l'interesse pubblico nel settore alle attività svol­te da enti pubblici; alla definizione costituzionale occorre dare il significato generico di attività assistenziali ritenute di pubblico interesse o di rilievo pubblico, che siano poi esse svolte da privati o da enti pubblici, la Regione se ne occu­perà in quanto le ritenga di interesse della col­lettività regionale. La natura del soggetto (pub­blico o privato) non ha rilievo ai fini della ripar­tizione costituzionale delle competenze tra Sta­to e Regioni: rileverà invece ai fini della deter­minazione, in concreto, delle competenze regio­nali, che, nei confronti degli enti privati, saranno soltanto quelle (di vigilanza, essenzialmente) oggi attribuite ad organi statali.

Sul significato delle competenze legislative date alle Regioni, Bassanini ha precisato che «spetta alla Regione legiferare in materia, che d'ora in poi le leggi in materia di assistenza do­vranno essere emanate dalle Regioni e non più dallo Stato; con una eccezione tuttavia: spette­rà infatti ancora allo Stato dettare i principi fon­damentali della legislazione in materia di assi­stenza. Qui emergono rilevanti differenze di opi­nioni politiche e anche dottrinali. La legge Scelba prevedeva che le Regioni non potessero legife­rare in materia di assistenza finché una appo­sita legge cornice statale non avesse dettato i principi fondamentali, con il che evidentemente si rinviava l'intervento legislativo della Regione in materia di assistenza a quando sarebbe stata emanata la legge quadro sull'assistenza. La leg­ge sulla finanza regionale approvata nel 1970 ha introdotto invece un principio diverso, per il qua­le le Regioni potranno legiferare in materia di assistenza non appena siano trascorsi due anni dalla prima elezione del Consiglio regionale, quindi a partire dal giugno 1972; potranno legi­ferare anche prima, se nel frattempo sarà inter­venuto il trasferimento delle funzioni amministra­tive dallo Stato alle Regioni. Non che il trasferi­mento delle funzioni amministrative condizioni in assoluto l'esercizio della potestà legislativa delle Regioni; poiché, se anche il trasferimento delle funzioni amministrative non avvenisse, tra un anno le Regioni potranno comunque legife­rare in materia di assistenza. Potranno legifera­re, secondo la legge sulla finanza regionale, nell'ambito dei principi della legislazione statale vigente, cioè in materia di assistenza, dei princi­pi della legge del 1890 o addirittura delle leggi precedenti che risalgono a più di un secolo fa, ma che sono tuttora in vigore. C'è una terza so­luzione, diversa sia da quella della legge Scelba che da quella della legge finanziaria: soluzione che è stata proposta da alcuni disegni di legge pendenti davanti alla Camera dei Deputati e che anch'io ho sostenuto in taluni lavori: secondo il sistema che - secondo me - emerge dalla Co­stituzione, le Regioni non dovrebbero essere vin­colate dai principi della legislazione statale vi­gente nella materia, ma soltanto dai principi che il Parlamento eventualmente con apposite leggi quadro dettasse nella materia, in mancanza del­le quali le Regioni potrebbero legiferare nel solo rispetto dei principi costituzionali, dovendosi ri­tenere che il Parlamento ritenga di non dover condizionare la loro legislazione al rispetto di alcun principio ulteriore rispetto a quelli desumi­bili dalla Costituzione. Se venisse approvato un progetto di legge di questo tipo, fra un anno le Regioni sarebbero in grado, legiferando, di modi­ficare veramente e innovare la legislazione sull'assistenza, salvo le eventuali limitazioni o i principi posti da una legge quadro statale; esse non sarebbero vincolate al rispetto di quei prin­cipi della legislazione vigente che lo stesso no­stro legislatore riterrebbe probabilmente (e pro­babilmente riterrà) superati, se fosse investito del problema di un ripensamento dell'intera legi­slazione assistenziale quale è quello che in tal caso sarebbe costretto a fare».

