Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo
1972
LIBRI
J. e R. THEVENIN, Ho ucciso mio figlio, Boria Editore, Torino, 1971,
pagg.
M. FAUGERE e M. D'ARGENTRE, Histoire de deux mères, Ed. Denöel-Gonthier, Paris, 1970, pagg. 287.
Un caso di infanticidio,
quello di André Duteil, ha spinto gli autori a
condurre un'inchiesta sconvolgente sul gravissimo problema dei bambini
handicappati.
A. Duteil
ha ucciso la sua bambina subnormale dopo nove anni di agonia
e di fronte alla mancanza di interventi sociali. Altri genitori francesi
portano qui le loro drammatiche testimonianze. Medici, psichiatri, genetisti,
sacerdoti ed educatori recano le loro impressioni, i
loro commenti, il bagaglio della loro esperienza «scientifica».
Il libro è sconvolgente soprattutto
perché dimostra che anche una maggiore tecnicizzazione
degli interventi nel settore degli handicappati, quale si riscontra in Francia,
non risolve alcun problema di fondo, se agli
handicappati in generale e agli insufficienti mentali in particolare, non
viene riconosciuto in concreto di partecipare degli stessi diritti di tutti gli
esseri umani.
Dal libro di Thevenin
si trae ulteriore conferma che una soluzione non può
venire da soli tecnici. Infatti i medici, siano essi
psichiatri o genetisti, i sacerdoti e gli educatori intervistati hanno
rivendicato un maggiore numero di istituti ed una loro
più accentuata specializzazione: in sostanza una segregazione tecnicamente più
valida per gli handicappati, ma che lascia le loro famiglie ed essi stessi
isolati e in balia dei loro problemi e quindi della loro disperazione. È la
mancanza di servizi comunitari, è l'indifferenza di tutti a creare la terribile
solitudine dei genitori dei subnormali e a spingerli a degli atti irreparabili
(uccisione, abbandono, disinteresse) e questa indifferenza costituisce una
vera e propria complicità con il peggiore dei crimini: quello dell'omissione.
Nel secondo libro vediamo trattato
lo stesso problema e come scrive Maud Mannoni nell'ottima prefazione,
la testimonianza di due madri costituisce un'ulteriore conferma dei nuovi
metodi da seguire: «La pedagogia specialistica è da reinventare.
Se essa ha messo a punto delle tecniche utili, essa si
sclerotizza se prende queste tecniche come fine a se
stesse. È l'inatteso, l'imprevisto che privilegiano i
momenti di apertura; questi momenti non si lasciano catalogare in regole
costituite una volta per tutte, di qui la necessità di creare non istituti ma
"homes" di non grandi dimensioni, atte a
lasciar spazio alla fantasia».
Quando la diagnosi di «incurabilità»
è stata fatta, nei due casi, le madri sono entrate nell'universo
segregativo. Il dramma della solitudine del
Spiega
La società svedese, più organizzata,
più tollerante per gli infermi, permette alla madre di reagire meglio,
creando attorno a lei una presenza più attenta nel ricevere la sua pena. La
vita del bimbo è presa a carico dello Stato al 100% e la scolarizzazione
del l'handicappato è obbligatoria. Eppure anche qui
certi pregiudizi correnti non sono stati debellati, e l'istituto a
I casi qui riportati sono due casi estremi. Ma essi non
differiscono sostanzialmente dai casi in cui l'incurabilità è dubbia, come nei
casi di psicosi e in alcuni di lieve insufficienza mentale, dove il verdetto medico
avrà il solo effetto di aggravare la situazione del bambino, se poi non sarà
seguito da adeguati comportamenti nella società che lo circonda.
Alla domanda: la vita in famiglia di
un bambino handicappato è compatibile con l’equilibrio
familiare, si può rispondere con un'altra domanda: perché solo oggi viene
sollevato il problema di questo equilibrio?
Infatti si sta sempre di più prospettando
ed operando una sistematica riduzione dei fondamentali problemi esistenziali,
propri del fanciullo, dell'adulto, del singolo, della famiglia, dell'individuo
e della collettività a problemi medici, così da risolvere solo sul piano
terapeutico conflitti di comportamenti umani che potrebbero diventare
sociali.
Dice la prefazione di questo libro:
«il Problema dell'infanzia "handicappata" non si può separare dal contesto politico in cui è inserito il disadattamento».
