Prospettive assistenziali, n. 16, ottobre-dicembre 1971

 

 

LIBRI

 

 

M. SOULÉ, J. NOEL, F. BOUCHARD, L'affidamento familiare - Tecniche e prospettive, Armando Armando Editore, Roma, 1971, pagg. 157, L. 2.000.

 

Questo volume appare in Italia in un momen­to in cui si sta imponendo all'opinione pubblica e all'attenzione del legislatore il problema indi­lazionabile di una radicale riforma del settore as­sistenziale. La priorità data, dal primo dopoguer­ra ad oggi, a delle scelte e ad uno sviluppo eco­nomico strettamente tecnocratico e industriale ha comportato gravi costi umani e civili. I servizi assistenziali sono stati mantenuti nei limiti della loro concezione ottocentesca (assistenza intesa come beneficenza). Da tutti sono oggi conside­rati non solo come insufficienti, ma lesivi della dignità delle persone.

La loro organizzazione e il loro funzionamento dimostrano l'arretratezza con la quale furono con­cepiti ed inoltre la grave svalutazione di cui sono stati oggetto rispetto ad altri settori.

A livello delle strutture, la crisi dell'assi­stenza è evidenziata dalla situazione sempre più insostenibile degli istituti di ricovero di cui ven­gono individuate la funzione emarginante e le carenze funzionali. Non solo degli istituti per l'in­fanzia, la cui situazione ha ricevuto luce recente dalle indagini della magistratura a Roma e in al­tre città italiane, ma altresì dei settori dell'assi­stenza agli anziani e agli handicappati psichici, fisici, sensoriali e ai cosiddetti «disadattati so­ciali».

L'«istituzionalizzazione» ha in Italia una di­mensione elevatissima.

Il problema è reso più drammatico dalle con­dizioni gravemente deficitarie degli istituti: il personale educativo è numericamente inadegua­to e raramente specializzato, la struttura delle competenze e dei ruoli è mediata dal modello autoritario, lo stesso numero degli ospiti rende impossibile, ove ce ne fosse la volontà, un cor­retto e socializzato rapporto con l'esterno.

L'istituzionalizzazione in genere serve infatti ad evitare, per un periodo più o meno lungo, che il soggetto (bambino, anziano, handicappato) prema con i suoi bisogni insoddisfatti sulla rigi­dità delle strutture (scuola, famiglia, casa, ser­vizi socio-sanitari, ecc.).

Così l'intervento assistenziale si trova a co­prire spazi che non gli sono propri, perché i pro­blemi non risolti a livello generale (problemi dell'abitazione, della salute, del lavoro, dell'istru­zione ecc.) vengono affrontati, almeno per con­trollarne le conseguenze più vistose, nella loro dimensione individuale (i soggetti disadattati); inoltre tali problemi sono considerati con un'uni­ca strategia: quella dell'emarginazione da cui si esce o mediante un reinserimento in quelle stes­se situazioni che furono la causa del disadatta­mento o mediante una più totale e definitiva esclusione.

Questo stato di cose è sempre meno soppor­tato dall'opinione pubblica e da coloro che si occupano professionalmente del problema, per cui si sono avviate, sia pur faticosamente, solu­zioni quali l'aiuto economico e/o sociale alle fa­miglie d'origine, l'adozione (nei casi di mancan­za di cure materiali e morali da parte dei geni­tori o dei parenti tenuti a provvedervi).

Nei casi di effettiva impossibilità di realizzare quanto sopra, si fa sempre più spesso ricorso, anche in Italia, all'affidamento familiare retri­buito.

L'affidamento familiare trova infatti la sua ra­gione d'essere in una serie di fattori, due alme­no dei quali sono di particolare importanza pra­tica. Anzitutto un aspetto strettamente terapeu­tico: tramite l'affidamento, il minore la cui fami­glia si trovi nell'impossibilità o incapacità temporanea o definitiva di offrirgli dei rapporti affet­tivi armonici viene inserito in un altro nucleo familiare che è in grado di assicurarli.