Circa la competenza amministrativa, il relato­re ha chiarito: «secondo l'interpretazione che, secondo me, è di gran lunga preferibile sulla ba­se del testo costituzionale, e che oggi è soste­nuta da tutte le Regioni quale che sia la maggio­ranza di governo che si è formata in seno a cia­scun Consiglio regionale, l'attribuzione alla Re­gione della competenza amministrativa in una materia significa che la Regione è l'unico organo di amministrazione nella materia stessa. A dif­ferenza della competenza legislativa, nella quale resta di competenza di organi dello Stato la de­terminazione dei principi fondamentali, per quan­to attiene all'amministrazione non resta una plu­ralità di soggetti e di organi competenti nella stessa materia. Non ci sono due organi compe­tenti in materia turistica o in materia urbanisti­ca, uno appartenente all'amministrazione regio­nale e uno appartenente all'amministrazione sta­tale. Ciò risponde tra l'altro ad un criterio di buona amministrazione, quello che impone di e­vitare duplicazioni inutili di strutture amministra­tive e di evitare soprattutto la duplicità delle responsabilità, perché nel momento in cui la re­sponsabilità politica dell'amministrazione del settore spettasse contemporaneamente a due organi diversi, a due diversi centri di potere politico sarebbe facile scaricare dall'uno all'al­tro la responsabilità degli insuccessi, fare cioè il vecchio gioco dello scarica barile: lo Stato di­rebbe che la colpa è della Regione, la Regione darebbe la colpa allo Stato. Occorre che una sola sia l'amministrazione responsabile, e dunque uno solo sia il soggetto competente a interveni­re nel settore, così che esso porti di fronte all'opinione pubblica, di fronte alle masse, la re­sponsabilità politica dell'amministrazione del settore, senza potersene sottrarre. Ciò significa anche che tutto il finanziamento delle attività svolte nel settore (delle attività assistenziali nel nostro caso) deve passare attraverso la Regio­ne; non significa che sarà tutto destinato a finan­ziare attività direttamente svolte dalla Regione, ma che il finanziamento delle attività assistenzia­li pubbliche, da chiunque svolte, deve passare attraverso la Regione, cioè che non ci potrà es­sere più un'attività di finanziamento da parte del­lo Stato nel settore. Tutti i fondi destinati all'as­sistenza devono, in altri termini, passare attra­verso le Regioni che li ripartiranno, a seconda del sistema organizzativo imposto dalla legge quadro o prescelto dalla legge regionale, tra le unità locali, tra i comuni, ira le province, tra gli enti o istituzioni di assistenza. Competenza am­ministrativa esclusiva della Regione in materia assistenziale significa anche che non possono esistere enti pubblici nazionali dipendenti dallo Stato e finanziati dallo Stato nel settore. Non si può pensare infatti che lo Stato (il legislatore statale ordinario) possa sottrarsi all'obbligo che la Costituzione gli impone quanto al trasferimen­to delle funzioni amministrative alle Regioni semplicemente attribuendo l'esercizio di queste funzioni, in tutto o in parte, anziché ad organi dell'amministrazione statale, ad organi od enti pubblici ausiliari o strumentali dello Stato, quelli che costituiscono, come da alcuni si usa dire efficacemente, l'amministrazione indiretta dello Stato. Se pensassimo che basta costituire un ente pubblico nazionale competente in materia assistenziale, l'ONMI per esempio, per eludere la disposizione costituzionale che stabilisce la competenza regionale in materia, ammetterem­mo che la Costituzione ha scritto una cosa e la legge ordinaria, in sostanza, ne può fare un'altra; con la legge ordinaria istituente una serie di

enti, lo Stato cesserebbe bensì infatti di gestire mediante gli apparati burocratici della sua ammi­nistrazione il settore in questione, ma in sostan­za continuerebbe ad intervenirvi come prima, benché mediante enti pubblici finanziati, diretti e controllati dallo Stato, nei confronti dei quali lo Stato ha poteri di direzione, di vigilanza, di controllo, di nomina di tutti o di parte dei compo­nenti degli organi dirigenti».

Il relatore, dopo aver dettagliatamente analiz­zato le gravi e anticostituzionali limitazioni de­gli schemi di decreto delegato per il trasferi­mento delle competenze assistenziali alle Re­gioni, ha concluso affermando che per modificare l'inaccettabile impostazione del Ministero dell'in­terno e per l'attuazione delle regioni «non ba­sta l'impegno delle forze politiche organizzate in Parlamento, anche ammesso che ve ne siano molte che intendono impegnarsi in questa dire­zione. Né basta neppure l'impegno delle Regio­ni. Occorre che il problema della riforma e della regionalizzazione dell'assistenza venga fatto pro­prio dalle masse e non soltanto dai vertici poli­tici. Non è problema che possa risolversi con un dibattito e con un accordo al vertice in sede di contrattazione della “politica delle riforme”, ma è un problema che si risolverà solo sotto la spinta di una pressione di base che costringa le forze politiche e in primo luogo il Parlamento a convincersi della necessità di una radicale ri­forma con l'integrale regionalizzazione dell'atti­vità amministrativa in materia assistenziale, ma insieme con una profonda revisione dei principi che oggi governano la legislazione statale sull'assistenza».