ASSOCIAZIONE PER
«Gli ammalati a letto, lasciati nei
loro escrementi sono lavati da altri ammalati che provvedono con una spugna e
una vecchia latta vuota...». «... Quando un ammalato è mezzo addormentato
perché gli hanno dato dei calmanti e viene distribuito
il pasto, nessuno pensa a svegliarlo e tanto meno a conservargliela...»
«... alle 17,30
buona parte dei malati vengono regolarmente legati ai letti con cinghie di iuta
e così rimangono sino al mattino nello sporco e nel fetore. Non hanno nessuno
che li aiuti, non possono fare altro che restare
immobili senza neppure poter bere. Quando il fetore è
insopportabile gli infermieri risolvono il problema spalancando le finestre,
anche in pieno inverno, e rifugiandosi nella stanzetta loro riservata...». «...
Anche di giorno alcuni ammalati sono costretti da una
specie di cintura che immobilizza le braccia, oppure li legano per un piede,
talvolta li fissano al termosifone...». «... La
sporcizia è indescrivibile, le ciotole annerite, il cibo pessimo, i tavoli li
puliscono con la segatura e la scopa del pavimento. Gli ammalati per mangiare
devono sedersi su panche molto lunghe e perciò non riescono a
essere vicini al tavolo e si sbrodolano continuamente. Alcuni non
potendo sistemarsi preferiscono mangiare in piedi...».
Bastano queste righe, estratte dalla
vastissima documentazione disponibile, a scoprire il quadro di una realtà
allucinante, quella del manicomio di Torino su cui per troppo tempo è caduto
quel sipario di ipocrisia, di menefreghismo, di ignoranza,
eredità fascista e prima ancora borbonica che ancora oggi occulta agli occhi
dell'opinione pubblica le tragiche condizioni degli istituti di segregazione in
Italia. Come si è arrivati a questa scoperta che ben più di un trattato
tecnico di psichiatria, denuncia e accusa la realtà manicomiale e tutti i
pregiudizi «pseudoscientifici» sulla malattia
mentale che la sorreggono?
Sulla scia dell'esperienza goriziana si è costituita a Torino alla fine del
Chi ha il potere esercita la
violenza e la sopraffazione come strumento di conservazione e di esclusione contro ogni eventuale tentativo da parte di
chi non ha il potere di reagire all'esclusione, smantellando la gerarchia
costituita e imponendo una diversa distribuzione dei ruoli. I gradi in cui la
violenza viene esercitata cambiano a seconda della
necessità di chi detiene il potere di «giustificarsi». Infatti
l'esercizio della violenza deve sempre essere «giustificato» dallo specifico
scopo dell'istituzione in cui la violenza viene gestita. In fabbrica sarà
l'efficienza produttiva a giustificare il supersfruttamento, i controlli
personali, le punizioni, nella scuola la finalità educativa è il paravento
della violenza autoritaria, in caserma il bene della patria; nell'ospedale
psichiatrico la «malattia mentale» è la necessità di una cura efficace. E a
rendere più solide queste giustificazioni si invoca
una ideologia pseudomoralistica che distingue il buono
dal cattivo, il rispettabile dal non rispettabile, il sano dal malato e così
via.
Tuttavia la
società industriale avanzata che aspira ad offrire al pubblico l'immagine
dell'opulenza, della razionalità e dell'illuminismo tecnologico preferisce
delegare ad una schiera di tecnici ed esperti l'esercizio di questa violenza in
forme sempre più raffinate e con l'ausilio delle tecniche più avanzate. Nascono così nuove
figure di amministratori della violenza: il nuovo psichiatra sociale,
lo psicoterapeuta, l'assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo
di fabbrica. Il loro compito definito «terapeutico orientativo» è di adattare
gli individui ad accettare la loro condizione di «oggetti della violenza»
come condizione permanente. Questo discorso che meriterebbe di essere
inquadrato in una più ampia prospettiva di riferimenti culturali (dagli
sviluppi delle teorie marcusiane ai filoni più recenti
dell'esistenzialismo positivo) è un esplosivo potente
innescato sull'apparato psichiatrico tradizionale (di provenienza germanica)
che fa della malattia mentale un'entità a sé stante da riconoscere, individuare
e classificare secondo schemi nosologici prefissati e indiscutibili. Una importante conseguenza di questa premessa è che non la
malattia in sé è l'elemento determinante della condizione del malato mentale,
ma il suo rapporto con l'istituzione. L'internato infatti
appare come un uomo senza diritti, soggetto al potere dell'istituto e alla
mercè dei delegati (medici ed infermieri) e della società che lo ha allontanato
ed escluso. La sua esclusione o espulsione dalla società è però più
strettamente legata al suo mancato potere contrattuale, alla sua
condizione sociale ed economica, che non alla malattia in sé. (Basaglia: Le istituzioni della
violenza, op. cit., pag. 123). Corollario di questa
premessa è l'affermazione, già evidenziata in un titolo come «La fabbrica della
follia», che all'interno dell'ospedale psichiatrico, concepito come luogo di
segregazione, la malattia mentale non può che peggiorare a
un punto tale che non è paradossale sostenere che la follia si crea e si
alimenta giorno per giorno all'interno dell'ospedale stesso.