L'importanza di un rapporto affettivo indivi­dualizzato è ormai riconosciuta come fondamen­tale per una maturazione armonica del bambino: si pensi ai lavori di Spitz, Bowbly, Anna Freud ecc. Meno sottolineato in genere, tuttavia, è in­vece il fatto che nell'affidamento (nei confronti del ricovero in istituto) vengono mantenute con­dizioni educative caratterizzate dalla possibilità, per il minore, di effettuare delle scelte fra una gamma di comportamenti più ampia e in un qua­dro generalmente meno costrittivo: viene cioè fornita un'educazione che sviluppa autodecisione e responsabilizzazione personale.

L'affidamento si raccomanda poi per la sua economicità di costo (snellezza delle strutture, rapidità di interventi), in una misura che non ha riscontro con le forme istituzionali. Quando si pensa al costo «vivo» di una retta di istituto e al suo costo «vero» (cioè caricato di tutti i co­sti indiretti), l'affidamento familiare si dimostra economicamente vantaggioso anche rispetto agli istituti più economici (e sappiamo che sono pro­prio gli istituti più economici quelli che possono rivelarsi carenti fino allo scandalo). Sottolineati questi aspetti che richiedono oggi l'istituzione dell'affidamento familiare (quando, ripetiamo, non sia effettivamente possibile attuare soluzio­ni che incidano direttamente alla radice del di­sadattamento, quali l'aiuto economico e/o psico­logico e sociale alle famiglia d'origine, o l'ado­zione), occorre però integrare ancora quanto detto: vi è infatti il pericolo di un equivoco.

Diciamo quindi che l'affidamento può essere considerato in due modi: o come la semplice e definitiva sostituzione del ricovero in istituto, per cui ogni azione contro le cause dell'abban­dono viene implicitamente rifiutata; o invece può essere considerata come una soluzione di emer­genza che, mentre provvede ad evitare l'emargi­nazione sociale del bambino o del ragazzo, uti­lizza l'esperienza dei casi personali per risalire alle cause e per combatterle.

Ogni cura dovrà essere messa in atto per evi­tare che il ragazzo affidato sia emarginato sotto qualsiasi forma (accuse ai suoi genitori, incom­prensione dei suoi bisogni e dei suoi problemi, ecc.). Questa emarginazione può essere effet­tuata dalla famiglia affidataria, ma spesso le sue azioni non sono altro che la conseguenza del ri­fiuto sociale (scuola, ambiente, ecc.).

L'affidamento familiare non può dunque esse­re un atto tecnocratico: essere cioè considerato «affare» che riguarda solo i tecnici e gli enti di assistenza (i ragazzi, le famiglie d'origine e affidatarie essendo oggetti e non soggetti dell'intervento) .

Il volume del Soulé e collaboratori, prezioso in senso assoluto rispetto ad altre opere sull'ar­gomento per la ricchezza e la precisione con cui vengono presentati gli aspetti teorico-pratici dell'affidamento, è il risultato di una impostazione teorica che mai abbandona il filo conduttore dell'esperienza. In esso, tuttavia, vengono eccessi­vamente sottolineati gli aspetti tecnocratici, così che non sono sufficientemente approfonditi aspetti fondamentali dell'affidamento familiare quali il rapporto con le famiglie naturali, il repe­rimento delle famiglie affidatarie ecc., mentre per contro vengono indicate delle classificazioni minuziose dei vari tipi di affidamento.

