Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre
1971
ATTUALITÀ
Dal gennaio al luglio 1970, un
gruppo di esperti, costituito presso
Difesa degli istituti e
dell'istituzionalizzazione
(1)
Innanzi tutto occorre rilevare che
nel documento manca un'analisi delle cause socio-politiche dell'emarginazione
e non viene pertanto evidenziato quale sia il ruolo che oggi svolgono gli
istituti di ricovero, siano essi pubblici o privati. Ma, forse questa mancanza non è casuale.
Infatti il documento è stato chiaramente impostato
a difesa degli attuali istituti di assistenza all'infanzia, ai quali sono
indicati «i requisiti di idoneità aggiornati (...) secondo livelli ritenuti
oggi soddisfacenti» (pag. 9).
Una ulteriore conferma che
La nostra delusione è profonda poiché riteniamo che occorra partire dai bisogni
dei bambini e dei fanciulli e analizzare se gli istituti di ricovero possono
essere ritenuti ancora oggi una soluzione valida, un ripiego accettabile.
Ma non si tratta solo di una volontà
di razionalizzazione.
Si vuole ben altro!
In primo luogo è stupefacente
l'analisi della emarginazione sociale. Nel documento si afferma che «nel riservare certe forme di aiuto ai
poveri, di fatto, si finisce, sia pur involontariamente, con l'emarginarli
dalla società». Per ovviare a detto «inconveniente»
viene proposto che «sia previsto, e non solo consentito, l'accesso agli
istituti di minori provenienti da qualsiasi ambiente economico» (pag. 12).
Pertanto, il numero degli istituti, se essi accoglieranno non solamente minori
poveri ma anche quelli benestanti, è destinato ad aumentare e l'istituzionalizzazione
non costituirà più una forma di emarginazione sociale
essendo ricoverati insieme ricchi e poveri!
Questi assurdi concetti sono
ritenuti talmente importanti che vengono ripetuti a
pag. 46: «sia non solo consentito per motivi di principio, ma previsto e
favorito sul piano metodologico, l'accesso allo stesso istituto di minori provenienti
da famiglie con diverse possibilità economiche, nell'intento di costituire le
indicazioni ambientali ed educative più idonee, per lo sviluppo della
personalità e della socialità del minore!» (2).
Circa il ruolo dell'istituto viene
genericamente affermato che è un servizio integrativo della famiglia: «la famiglia, per il ruolo che le è proprio, è la responsabile
primaria dell'educazione dei figli. Pertanto quando essa presenta delle carenze, va aiutata con appositi servizi rivolti a
integrare, rafforzare o recuperare la sua capacità ad assolvere il proprio
compito; quando invece fosse inesistente o gravemente carente, va sostituita
con la famiglia adottiva o affidataria; per cui solo
in mancanza e in attesa che questa possibilità si verifichi, si può procedere
al temporaneo (3) affidamento ad un istituto educativo assistenziale» (pag.
19).
Nessuna indicazione, neppure
generica è data sul dovere che a nostro avviso tutto il personale degli
istituti e le commissioni nazionale, regionali e diocesane di
assistenza hanno di svolgere un'azione promozionale nei confronti delle
autorità e dell'opinione pubblica affinché l'aiuto economico e/o sociale alle
famiglie d'origine, l'adozione e l'affidamento familiare a scopo educativo non
restino delle enunciazioni formali destinate solo a salvare le apparenze.
I cosiddetti
gruppi-famiglia (4)
Il documento consiglia che «allo
scopo di attivizzare le potenzialità non ancora
espresse del minore, l'istituto educativo-assistenziale
organizzerà la vita di comunità sul modello della famiglia per non sovrapporsi
al ruolo di essa (sic) e nell'intento di facilitare il rapporto educativo con
il soggetto, perché questi possa sentirsi più partecipe in un ambiente consono
alle sue esigenze» (pag. 21). È raccomandato che i ragazzi siano suddivisi in
gruppi di piccole dimensioni: di «6-7 soggetti possibilmente di età diverse» per i bambini dai 3 ai 6 anni (pag. 28), di
«circa 10-12 bambini» per quelli dai 6 ai 12 anni (pag. 32), senza indicazioni
per gli adolescenti (dai 12 ai 18 anni).
Ma numerose sono le nostre riserve
sulla validità dei cosiddetti gruppi-famiglia.
Sperimentazioni accurate sono state compiute sulle possibilità concrete di
ovviare alla carenza di cure familiari, da cui sono colpiti i bambini
ricoverati in istituto.