L'inchiesta sulla realtà manicomiale
fatta dalla Commissione di tutela dei diritti dei
ricoverati ha confermato pienamente la validità di questo discorso e
contemporaneamente ha dato un contributo notevole e originale allo studio
della malattia mentale. Infatti non è possibile
superare «l'oggettivazione» del malato, la sua passività e subordinazione alla violenza
organizzata dell'istituzione, in cui è imprigionato, con discorsi generali,
anche se tecnicamente validi, sulla malattia mentale come risultato di un
processo di esclusione, di segregazione e di repressioni. Tutti questi discorsi infatti non coinvolgono il malato, sono estranei al suo
linguaggio, alla sua esperienza e alla sua cultura, passano sulla sua testa e
lo lasciano nella sua condizione di prigioniero senza speranze. Invece parlando con il malato e soprattutto facendolo
parlare della sua esperienza e delle sue condizioni di vita il malato si riappropria
almeno provvisoriamente di una fetta della sua esperienza alienata e diventa il
protagonista di un rapporto di comunicazione umana, autentico anche se
effimero.
Inutile descrivere analiticamente
gli incredibili fenomeni di abbrutimento, di sadismo e
di degenerazione testimoniati in questo libro. Del resto questa fenomenologia
che nel manicomio è spinta al massimo e supera anche la più sadica delle
immaginazioni (basta pensare alla tortura degli elettromassaggi
al pube, descritta efficacemente nelle prime pagine del libro) è tipica di
tutti gli istituti di segregazione (carceri, riformatori e in misura minore
anche le caserme) in cui ogni tensione deve scaricarsi all'interno
dell'istituzione e in ultima analisi ricade sullo strato
gerarchicamente inferiore che non può difendersi efficacemente (nel
caso di malato di mente le possibilità di difesa sono praticamente
inesistenti). Non si possono invece eludere i gravi interrogativi che la lettura
di questo libro suggerisce e si può dire impone, sia pure nella consapevolezza che si tratta di questioni aperte, difficili e forse neppure
risolubili senza radicali cambiamenti della struttura sociale. Se è possibile
dimostrare che l'immagine della follia è fondamentalmente errata e risente di
una cultura profondamente razzista e segregazionista, se è vero che, per comprendere
le radici della malattia mentale, bisogna smantellare le strutture dei manicomi
tradizionali e trasformarle in qualcosa di diverso, c'è da chiedersi che spazio
e prospettiva può avere una esperienza di comune
terapeutica da una società che esige un certo standard produttivo e perciò sia
pure in forme sempre più sofisticate, esige il controllo e la repressione delle
devianze e dei comportamenti anormali? Infatti
sviluppando la sacrosanta demistificazione delle concezioni «custodialistiche» e «punitive» che stanno alla base di
istituzioni come il carcere e il manicomio si arriva a rifiutare il concetto di
«curare il malato» per reintegrarlo in quella società «civile» che è la vera
responsabile della sua «malattia» e della sua segregazione; si creano comunità
terapeutiche staccate dal resto della società anzi contro il sistema dei valori
dominanti. Ma a prescindere dalle enormi difficoltà politiche di questa
operazione che soprattutto in Italia dovrebbe abbattere una foresta di feudi,
rendite mafiose e privilegi è lecito chiedersi quanto
potrebbero reggere queste esperienze in un tessuto sociale che funziona con
leggi e meccanismi profondamente diversi? Non è affatto
escluso che la società industriale avanzata lasci sopravvivere queste oasi ai
margini del suo processo di crescita e di razionalizzazione della violenza.
