Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo
1972
DOCUMENTI
ASSISTENZA: LOTTARE
PER ELIMINARE LE CATEGORIE
Su
«Il Giorno» (4 novembre 1971) appare con grosso titolo: «Promossa. Però è
cieca: fuori», la notizia di una bimba de
Parimenti
è stata presentata alla Camera una proposta di legge (numero 2882) dagli On.
Buzzi, Badaloni Maria, Bardotti, Caiazza,
Giordano, Micheli Pietro, Pisoni,
Racchetti, Romanato che ha
per oggetto: «Provvedimenti per il potenziamento dell'attività educativa degli
istituti per i minorati della vista».
Con
questa legge si vuole ancora e sempre trattare per categorie i problemi
educativi e scolastici.
I
ciechi come tutti gli handicappati devono avere la possibilità di frequentare
la scuola pubblica e non restare in istituti particolari, dove si rafforza
l'emarginazione e si impedisce loro di confrontarsi
con gli altri; non si vogliono più gruppi isolati di categorie
istituzionalizzate, ma diversi mezzi tecnici in una
scuola comune a tutti (in questo caso fornire gli scolari ciechi di apposite
macchine da scrivete e di registratori può costare meno che mantenere istituti
e scuole per i ciechi).
Su
questo argomento pubblichiamo qui di seguito un
documento redatto dal collettivo dell'istituto di Cavazza
apparso sulla rivista
Il Regno (aprile 1971) in cui i ciechi di
Bologna come già quelli di Padova denunziano il tentativo di segregazione
perpetuato a loro danno e chiedono di attenuare le barriere che li separano
dagli altri cittadini per consentire loro il massimo di socialità con gli
altri.
L'istituzione deve venir negata
La logica dell'esclusione è una logica ferrea: essa discrimina i «diversi» in nome dell'egoismo
della maggioranza. Conformismo e produttività sono le due regole fondamentali;
chi non vi si conferma non può trovare posto nella società: e così essa espelle
i ragazzi difficili, i rei, i subnormali, gli anziani, i «pazzi», i bimbi
«illegittimi», gli stessi ammalati cronici quando
diventano irrecuperabili. Sono realtà umane diverse, colpevoli e più spesso
incolpevoli; devianti o semplicemente non omogenee all'umanità media. Ciò che
li accomuna è l'espulsione violenta che essi subiscono dal corpo sociale e che
non può essere confusa con l'opportunità - e la necessità spesso - che esiste
per alcune di queste categorie, e per alcune soltanto, di separarle per
rieducarle o per assisterle. In pratica la «istituzionalizzazione», il
rinchiudere cioè le persone in istituti, per quanto
diversi questi istituti possano essere, rivela, nella violenza intrinseca alle
stesse strutture, la intenzione liberatoria e inconsciamente quasi punitiva
che la società dei normali attribuisce alla segregazione.
Educare all'autoesclusione
Queste considerazioni di carattere
generale, che deriviamo dalla attenzione con cui
abbiamo sempre seguito fenomeni come questi, sembrano adattarsi in modo
particolare alla condizione sociale dei ciechi nel nostro paese. La vita del
cieco è infatti rigidamente condizionata dall'istituto
e dall'istituzione che prima lo ricovera e lo «educa» e poi lo assiste, e che è
in pratica una fabbrica di esclusi, la cui valutazione è aggravata dalla
natura pietistica e assistenziale particolarmente accentuata in questo
settore. Non è a caso quindi che la contestazione che da parte dei ciechi si
sta sviluppando sulla loro condizione sociale sia partita
proprio dagli « Istituti u per i ciechi e dai loro ospiti.
Nei giorni scorsi, all'istituto
Davide Chiossone di Genova, gli studenti ciechi sono
scesi in lotta, rivendicando il diritto alla gestione dell'istituto e
chiedendo riforme igienico sanitarie e l'abolizione
delle scuole interne con la conseguente possibilità di frequentare quelle
esterne.