 

Relazione di E. Ranci Ortigosa su «Le unità lo­cali dei servizi: una alternativa da verificare nella teoria e nella pratica».

Il relatore ha premesso che «il nostro siste­ma assistenziale presenta dei caratteri obiettivi che giova riassumere: la finalità repressiva (non per nulla il Ministero dell'interno vi ha un ruolo di primo piano); la sua discrezionalità, che si le­ga tanto alla finalità di controllo come all'utiliz­zo clientelare; il suo taglio classista, lesivo della dignità dell'assistito; la sua strumentazione e­marginante, per istituzioni chiuse; la sua gestio­ne centralizzata e burocratizzata ed insieme però frammentaria, per l'articolazione degli interventi in ordine ad astratte categorie e non alla persona unitariamente considerata; da cui la rigidità, lo schematismo, le sovrapposizioni ed i vuoti, la deresponsabilizzazione, l'impersonalità. Di fron­te ai processi sociali anche drammatici ed a ca­renze gravissime, le istituzioni pubbliche, anche nella funzione assistenziale, nel nostro sistema non vanno oltre queste finalità difensive: inter­venire per sottoporre a controllo quelle situazio­ni individuali o collettive che risultino pericolose e conflittuali rispetto all'«ordine sociale»; sop­perire alle necessità strettamente «vitali» di quanti non hanno la possibilità, con le loro risor­se individuali, di sopravvivere in tale contesto competitivo. Questo comporta anche la riduzione delle degenerazioni più drammatiche del siste­ma, e quindi delle tensioni sociali e politiche e dei processi contestativi che su di esse potreb­bero innestarsi portando la contestazione sulle stesse strutture sociali. Tanto la finalità di con­trollo come quelle più strettamente assistenziali tendono correntemente non ad aiutare il sogget­to a reinserirsi come componente libera e attiva nei rapporti sociali, ma piuttosto ad estraniarlo definitivamente, sia attribuendogli un sussidio, che lo lasci vegetare passivamente ai margini della società, sia isolandolo in istituzioni appo­site, inglobanti e totalizzanti, da cui non sia più in grado di perturbare o disturbare oltre il con­veniente i processi sociali ed economici. Per la nostra mentalità un bambino chiuso in un isti­tuto, che sia curato adeguatamente, è cosa logica. Come è «logico» che l'handicappato fisico e psichico sia confinato in un istituto, che il bam­bino «ritardato» sia messo in una classe diffe­renziale, che il minore «disadattato» sia chiuso in un riformatorio. Tutto questo è coerente per una società a base individualistica, selettiva e competitiva: chi non possiede i necessari re­quisiti o aiuti per reggere al ritmo e chi non si adegua alla marcia prefissa, non può rimanere nel contesto sociale, dove non potrebbe che soc­combere o ribellarsi. La società deve quindi provvedere umanitariamente per prevenire le possibili degenerazioni, e mettere tali persone al sicuro, in compagnia di «loro simili». Conte­stare questa assistenza significa allora anche ri­bellarsi al livellamento, alla uniformità imposta, alla massificazione, per rivendicare spazio alla originalità personale, per affermare un concetto di socializzazione come valorizzazione di apporti individuali e di gruppo differenziati, posti in si­gnificativo e costruttivo rapporto nella esperien­za quotidiana».