Fra le altre, significativa
è quella condotta dal
Quando vi giunse I'Aubry,
le condizioni dell'istituto non erano certo ideali,
ma solo mediocri; vi erano dei bambini che erano stati lungamente
(6) separati dalla madre ad un'età variante da uno a quattro anni.
L'Aubry
introdusse nell'istituto personale altamente specializzato (psicologi,
psicoterapisti, pediatri, assistenti sociali ecc.), quello in servizio venne qualificato; il rapporto personale-bambini fu portato
a
Le conseguenze di tali innovazioni
si fecero sentire, ma afferma l'Aubry che: «lo studio
di insieme di tutti i tests,
indipendentemente dagli stessi esami, e il rapporto dei risultati conseguiti
di anno in anno hanno dimostrato che i cambiamenti introdotti nel
l'organizzazione dell'istituto sono stati efficaci e hanno consentito un
miglioramento delle condizioni psico-motorie e affettive dell'insieme dei
bambini, senza inficiare peraltro la certezza della nocività degli istituti
di assistenza infantile» (7) e conclude «lo scopo da perseguire è la
progressiva soppressione degli istituti assistenziali per l'infanzia» (8).
Altre riserve si possono avanzare
sui gruppifamiglia:
1) i rapporti interni sono alterati
rispetto a quelli della famiglia in quanto manca per lo più una figura paterna;
2) vi è un notevole avvicendamento
delle figure materne (e di quella paterna quando esiste) causato dalla giusta
rivendicazione delle 40 ore settimanali da parte del personale, dalle assenze
per festività, ferie, malattie (9);
3) pure alterati sono i rapporti
interni per la mancanza o la grave difficoltà di legami fra i ragazzi di
ciascun gruppo, fatto dovuto anche ai frequenti cambiamenti (nuove ammissioni,
ritorni in famiglia);
4) i rapporti fra i vari gruppi sono
anomali, trattandosi di ragazzi che hanno uguali problemi di disinserimento sociale;
5) la disciplina interna
dell'istituto (anche se limitata al massimo) crea un clima artificiale e rigido
a causa delle regole imposte: sveglia, pranzi, tempo
libero, uscite, ecc.;
6) gli educatori, anche se
specializzati, non possono impegnare profondamente la loro personalità come
accade ai genitori d'origine, adottivi o affidatari.
Altre critiche potrebbero essere fatte,
ma si ritiene che quanto esposto sia già sufficiente per affermare che i gruppi-famiglia si sono indebitamente appropriati del
termine «famiglia».
Un aspetto degno di rilievo è il fatto che il documento elaborato dagli esperti
incaricati dal
Una prova ancora, se ve ne fosse
bisogno, dell'uso indebito del termine «famiglia» per indicare i gruppi.
Aspetti giuridici e
organizzativi
Nel documento vengono
richiamati solo gli obblighi legali che sono stati pubblicizzati in questi
ultimi tempi (preventiva autorizzazione a funzionare ai sensi dell'art. 50 del
R.D. 15 aprile 1926 n. 718 e invio degli elenchi trimestrali di cui alla legge
5 giugno 1967 n. 431 sull'adozione speciale). Viene però taciuto che
l'inosservanza delle suddette disposizioni di legge costituisce reato (art. 665
e 328 del codice penale).
Seguendo la discutibile linea
interpretativa dell'ONMI, il documento afferma che non sono soggette al
riconoscimento di idoneità le istituzioni comunque
funzionanti anteriormente all'entrata in vigore del R.D. 15 aprile 1926 n.
718. Nulla, viene detto degli obblighi per gli istituti
(mai rispettati e fatti osservare anche se penalmente perseguibili) previsti
dagli art. 19 e 20 del R.D. 24 dicembre 1934 n. 2316, concernenti la
segnalazione all'ONMI dei minori ricoverati e di quelli affidati a privati e la
notifica delle dimissioni dei fanciulli.
A pag. 60 il documento afferma che
«sarebbe opportuno che presso ogni istituto vi fosse una cartella personale per
ciascun minore, contenente, oltre la scheda sanitaria, quella
informativa, scolastica, del comportamento, ecc.», dimenticando che vi
è un preciso obbligo, previsto dall'art. 194 del R.D. 15 aprile 1926 n. 718.
Nulla viene
detto sul problema assai importante della tutela dei minori ricoverati ed è
noto che molti sono i fanciulli istituzionalizzati che sono privi di tutore. Al
riguardo si osserva che l'art. 343 del codice civile prescrive «Se entrambi i genitori sono morti o per altre cause non
possono esercitare la patria potestà, si apre la tutela presso la pretura del
mandamento dove è la sede principale degli affari e interessi del minore».
