Prospettive assistenziali, n. 16, ottobre-dicembre
1971
STUDI
ASPETTI
PSICO-SOCIALI DELL'AFFIDAMENTO FAMILIARE (1)
GUIDO CATTABENI
In un recente studio di Alain Henry
(2) sui rapporti tra situazione socio-economica nelle varie epoche storiche
del mondo occidentale e forme d'intervento nei confronti dei minori privi di
ambiente familiare normale viene sottolineato come in una società di tipo
agricolo o artigianale caratterizzata da una economia di sopravvivenza, e da
una larga solidarietà di gruppo che rende tenui i confini tra la singola
famiglia ed il restante spazio sociale non sia necessario creare istituzioni
per i minori privi di ambiente familiare per il semplice fatto che le singole
famiglie costituiscono un unico gruppo, un'unica grande famiglia, una tribù
ecc.; nessun bambino resta abbandonato quando perde i genitori perché è fin
dalla nascita un vero e proprio componente della comunità, di cui la comunità
ha bisogno, tanto da non potersi permettere il lusso di escluderlo.
La necessità di emarginare, di
escludere i bambini e quindi la comparsa degli istituti è fatta coincidere da Henry con la nascita della società
industriale nel XVII e XVIII secolo, della società cioè dominata dal bisogno di
produrre e dal bisogno di accumulare capitali per creare gli apparati di
produzione.
Tutti coloro
che non producono costituiscono in questo tipo di società un peso morto e vengono
sistemati sempre più in modo da richiedere la minore spesa possibile.
Il passaggio che si sta da qualche
tempo verificando dalla società industriale a quella dei consumi, ad una
società cioè che richiede di spendere per poter
sopravvivere, sta portando ad una valorizzazione dei bisogni, dei desideri e ad
un recupero sociale di tutti i consumatori, specialmente di quelli che, come i
bambini, sono caratterizzati da un rapporto produzione-consumo completamente
spostato a favore del secondo.
Invocare l'abolizione degli
istituti, lottare contro la emarginazione e
l'esclusione risulterebbe, in questo quadro, un'esigenza di quella società dei
consumi che sta strumentalizzando ogni individuo per i suoi fini; l'adozione e
l'affido sarebbero degli strumenti del sistema sociale neocapitalistico,
strumenti che contribuirebbero alla sua sopravvivenza.
Questo modo di vedere, questa teoria se da una parte è affascinante perché apre gli
occhi sugli aspetti socio-economici del problema, aspetti per troppo tempo
trascurati, è tuttavia eccessivamente deterministica
e riduzionista. Con ciò non voglio sottovalutare
l'importanza degli aspetti socio-economici del problema, anche perché ad essi soprattutto si devono attribuire le difficoltà che in
gran parte della società occidentale stanno incontrando la battaglia contro
l'emarginazione e l'affermazione di interventi assistenziali come ad esempio
l'affido.
Voglio semplicemente dire che esistono valori, idee, verità che non sono
semplicemente il risultato di esigenze economiche, ma sono assolute ed
autonome tanto da avere in sé stesse una forza rivoluzionaria, capace
d'influire anche sul sistema economico, piegandolo al servizio dell'uomo.
L'affido familiare di bambini che
non possono rimanere nella propria famiglia di origine,
nasce proprio dalla fede in idee e valori che si oppongono radicalmente a
quelli cui si ispira la società produttivistica e consumistica in cui viviamo
oggi.
Non entrerò in dettagli, mi limiterò
a ricordare i valori e le idee di fondo delle Dichiarazioni
Universali dei diritti dell'uomo e del fanciullo, dalle quali indubbiamente
nasce l'affidamento come risposta necessaria alle esigenze di quei bambini che
sono handicappati dalle sofferenze della propria famiglia. Proprio la fede in
questi valori accompagnata dalla sempre più vasta presa di coscienza delle
condizioni psico-affettive che consentono un
equilibrato e pieno sviluppo della personalità nell'età evolutiva ha negli ultimi anni dato origine ad un movimento di rifiuto
dell'istituto come risposta ai bisogni dei bambini privi di idonea assistenza
familiare.
Ciò anche in quei paesi, come
l'Italia, che vanno cercando di organizzarsi secondo
criteri di massima efficienza produttiva, con l'esclusione in ghetti di tutte
le persone non efficienti.
La convinzione che le condizioni ottimali di sviluppo della persona non siano
reperibili, nel nostro sistema socio-culturale, se non all'interno di un nucleo
familiare sano ha spinto innanzitutto a rinnovare totalmente l'istituto
dell'adozione, allo scopo di dare una famiglia ai bambini che praticamente
non l'avevano mai avuta o non l'avevano più. La stessa convinzione, cui si è
aggiunta per sopramercato la constatazione delle gravi carenze
esistenti nella maggior parte degli istituti per minori, ha aumentato
l'angoscia degli operatori sociali del settore e dell'opinione pubblica più
matura e sensibile nei confronti dei bambini attualmente istituzionalizzati.