L'impostazione tecnocratica risulta particolar­mente evidente se soffermiamo la nostra atten­zione sul rapporto famiglia affidataria-tecnici dell'affidamento (assistente sociale, educatore, psicologo, psichiatra). La famiglia viene infatti considerata come uno strumento, un mezzo di terapia che deve essere quanto possibile docile e duttile nelle mani del tecnico. Si misconosce così il fatto che la famiglia è la protagonista del rapporto terapeutico col bambino, poiché è nel suo ambito che si svolge quel processo tera­peutico importantissimo che è l'identificazione. Una soluzione alternativa a quella tecnocratica è invece quella che abbiamo chiamato «parteci­pata», la quale non nega il contributo tecnico de­gli esperti ma lo riconduce ad un ambito più ade­guato, meno «onnipotente».

Tale impostazione esige che tutti gli esperti, le famiglie d'origine e affidatarie e soprattutto i ragazzi, siano sullo stesso piano orizzontale. Esige pure, considerati gli aspetti sociali e non solo quelli personali e familiari dell'affidamento, che il lavoro non sia individuale, ma di gruppo.

Si tratta pertanto di costituire gruppi orizzon­tali con i tecnici che svolgono il ruolo di anima­tori. Questi gruppi (composti da famiglie affida­tarie, aspiranti affidatari, famiglie d'origine e ra­gazzi in età adolescenziale) ricercano le solu­zioni tramite lo scambio vivo di esperienze per giungere ad una auto-selezione e soprattutto ad una auto-maturazione.

Questa impostazione sembra essere la più idonea, non solo perché coinvolge pari respon­sabilità da parte di tutti, ma anche perché è esperienza comune di tutti i servizi che il repe­rimento delle famiglie aspiranti affidatarie è ef­fettuato dalle famiglie affidatarie e non dai tec­nici.

Gruppi che si avvicinano a questo tipo nelle prime recenti esperienze nel campo dell'adozione (ad esempio a Torino: gruppi formati da famiglie aspiranti all'adozione, da famiglie adottive e da una coppia di tecnici) e dell'affidamento (ad esempio a Milano: gruppi di discussione di fa­miglie affidatarie di ragazzi del servizio sociale del Tribunale dei minorenni animati da una cop­pia di tecnici) si sono confermati validi e funzio­nanti e in grado di raggiungere quei risultati di approfondimento emotivo e conoscitivo dei pro­blemi affettivi connessi all'adozione e all'affida­mento, e soggettivi (maturazione e coinvolgi­mento personale e di coppia) che sono insiti nelle dinamiche di gruppo. L'impostazione par­zialmente orizzontale contraddistingue anche il Servizio di affidamento familiare recentemente istituito dalla Provincia di Torino (parità gerar­chica con i tecnici riconosciuta alle famiglie affi­datarie, riconoscimento del ruolo e della funzio­ne dei gruppi di famiglie).

Ci si può attendere inoltre che la maturazione delle famiglie affidatarie, una volta che l'affida mento familiare diventi un intervento più esteso di quanto sia oggi in Italia, eserciterà un'influen­za positiva su tutte le famiglie (di sangue, affi­datarie e adottive) e nello stesso tempo provo­cherà una presa di coscienza sulle cause dell'abbandono, condizione indispensabile per lot­tare contro l'emarginazione sociale.

Qualunque sia l'impostazione che si sceglie per l'organizzazione e il funzionamento dell'affi­damento familiare, il libro di Soulé e collabo­ratori è un sussidio tecnico che ogni operatore sociale dovrebbe leggere e meditare.

(Stralcio dalla presentazione)

 

 

MICHELE CARENA., Esclusione o promozione de­gli handicappati. Il Cottolengo: mito dell'esclusione e verifica della promozione, Edi­zione Dehoniane, Bologna, 1971, pagg. 173, L. 1.500.

 

Con allarmato stupore abbiamo letto il libro di M. Carena, apparso nella collana «Gli esclu­si» diretta da Andrea Canevaro.