Si osservi altresì che l'art. 402
c.c. affida all'istituto di assistenza all'infanzia «i
poteri tutelari sul minore ricoverato o assistito, fino a quando non si
provveda alla nomina di un tutore».
Ma forse i tutori sono scomodi,
potendo essi esercitare un'azione di controllo sul trattamento riservato ai
minori più incisiva di quella affidata alle
innumerevoli autorità preposte, che spesso non la svolgono o la esercitano solo
sul piano formale e con visite preannunciate.
Conclusioni
Il documento elaborato dal gruppo di esperti costituito presso la segreteria della Conferenza
episcopale italiana, sul quale abbiamo fatto solamente le osservazioni che
abbiamo ritenuto più importanti, conferma le preoccupazioni che avevamo
espresso con la pubblicazione della documentazione relativa alla istituzione
delle commissioni e consulte nazionali, regionali e diocesane di assistenza
(10).
Avevamo infatti
scritto: «riteniamo che l'iniziativa potrà dimostrarsi positiva se il lavoro di
dette commissioni e consulte sarà diretto al superamento della
contrapposizione, oggi assurda, fra assistenza pubblica e assistenza privata,
affinché si possa giungere alla gestione comunitaria dei servizi sociali».
Purtroppo il documento è diretto, come
abbiamo visto, alla difesa degli istituti e
addirittura al loro potenziamento.
A nostro avviso, è praticamente impossibile attendere dalla C.E.I. spinte per
il superamento dell'istituzionalizzazione. Tanto meno vi è da attendere azioni in tal senso da parte degli istituti.
È pertanto necessario, tenendo anche
conto dell'esperienza maturata dalla lotta condotta contro l'istituzione
manicomiale, impegnarsi nella creazione di soluzioni alternative al ricovero
dei fanciulli (11) e non nella richiesta di miglioramenti
degli istituti, richiesta che li rafforzerebbe, siano essi pubblici o privati,
statali o comunali, laici o religiosi.
(1) Nel documento vi
sono delle affermazioni accettabili, ma si tratta di cose ovvie alla coscienza
comune anche se costituiscono per l'ambiente degli istituti, se realizzato,
un certo progresso.
(2) Se l'analisi
sull'emarginazione sociale fatta dagli esperti della C.E.I. fosse corretta, non
si dovrebbe limitare il discorso all'inserimento di benestanti negli istituti
che attualmente ricoverano soltanto bambini e ragazzi poveri. Per coerenza essi
avrebbero dovuto anche sollecitare l'inserimento di bambini e ragazzi poveri
nelle istituzioni che attualmente ospitano figli di
benestanti (istituti educativi, convitti, collegi).
(3) A pagina 33 del
documento viene scritto «alla fine di ogni anno è necessario che l'istituto
esamini con la famiglia le concrete possibilità di rientro del fanciullo nel
suo normale ambiente di vita». Perché solo alla fine di ogni
anno? Perché l'istituto deve esaminare le possibilità
di rientro solo con la famiglia e non ricercare soluzioni familiari anche con
adottanti, affidatari, enti, autorità giudiziaria?
(4) Una critica sui
gruppi-famiglia è stata fatta da F. SANTANERA, Gli istituti di assistenza all'infanzia e i
cosiddetti gruppi-famiglia, in «La famiglia», novembre-dicembre 1970, pag.
506 e segg., dal cui
articolo abbiamo ampiamente tratto per la stesura di questa parte.
(5) I risultati della
sperimentazione sono stati pubblicati nel libro di JENNY AUBRY, La carence de soins maternels, Centre international de l'enfance,
Paris, 1955.
(6) Per lunghe
separazioni l'Aubry intende quelle di durata
superiore ad un mese.
(7) J. AUBRY, op.
cit., pag. 29.
(8) J. AUBRY, op.
cit., pag. 183.
(9) Per il personale
femminile si calcola che la media annuale delle giornate effettive di lavoro
sia di 180-200. Considerato che la settimana comprende 168 ore, ne risulta la necessità di un numero notevole di persone
per assicurare la presenza continua in ciascun gruppo.
(10) Vedasi Prospettive assistenziali, n. 11-12,
luglio-dicembre 1970, pag. 17 e segg.
(11) Vedasi al riguardo
Prospettive assistenziali e in
particolare i numeri 11-12, 13 e 14.
www.fondazionepromozionesociale.it