In un primo tempo il consiglio di
amministrazione dell'istituto stesso ha risposto a queste richieste con le
intimidazioni e la violenza poliziesca, ma di fronte alla continuità
dell'azione che ha investito anche forze esterne (movimento studentesco,
partiti politici, stampa...) ha dovuto cedere e ha concesso alcune
riforme richieste dai ragazzi.
Si possono fare alcune valutazioni
su questo fatto e su altre esperienze di lotta condotte in questi anni a
Bologna e a Padova. Spesso il discorso (come quello sviluppato dagli studenti
dell'Istituto Francesco Cavazza di Bologna) è partito
da esigenze pratiche ed è divenuto politico nel
momento in cui si è preso coscienza della propria condizione di esclusi e di
sfruttati. Altri momenti di agitazione si sono avuti
all'istituto Configliachi di Padova, dove una
violenta repressione poliziesca ha stroncato l'agitazione degli studenti condotta
all'interno di una mostruosa struttura di segregazione: un istituto di
300 persone, un «paese» di ciechi isolato finora dal resto
della città.
Perché tutto questo? Perché gli studenti
ciechi sono scesi in lotta in varie forme
all'istituto Chiossone, Configliachi
e Cavazza?
L'attuale sistema assistenziale
basato sulla beneficenza e sulla iniziativa privata, non può rispondere alle
esigenze di chi ne deve usufruire. Infatti questo tipo
di assistenza finora gestito da «opere pie e istituti di beneficenza» nasconde
un sistema di speculazioni economico-politico.
In Italia ci sono 80.000 ciechi, e
da una inchiesta condotta da A. Frau
è risultato che la quasi totalità di essi appartiene alla classe proletaria.
Solo 3.000 sono ricoverati negli
istituti di assistenza e di istruzione. 4.000 sono
occupati nelle industrie e nei servizi pubblici. I
rimanenti (73 mila) vivono con una pensione di L.
32.000 per i ciechi assoluti e L. 18.000 per gli
ipovedenti.
Il bambino cieco entra in istituto a
cinque anni e ne esce a venticinque dopo aver
frequentato le varie scuole professionali o, in rari casi, l'università.
Il tipo di educazione
che l'istituto dà è basato sulla rassegnazione alla propria condizione fisica,
che porterà poi alla emarginazione sociale attraverso un rafforzamento sia
degli effettivi risultati menomanti della menomazione fisica stessa (che
potrebbero essere invece più validamente corretti), sia attraverso un
atteggiamento psicologico di rinuncia e di autoesclusione.
I fatti che
concorrono a questo risultato sono molti: la chiusura all'interno
dell'istituto; il condizionamento culturale; la violenza psicologica; la
limitazione degli sbocchi professionali.
La chiusura all'interno
dell'istituto è l'effetto di tutta l'attuale organizzazione degli istituti stessi.
Facendo frequentare scuole interne al collegio (se ne esce
solo per il liceo e l'università, ma come vedremo si tratta di eccezioni),
limitando la libera uscita, e non permettendo - salvo rare eccezioni -
l'entrata nell'istituto a persone esterne, si impedisce ai ciechi proprio nel
momento formativo di prendere piena coscienza della loro condizione attraverso
il confronto con la dinamica della vita sociale esterna ed al tempo stesso di
allargare e normalizzare il ventaglio delle loro esperienze formative.
Il condizionamento culturale viene attuato mantenendo testi scolastici invecchiati
risalenti al periodo fascista e comunque superati sia dal punto di vista
ideologico che tecnico-scientifico.
Pochi testi sono stampati in Braille
(l'alfabeto in rilievo per i ciechi): poche decine di titoli negli ultimi
vent'anni, un po' per deficienze economiche e molto, verosimilmente, per
pigrizia ed incuria.