Tralasciamo di analizzare la prima parte (da pag. 13 a pag. 91) che ha carattere prettamente teorico, dedicata allo studio della personalità umana, del suo sviluppo, del rapporto pedagogico e del ruolo dell'educatore, per centrare la nostra attenzione sia sulla seconda parte che riporta i risultati di una ricerca svolta dall'autore, sia sul­la prefazione del libro, redatta dal Gruppo SFES (Scuola di formazione per educatori specializza­ti) di Torino.

In primo luogo vi è da rilevare che l'autore del libro (Frate] Domenico) ha lavorato per quin­dici anni nel reparto del Cottolengo in cui ha svolto la ricerca, fatto che può da solo mettere in discussione l'obiettività della ricerca stessa. La scarsa obiettività della ricerca trova con­ferma dal fatto che essa riguarda solo 215 per­sone delle 465 entrate nel reparto in cui M. Ca­rena ha lavorato dal 1946 al 1961.

Non convince molto la giustificazione data dall'autore al riguardo di aver «escluso coloro che, pur avendo frequentato un intero anno sco­lastico, non sono stati in reparto almeno 12 me­si». È pur vero che sarebbero stati falsati «i dati relativi ai rapporti con la famiglia almeno durante una vacanza estiva», ma si sarebbero ricavati elementi su tutti gli altri aspetti rilevati dall'indagine, in particolare sui criteri delle di­missioni.

Circa le situazioni familiari, notiamo che fra quelle di «estrema gravità morale» sono com­prese sia la prostituzione sia le convivenze!

È significativo che «a nessuno dei minori, interessati dalla ricerca, sono stati somministrati tests o reattivi mentali di alcun tipo». Si è pie­namente d'accordo sui limiti dei tests, ma non riusciamo a comprendere come l'autore della ri­cerca abbia potuto stabilire la ripartizione fra immaturi psichici (27,8%), individui con lieve flessione intellettuale (26%), individui che «manifestano un'effettiva carenza mentale almeno media» (12,1%), e infine individui che rientrano «chiaramente nella norma» (34,1%), tanto più che nessuna precisazione viene fornita sulle fon­ti da cui sono stati tratti questi, come molti al­tri dati.

Circa l'handicap, il 15,4% sono «portatori di handicap somatica lieve (...) tale da consentire una certa deambulazione senza bisogno di soste­gni», il 42,8% «sono portatori di handicap soma­tico grave: casi che esigono grucce o protesi per deambulazione», il 32,5% «sono portatori di handicap gravissimo: casi per i quali la deam­bulazione, anche con protesi o sostegni, è resa molto difficoltosa o impossibile» e infine il 9,3% «sono portatori di handicap psichici o di disadat­tamento sociale».

Al momento di lasciare l'istituto la situazione è la seguente: il 33,3% non hanno frequentato scuole in quanto già in possesso di titolo di stu­dio (quale?) all'atto dell'ingresso in istituto, l'11,4% hanno ottenuto la licenza di terza ele­mentare, il 52% quella di quinta elementare, il 2,5% quella di scuola media e infine lo 0,8% la licenza di scuola media superiore.

Ciò dopo 4 anni di durata media del ricovero. Anche; per questo aspetto manca ogni altro dato, salvo l'indicazione che la permanenza varia da 1 a 18 anni.

I ricoverati provengano da ogni parte d'Italia; il 17,7% non hanno alcun contatto con la fami­glia, il 41,4% hanno contatti solo per le vacanze estive, il 18,6% hanno contatti trimestrali; il 13,5% hanno contatti mensili, il 7,9% hanno con­tatti settimanali e il 0,9% frequentano l'istituto come esterni e rientrano in famiglia ogni sera.

Sintomatici sono i dati relativi alla professio­ne del padre: l'11,6% sono operai o piccoli arti­giani, il 26,8% sono «contadini per lo più del sud, residenti in paesi spopolati di zone depres­se, dove vi sono poderi veramente da fame», il 30,6% sono manovali o braccianti, per il 31% non è presente la figura paterna.