Essenziale è responsabilizzare la società per la socializzazione di tutti i suoi membri: «si trat­ta infatti di non situare la società in una posi­zione solo passiva, notarile o peggio repressiva nei confronti delle difficoltà di rapporto e inseri­mento del singolo, ma di riconoscerle una fun­zione attiva di sollecitazione della partecipazione libera e responsabile di ciascuno, in una prospet­tiva che non valuta l'uomo solo per quanto può rendere economicamente, ma per quello che è, come persona umana. In questa prospettiva ci pare si possa valorizzare la crisi dell'assistenza e la necessità di una sua riforma come occasio­ne di superamento del circolo vizioso fra: emar­ginazione di quanti presentano difficoltà di vario genere e deresponsabilizzazione della società nei loro confronti. Se rifiutiamo l'approccio indi­vidualistico, e affermiamo quello socializzante, allora possiamo ricercare un diverso rapporto fra singolo e società, alternativo a quello della esclusione, per cui la presenza della persona con difficoltà nel contesto sociale stimola la col­lettività a cercare una risposta a questa doman­da, offrendo i necessari servizi, per consentire alla persona una partecipazione più libera ed at­tiva all'esperienza sociale; nello stesso tempo la persona in difficoltà, vivendo nella collettività, entra in dialogo costruttivo con essa, si confron­ta con tutti gli stimoli che la molteplicità dei rapporti sociali può offrire. Socializzazione infat­ti non significa livellamento, uniformità impo­sta, ma piuttosto valorizzazione delle diversità, degli apporti originali e differenziati, posti in si­gnificativo e costruttivo rapporto a vantaggio del­la società intera. Questo nuovo e diverso rap­porto di scambio singolo-collettività, alternativo a quello dell'esclusione, può essere realizzato solo nella misura in cui non solo degli specialisti, ma la collettività sociale nel suo complesso, nel­la sua dimensione politica quindi, si fa carico di questo impegno continuo e generalizzato di so­cializzazione. Solo così infatti la collettività è sollecitata ad elaborare, ad intervenire, a gesti­re, maturando così in questa prospettiva moral­mente, culturalmente, politicamente. Ove la col­lettività rimanga infatti indisponibile, escludente, non c'è intervento di specialista che possa risul­tare efficace, perché è la stessa società che si struttura e vive secondo un sistema emarginan­te. Tanto più che lo stesso ruolo e mentalità del­lo specialista sono condizionati dalle strutture e dai modelli che la società nel suo complesso vive ed alimenta. È necessario quindi rendere istituzionale la responsabilità della società ver­so i suoi membri in difficoltà, promuovendo una struttura di ordine politico che si proponga come fine l'organica socializzazione di tutti i membri della comunità di cui è espressione democrati­ca; predisponendo e gestendo gli interventi di ri­mozione degli ostacoli e di incentivazione della partecipazione che risultino più adeguati. A tale istituzione andrà riconosciuto anche il potere e attribuiti i mezzi per rispondere adeguatamente alla domanda sociale, pena il creare una espe­rienza soprattutto frustrante. Data la diversità delle posizioni presenti nella società anche in ordine alla prestazione dei servizi sociali si in­staurerà un positivo confronto culturale e poli­tico, che troverà riscontro nella raccolta del con­senso e nel conseguente orientamento degli or­gani politicamente responsabili. Per assolvere alla funzione indicata questi devono essere e­spressione di un massimo di partecipazione de­mocratica, che vada oltre il momento elettorale per contemplare esperienze di autogestione, strumenti di pubblicizzazione delle scelte e di controllo ed iniziativa di base, incontri assem­bleari e di consultazione diretta degli utenti (re­ferendum). Per realizzare insomma una effettiva gestione sociale dei servizi».

Indicata la necessità di unificare l'impostazio­ne e la gestione dei servizi sociali per adeguare strutture e interventi ai bisogni del cittadino, della famiglia, del gruppo e del quartiere, pro­muovendo una partecipazione stimolatrice di un forte impegno critico, il relatore ha precisato che «il luogo naturale di tale gestione sociale dei servizi è l'ente locale che potrà trovare anzi in questa esigenza l'occasione storica per una rivalutazione politica, e per quel ripensamento e quella ristrutturazione che ne sono condizione. Solo infatti acquisendo la competenza e la capa­cità di gestire globalmente la risposta alle esi­genze sociali che sorgono in ordine all'insedia­mento e ad una convivenza sempre più umana e socializzata nel territorio, l'ente locale può ri­proporsi come centro democratico di autoge­stione dei problemi che alla comunità si pongono in modo più immediato e diretto nel corso del suo sviluppo. D'altra parte non si può non teme­re anche un ulteriore svuotamento dell'ente lo­cale, ridimensionato di volta in volta nella sua competenza e funzione politica, da strutture che possono anche contemplare momenti di parteci­pazione democratica, ma che rimangono setto­riali. Si arriverebbe così ad una serie di istitu­zioni rappresentative a competenza circoscritta, per conseguenza con la definitiva rinuncia ad una programmazione davvero democratica dei servizi nel loro complesso, come compito qua­lificante e rivitalizzante di un ente locale ripen­sato e riformato, anche in funzione di tale com­pito, nelle sue dimensioni, nella sua organizza­zione, nel suo rapporto con la collettività. È chia­ro come questo tipo di prevenzione va persegui­to in primo luogo superando le carenze dei vari settori della politica sociale: scuola, casa, rap­porti di produzione, occupazione, previdenza, pri­ma ancora che con interventi strettamente assi­stenziali. Non si vede quindi come una politica dei servizi possa essere programmata e gestita indipendentemente da una politica sanitaria, da una politica scolastica e culturale, da una poli­tica del tempo libero, da una politica della casa e del territorio. E questo non solo a livello na­zionale o regionale, ma proprio a livello dell'ente locale, dove appunto diversi interventi devono produrre una risposta organica, globale, unita­ria alle attese sociali. Il diritto alla salute, ai ser­vizi sociali, al lavoro, all'istruzione, al tempo li­bero, rappresenta un complesso interdipendente dei diritti che il cittadino deve esigere in modo unitario e globale. L'adeguatezza della risposta non può essere garantita dalla concentrazione e dall'autocoordinamento degli organi settorial­mente responsabili, come l'esperienza insegna, ma solo dall'inquadramento dei diversi servizi in un'unica struttura, programmata e controllata dall'ente locale. Quest'ultimo quindi deve godere in proposito di adeguata autonomia, potere ed elasticità di gestione».