Il condizionamento culturale, e
quindi ideologico, avviene inoltre mediante gli stessi insegnanti:
all'istituto D. Chiossone un insegnante diceva agli
alunni che il cieco deve essere un buon fascista
perché nel ventennio i ciechi ebbero dei «notevoli miglioramenti». In altri
istituti viene controllata la corrispondenza, e le
persone sorprese a leggere quotidiani vengono minacciate: in generale la
libera informazione e il dibattito sono ovunque limitati.
La violenza psicologica accompagna
quasi ogni momento della vita del non vedente istituzionalizzato. Già da
quando bambino entra, vengono attuati su di lui metodi
di repressione della creatività ed esercitate repressioni «disciplinari»
assurde, col meccanismo tipico di ogni situazione del genere aggravato in
questo caso dalla mancanza di quelle particolari attenzioni educative che
sarebbero invece necessarie.
Con le scuole interne al collegio si
crea poi un rapporto chiuso «escludente-escluso». Infatti gli insegnanti
(anche per ragioni corporative di collocamento) sono in
maggioranza ciechi: già inibiti e frustrati essi trasmettono questa loro
alterazione psicologica agli alunni. Mentre non sono d'altra parte in grado di
contribuire alla correzione di quei comportamenti ed
atteggiamenti tipici che il bambino cieco tende istintivamente ad assumere (ad
esempio nel parlare, nel camminare, nel vestire) che l'insegnante cieco non è
in grado di individuare e di correggere.
Né è da credere che quest'opera
autenticamente educativa possa essere supplita ed integrata dagli assistenti
e dal personale. Il personale è formato prevalentemente o da persone fallite
in precedenti carriere professionali, che scaricano quindi sui ragazzi la loro
insoddisfazione, o da pensionati, o da studenti universitari che hanno il
vantaggio di costare poco. Risulta chiaro da questa
situazione che dette persone sono del tutto impreparate a svolgere la loro funzione,
tanto più che, per essere assunti, in alcuni istituti, come assistenti, basta
il diploma di terza media.
L'atteggiamento di tutela poi,
caratteristico in particolare di tutto il rapporto istituzionale dei ciechi, è
particolarmente tipico nei confronti delle ragazze.
La loro segregazione è ancora più rigida. La loro integrazione educativa alla
vita dei vedenti ancora più scarsa: non si insegna
loro ad esempio la cura estetica della loro persona, la tipica attenzione
femminile nel vestire, lo svolgimento dei lavori domestici. Sembra che un normale
sbocco familiare della loro vita non sia immaginato dall'istituzione tutrice. Anche gli incontri con i ragazzi ciechi è in generale
particolarmente precluso alle ragazze ospitate negli istituti.
La limitazione negli sbocchi
professionali è il coronamento di questo sistema di esclusione.
Attualmente per i ciechi gli sbocchi professionali
sono molto limitati: chi supera la scuola dell'obbligo, o frequenta la scuola superiore,
e quindi l'università, o (nella maggior parte dei casi) segue un corso
professionale per centralinisti o massofisioterapisti,
corsi che si svolgono negli istituti stessi, con attrezzature del tutto insufficienti.
Per coloro che si laureano c'è una prospettiva di lavoro
abbastanza sicura, in quanto entrano a far parte della classe
intellettuale, mentre per coloro che seguono i corsi professionali la
situazione è notevolmente più difficile e complicata. Infatti, nonostante
esista una legge che impone alle grandi aziende pubbliche e private
l'assunzione di un certo numero di ciechi, la domanda è infinitamente superiore
all'offerta; e anche per coloro che riescono ad
ottenere il posto, il lavoro poi non offrirà alcuna prospettiva di
miglioramento.
Il
lavoro inteso come regalo
Così, nonostante i più recenti studi
di psicologia industriale e di orientamento
professionale abbiano dimostrato che il cieco può inserirsi pressoché
normalmente in molte mansioni della produzione industriale di serie, esso viene
tenacemente rifiutato dall'industria anche quando è particolarmente addestrato
(abbiamo visto prepararsi in un centro professionale specializzato dei
validissimi tornitori ciechi ed ipovedenti); quando poi raramente viene
assunto, e grazie a queste possibilità produce pressoché normalmente, viene in
generale sottoretribuito.