Circa la condizione economica dei minori ri­coverati vi è da osservare che il 73,9% proven­gono da situazioni di grave indigenza economica, il 13,4% sono provenienti da situazioni di disa­gio grave per immigrazione, il 19,5% sono pro­venienti da situazioni che lasciano il minore in situazione di abbandono.

Risulta quindi che tutti i ricoverati apparten­gono al proletariato e soprattutto al sottoprole­tariato. Riconosce lo stesso autore che «alla luce dei dati sopra riportati si può osservare che un margine abbastanza consistente di istituzio­nalizzati potrebbe essere ridotto, qualora un pro­gramma di politica assistenziale offrisse adeguati servizi di appoggio finanziario e tecnico ai nuclei familiari».

Basterebbero questi ultimi dati a dimostrare che il Cottolengo è, al di là delle intenzioni di coloro che vi prestano la loro attività di assi­stenza, un istituto di violenza. Non vediamo con quale diverso termine si possa definire un isti­tuto che ricovera minori «colpevoli» di essere poveri e li segrega senza sollevare alcuna pub­blica azione di denuncia della situazione. Altro che verifica della promozione: vi è una ingiusti­ficata rottura dei legami familiari e sociali.

Priva di alcun valore è la ricerca diretta a valutare l'inserimento lavorativo e sociale, culturale e politico. Essa infatti è stata rivolta a 95 dei 215 interessati della ricerca e cioè al 44% e comprende esclusivamente «individui che tuttora hanno contatti frequenti con l'istituto»!

Risulta così facile fra l'altro ottenere l'88,4% di risposte: «La ricordo con simpatia e ricono­scenza» alla domanda: «Come ripensi alla tua esperienza di vita cottolenghina».

Circa la prefazione del libro stilata dal Grup­po SFES, non possiamo certo condividere il pa­rere che «la nascita delle istituzioni educative e assistenziali ad opera di una persona o di un gruppo ha significato nel tempo la sottrazione di un numero imprecisato di disgraziati all'ab­bandono e alla dimenticanza».

Concordiamo invece con l'analisi sull'esclu­sione fatta da A.N. Henri al VI colloquio interna­zionale della Commissione istituzioni e comunità per minori privi di ambiente familiare normale dell'Ufficio internazionale cattolico per l'infanzia, tenutosi a Roma il 5-10 aprile 1970 (1).

Circa il fatto che «il Cottolengo rappresenta uno degli esempi più notevoli di istituzioni di cui la collettività si serve senza averne alcuna cono­scenza», ciò è dovuto ai dirigenti ed operatori del Cottolengo stesso, che non hanno svolto al­cuna attività informativa nei confronti dell'opi­nione pubblica né, come si è già detto, alcuna attività promozionale esterna.

Da questa situazione di chiusura deriva a no­stro avviso l'uso comune a Torino del termine «cottolengo» (cutu in dialetto) per indicare le persone con scarse capacità intellettuali.

La cosa è tanto più grave allorquando si con­sideri che, secondo i dati della ricerca, il 69,3% dei ricoveri sono presentati dal parroco, il 14% dalle famiglie, il 3,3% da vari istituti di assisten­za e solo l'1% dal sindaco e dall'ENAOLI.

Si tratta quindi di un circuito chiuso (pover­tà, parroci, istituti di beneficenza, Cottolengo) in cui la collettività è tenuta completamente al di fuori, non informata e tanto meno sensibiliz­zata al problema dai gestori del Cottolengo, fa­cendo in tal modo - volenti o nolenti - il gioco della classe dominante, che, fatto significativo, è poi quella dalla quale il Cottolengo riceve co­spicue elargizioni.

 

 

 

(1) A.N. HENRI, L'evoluzione degli istituti per minori privi di ambiente familiare normale nel suo contesto storico globale, in «Prospettive assistenziali», n. 14, aprile-giugno 1971, pag. 20 e segg.

 

 

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