L'unità locale viene concepita come «una strut­tura tecnico-organizzativa di base, gestita diret­tamente dal comune, dalle zone di decentramen­to urbano, dal consorzio obbligatorio di piccoli comuni delle aree a insediamento disperso, ido­nea a garantire in modo partecipato, organico, efficiente le infrastrutture comunitarie e le pre­stazioni necessarie all'autosufficienza ed alla socializzazione dei cittadini. Si dovrà certo tene­re presente la non corrispondenza nelle dimen­sioni ottimali in ordine alla prestazione di servi­zi diversi. Le corrette esigenze tecniche potran­no essere soddisfatte grazie ad una attenta di­stribuzione delle competenze di programmazio­ne, gestione e controllo in ordine alle diverse materie, tra livello regionale e livello delle Unità locali. In alcuni casi il servizio potrà essere pro­grammato e gestito esclusivamente a livello lo­cale, salvo gli indirizzi generali e le risorse finan­ziarie offerte dalla Regione; in altri, all'opposto, la competenza locale potrà ridursi al controllo sull'adeguatezza ed efficienza delle prestazioni. Possono poi essere individuate tutte le articola­zioni tecnico-organizzative necessarie (macro­comprensoriali, provinciali, ecc.). Tale elasticità dovrebbe permettere la composizione ottimale sia di esigenze politico-democratiche che di esi­genze funzionali, ripartendo con elasticità poteri e compiti tra gli enti interessati. Va riconosciuto che il dibattito sul «livello intermedio» fra quel­lo locale e quello regionale non ha ancora porta­to alla maturazione di valutazioni conclusive, coinvolgendo d'altra parte la necessaria, anche se graduale, ridefinizione dello stesso ente lo­cale, in ordine a costituirlo come centro funzio­nale, politicamente ed amministrativamente, all'esercizio di certi compiti. Finché l'ente comune presenterà l'attuale varietà (dalle poche centi­naia ai milioni di cittadini) il discorso deve necessariamente specificarsi. La proposta del con­sorzio per le aree rurali e del decentramento per le aree metropolitane deve mirare appunto ad avviare un processo di ristrutturazione anche ar­ticolato su esperienze differenziate. Il dibattito sul livello intermedio deve necessariamente an­che confrontarsi con l'attuale provincia, per una scelta fra: (a) la sua trasformazione, con l'assor­bimento delle funzioni comprensoriali, che ne rivaluti quindi la funzione; (b) il suo ridimensio­namento progressivo creando e potenziando inve­ce il comprensorio; (c) la sua abolizione pura e semplice.

Infine il relatore ha affrontato il problema del controllo democratico e delle esperienze auto­gestionali.

Dopo la relazione di Ranci Ortigosa sono state riferite alcune esperienze di base in linea con il superamento dell'intervento assistenziale.

Nel dibattito sono intervenuti parlamentari, amministratori regionali e comunali, sindacalisti, lavoratori e operatori sociali.

Il convegno, concepito come l'inizio di una campagna che abbia suoi momenti centrali e pe­riferici, ha messo delle forze in movimento. Si tratta ora, come auspichiamo, di raccogliere le indicazioni emerse e di associare forze operaie con gruppi sociali vari, trovando specifiche con­troparti in enti, istituti, amministrazioni locali per condurre uniti la lotta contro l'emarginazione sociale e ottenere servizi sociali aperti a tutti.

 

 

 

 

(1) Il documento è stato riportato da Prospettive assistenziali, n. 14, pag. 4 e segg.

(2) Lo schema di decreto delegato predisposto dal Ministero dell'interno è stato riportato su Prospettive assi­stenziali, n. 14, pag. 8 e segg.

 

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