Quanto agli
sbocchi verso professioni intellettuali è opportuno precisare che essi
interessano solo una minoranza dei giovani. Il meccanismo scolastico degli
istituti, anziché promozionale è rigidamente selettivo: solo «i migliori»
possono frequentare i quattro istituti (Bologna, Padova, Napoli e Roma) dove si
può andare alle scuole medie superiori; e solo i convittori di Bologna e di
Napoli possono andare all'università, su 22 istituti esistenti. La
professione intellettuale non è il diritto cui avviare tutti nei limiti del
possibile, ma il premio (economicamente e socialmente gratificante) cui
avviare i più «bravi» e i più «buoni»: pochi comunque
perché gli altri istituti sono restii ai trasferimenti per non perdere i
contributi, le rette, che versa per ciascun ospite la provincia di origine
(circa 600 mila lire annue pro-capite).
Che uso facciano poi gli istituti di
queste rette è un altro dei punti dolenti delle
proteste dei giovani. Sistemazioni non funzionali e spesso
igienicamente carenti, vitto scadente, assistenza medica generica e
specialistica scadente (molti ipovedenti perdono le residue capacità visive
perché non seguiti e curati specialisticamente),
disciplina come si è visto repressiva, scarse iniziative e possibilità
autonome per il tempo libero.
Dalla descritta situazione degli
istituti ne deriva come necessaria conseguenza la
creazione della categoria del cieco. Ciò infatti
risponde: 1) agli interessi corporativi dell'U.I.C. (Unione Italiana Ciechi)
che tende a mantenere la situazione attuale con una politica di autoconservazione, favorendo in tal modo la costruzione di
un mondo di ciechi all'interno della società; 2) alla divisione in classi
della società, riguardo alla quale si è chiaramente espresso il già citato A. Frau: «Quello che si può subito dire è che tutto ciò ha
portato a far capire a molti ciechi che l'avvenire non può
che essere in una ribellione consapevole e in uno sforzo nella lotta di classe.
Non la classe dei ciechi ma quella di provenienza: la classe degli sfruttati e
degli esclusi dal sistema capitalista»; 3) ai rapporti di ingiustizia
sociale nei confronti dei menomati. Se è vero infatti
che la menomazione sensoriale esiste, cioè non deve produrre una menomazione
psichica come attualmente fa l'istituzione: il cieco non viene considerato
nella sua dimensione umana, ma come menomato fisico e quindi anche sociale.
Gli studenti ciechi del collettivo
dell'istituto Cavazza di Bologna, condannando la
situazione attuale dei ciechi, sostengono che un tipo di assistenza
alternativa può avvenire nei luoghi di ambiente naturale con delle
infrastrutture che permettano una educazione sociale ai minorati, sia da parte
della famiglia sia da parte della società stessa. Per questo si sono dati
degli obiettivi intermedi che sono l'apertura dell'istituto e la gestione
sociale dello stesso, per arrivare, in un futuro non lontano, alla totale
abolizione dell'istituto, e ad una più efficiente assistenza locale.
Come spesso si
verifica, anche in altri settori della esclusione istituzionalizzata, il
problema presenta aspetti di politica sociale più complessi ed esterni
all'ambiente dell'istituzione che pure presenta aspetti che dovrebbero essere
riformati.
La constatazione che
l'istituzionalizzazione troppo spesso colpisce e
segrega in funzione della povertà e della debolezza sociologica del gruppo,
dell'ambiente o della classe d'origine, conferma che il problema deve essere
posto a monte, per intervenire sulle cause sociali del fenomeno e sugli aspetti
di discriminazione sociale che esso presenta. In questo senso, come altri ha detto a proposito di fenomeni analoghi non si tratta di
correggere l'istituzione. L'istituzione deve venire
negata.
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