Tale disagio è in qualche nazione, e l'Italia è tra esse,
reso ancor più grave dal fatto che l'attuale sistema assistenziale costringe
gli operatori sociali a ricorrere all'istituzionalizzazione in un numero
relativamente molto alto di casi.
Il bisogno di togliere dagli istituti
tutti i bambini ha riportato sul tappeto,
violentemente, da qualche tempo la soluzione affido etero-familiare.
In effetti l'adozione, mentre è necessaria per
quei bambini definitivamente (e questo avverbio meriterebbe una serie di
considerazioni che purtroppo ora non è possibile fare) privi di famiglia, non
è tuttavia sufficiente a far chiudere gli istituti. Vi sono e vi saranno
chissà per quanto tempo ancora centinaia di migliaia
di bambini in tutto il mondo per i quali non è giusto troncare i rapporti con
la famiglia d'origine (perché essa è solo temporaneamente impedita a svolgere
le sue funzioni o perché parte di essa è ancora valida anche se non
sufficiente).
Per questi bambini l'emarginazione
negli istituti può essere diminuita solo se famiglie aperte e disponibili si
affiancheranno a quelle in difficoltà per accoglierne i figli e per crescerli
insieme.
È questa certezza che ha indotto gli
operatori sociali, tecnici e molte famiglie coraggiose e aperte a buttarsi con
molte speranze sulla via, in parte ignota ma ricca di speranze, dell'affido.
I primi passi hanno tuttavia fatto
capire subito che è una strada oggi attualmente più
difficile di quello che si poteva immaginare.
Certamente più difficile
dell'adozione, alla quale non possiamo riferirci né per immaginarci le
difficoltà da affrontare, né per ricavarne una metodologia operativa.
Il punto cruciale dal quale traggono
origine queste differenze sostanziali tra adozione ed affido è quello del
rapporto con la famiglia di origine che nell'affido
non solo non viene troncato, ma è indispensabile. Se non esiste il rapporto con
la famiglia di origine non si può parlare, se non
formalmente, di affido. Si tratta in questo caso sostanzialmente di adozioni, che hanno le vesti giuridiche dell'affido.
Cercherò di elencare difficoltà,
limiti e problemi di questa soluzione che sono emersi
nelle prime esperienze realizzate.
Queste considerazioni sono emerse
grazie al costante e approfondito lavoro di analisi e
critica sia delle famiglie affidatarie che di quelle di origine.
1) L'affido etero-familiare del bambino deve essere inteso come uno
degli interventi messi in opera per aiutare una famiglia a ritrovare il proprio equilibrio e la propria
idoneità ad assolvere alle sue funzioni e non come intervento per strappare il
bambino ad una famiglia «cattiva».
La famiglia affidataria
è pertanto da considerare come parte integrante dell'équipe
psico-sociale che ha il compito di ricercare insieme
con la famiglia in difficoltà la soluzione dei suoi
problemi.
L'attuale situazione
delle strutture socio-assistenziali è spesso invece tale che alla
famiglia affidataria viene non solo affidato il
bambino, ma praticamente anche tutto il carico delle problematiche psico-sociali della sua famiglia di origine (sulla scia di
quanto in uso per la collocazione in istituto: il caso viene dato in carico
all'istituto che si vede costretto ad assumere assistenti sociali e psicologi
in proprio se vuole procedere insieme alla famiglia d'origine all'educazione
del minore e deve fornire relazioni periodiche all'ente assistenziale che
altrimenti resterebbe all'oscuro degli sviluppi successivi della situazione
del nucleo familiare di cui sarebbe responsabile).
Inutile dire
che tale sistema mette le famiglie affidatarie in gravi difficoltà per i
rapporti con le famiglie d'origine. Difficoltà che in genere determinano una
tendenza a rifiutare ed escludere la famiglia d'origine, vissuta come
disturbante e traumatizzante, con l'emergenza di ulteriori
difficoltà che si ripercuotono inevitabilmente sul bambino in affido.
2) L'affido diviene facilmente una
scappatoia per non affrontare le difficoltà che ostacolano l'estensione
dell'adozione, quali l'inadeguatezza delle strutture giudiziarie minorili e
soprattutto i criteri per la dichiarazione di stato
di abbandono oggi piuttosto restrittivi.
3) Togliere i bambini da una
famiglia «ammalata» o in difficoltà collocandoli in una famiglia
sana, permette di eliminare l'angoscia dell'innocente che soffre senza dovere
affrontare le ingenti spese per la realizzazione di un servizio di assistenza
familiare, terapeutico e soprattutto preventivo.
4) L'affido presenta problematiche
del tutto nuove e in parte drammatiche per chi è cresciuto in una cultura che
ha esasperato l'individualismo, la difesa della proprietà privata da ogni
intromissione estranea, l'isolamento sociale (famiglia
nucleare). Ad esempio: responsabilità e doveri di due famiglie nei
confronti dello stesso bambino; problematiche affettive che il rapporto con due
famiglie suscita nel bambino, tanto maggiori quanto più è piccolo.
Perché l'affido non sia fonte di
difficoltà insormontabili per una famiglia normale è
necessario che esso sia fin dal suo inizio programmato e protetto (durata,
rapporti tra le due famiglie, decisione del rientro in famiglia d'origine,
ecc.). Tale compito di programmazione, aiuto e decisione dovrebbe idealmente
essere affidato ad una équipe psico-sociale
di cui dovrebbe far parte integrante anche un magistrato minorile. Ma non
dovrebbe trattarsi di una équipe che interviene unicamente quando si siano realizzati degli affidi, bensì di
un'équipe operante nella comunità con compiti di
assistenza familiare ampi ed elastici, che avesse facoltà di mettere in opera
gli interventi assistenziali più idonei per ogni caso (dall'assistenza
economica a quella psico-terapica, dall'adozione all'affido ecc., secondo le
esigenze di ogni situazione), seguendoli successivamente nei loro sviluppi.
Solo in questo modo si realizzerà la
condizione indispensabile di un'équipe inserita vitalmente in una comunità sociale, che possa conoscerne
le risorse, possa fin dall'inizio operare insieme alla famiglia d'origine e a quella affidataria, senza dannosi passaggi burocratici da
una competenza all'altra.
5) Va sottolineato
infine che un confronto fra le attuali esperienze di affido realizzate all'interno
di piccole comunità a struttura di tipo agricolo ed artigianale e quelle
realizzate nelle grandi comunità urbane in stato di avanzata industrializzazione,
mette in evidenza come nelle piccole comunità (comunità reali) gli affidi siano
molto meno problematizzanti per gli affidatari,
specie per quanto riguarda i rapporti con le famiglie di origine, di quanto non
succeda per gli affidatari delle grandi comunità industrializzate (pseudo comunità).
Mi pare di poter dire
che le prime esperienze di affido dimostrano come esso sia possibile solo se si
ispira a principi e valori ideali che sono in netto contrasto con quelli
imperanti nelle società così dette avanzate.
Le famiglie affidatarie non possono
assolvere il loro compito se non si aprono sulla comunità; non possono obbedire
al principio egoistico di perseguire unicamente il proprio benessere materiale
e psico-affettivo, ma devono lasciarsi condizionare
dalle famiglie sofferenti in nome della reciproca solidarietà; ed insieme ad altri operatori sociali agiscono da terapeuti sulla
comunità che è in genere la matrice delle sofferenze dei singoli e dei gruppi.
La famiglia affidataria
è così costretta a maturare per sé e per gli altri una nuova concezione della paternità e della maternità: non è più la singola
famiglia ad avere il monopolio educativo dei suoi figli, ma essa lo deve
dividere almeno con un'altra. È il primo passo per scoprire una verità
ineliminabile: gli adulti di una comunità sociale sono,
che lo vogliano o no, i genitori di tutti i bambini che alla comunità
appartengono, e sono tutti corresponsabili della loro crescita.
Chiudersi nella propria famiglia,
con i propri figli (adottivi o non, ha poca importanza) come in un'oasi
ovattata, dove magari regna anche un amore apparentemente profondo, per
proteggere sé stessi ed i figli da un mondo in cui
regna il cinismo, l'ingiustizia, lo sfruttamento, l'egoismo è una forma di
disimpegno e di deresponsabilizzazione, che oggi è
una forte tentazione, ma che va combattuta con tutte le nostre forze. Va combattuta
perché non è amore ma sentimentalismo sterile quello
che ci conduce verso un bambino sofferente per l'abbandono in cui si trova per
toglierlo da un mondo percepito come cattivo ed immergerlo nelle quattro mura
sicure di casa nostra dove imparerà l'egoismo di gruppo.
Nella nostra esperienza infatti molte sono le famiglie che si sono commosse
all'idea di bambini emarginati negli istituti ma poche sono state le famiglie
disposte a lasciarsi condizionare dai guai, dalle sofferenze, dai problemi
della famiglia d'origine (soltanto circa il 10% delle famiglie che si sono
accostate all'affido sono diventate affidatarie) .
In conclusione sono del parere che
oggi sia urgente convogliare ogni energia ed ogni
sforzo possibile verso l'incremento della soluzione «affido».
Tuttavia è indispensabile che ci si
renda conto chiaramente che non esiste alcuna possibilità di successo se ci si
muove con gli stessi criteri dell'adozione e cioè:
segnalazione di un bambino in condizioni di bisogno, scelta di una famiglia,
abbinamento.
L'affido può svilupparsi solo se è
il frutto di una comunità reale, che prende coscienza dei bisogni dei suoi componenti, che si sente responsabile della ricerca delle
soluzioni che evitino l'emarginazione del bambino, che abbia in se stessa gli
strumenti necessari per mettere in opera queste soluzioni e gestirle
liberamente.
(1) Relazione tenuta
alla 1ª Conferenza mondiale sull'adozione e sull'affidamento familiare (Milano,
16-19 settembre 1971).
(2) A.N. HENRY, L'evoluzione degli istituti per minori privi
di ambiente familiare normale nel suo contesto storico globale, in
«Prospettive assistenziali», n. 14, aprile-giugno
1971, pag. 20 e segg.
www.fondazionepromozionesociale.it