Anzi il potere politico e la cultura tecnocratica dominante hanno tutto
l'interesse ad accettare e a dare la sanzione della legalità a queste
esperienze per offrire al pubblico un'immagine liberale e permissiva.
E questa sarebbe una soluzione
pericolosa per lo sviluppo delle comunità terapeutiche perché le svuoterebbe
dall'interno, sterilizzandone la carica rivoluzionaria, a cui non si può dare
oggi una risposta esauriente. L'esperienza della lotta nella scuola ha
dimostrato che si ricostituisce facilmente una burocrazia conservatrice, sulle
ceneri di un movimento, che è capace di scoprire e denunciare i meccanismi di
violenza su cui l'istituzione si regge, ma non di «amministrare» in proprio
l'istituzione «negata». Questo discorso, mutato, vale anche per l'ospedale
psichiatrico dove più scoperta e cruda è la violenza esercitata, e più gravi
sono i rischi della «sconfitta» o della sterilizzazione
delle comunità terapeutiche.
SERGIO PIAZZA
ARMANDO ROSSINI, Educatore autorizzato, ed. Feltrinelli, Milano 1971, pagg.
Gianni Frontini,
il nome che dà al protagonista Armando Rossini
l'autore del libro
«Educatore autorizzato» edito da Feltrinelli nella
collana dei «Franchi narratori», è un illegittimo i cui parenti, condizionati
dai pregiudizi della morale corrente, hanno fatto barriera fra lui e sua madre
che si è risposata con un uomo che non ha voluto accettarlo. Ha trascorso
perciò tutta l'infanzia in un brefotrofio e tutta l'adolescenza in riformatorio
a Torino: convergono, cioè, in lui tutti gli elementi
che ne fanno un «disadattato sociale».
Adulto diventa a
sua volta istitutore in una casa di rieducazione per minorenni e in
questo nuovo ambiguo ruolo porta una esperienza direttamente vissuta che egli
rifiuta come propria, ma da cui è continuamente condizionato nei pensieri, nei
gesti, nei sensi.
Emarginato dapprima, più tardi
«recuperato» ed «inserito» per la società, Gianni sbattuto da un istituto
all'altro, pieno di rancore per la sua famiglia, cerca affannosamente di
liberarsi dal complesso del «disadattato», ma si porta
dietro nel suo nuovo posto di lavoro l'amore, l'odio, la violenza, il senso di
ribellione e di rivalsa, la deviazione sessuale.
Egli è come sospeso fra due società:
quella dell'istituto di Torino in cui era vissuto fino
a poco tempo prima e in cui si era integrato emergendo poi al di sopra degli
altri grazie alla sua intelligenza e alla sua violenza; la seconda è quella in
cui è costretto a vivere, società «giusta» secondo le leggi codificate che
condanna senza attenuanti e senza voler riconoscere che è stato proprio lei a
formare, con le sue istituzioni, individui simili ma che egli non può accettare
pur convinto di non essere capace di vivere al di fuori dell'istituto.
Perciò in tutto lo svolgersi della
narrazione, Gianni si sente come distaccato dalle persone che gli vivono
intorno. Non sopporta i colleghi che rappresentano la legge e, d'altra parte,
sebbene le sue simpatie vadano a quelli che la legge
aveva chiuso nella casa di rieducazione perché espiassero e capissero di aver
sbagliato, non può essere con loro.
L'ambiente che lo
circonda lo rifiuta: il personale che da anni ha svolto il proprio lavoro meccanicamente
non lo apprezza perché porta scompiglio e disordine: per l'esperienza che ha,
Gianni conosce bene ciò che sfugge all'occhio di qualsiasi direttore, censore
o agente, sa che in ogni gruppo di reclusi che si forma, emerge il più
prepotente. In
«istituto» non è permesso estraniarsi, bisogna fare gruppo per solidarietà,
per erigere un muro contro l'ambiente, contro l'autorità che tende ad isolare
i singoli per indebolirli.
Continua così l'ambiente di repressione
fisica e morale che i «disadattati» hanno già sperimentato negli ambienti in
cui sono vissuti: nella famiglia, nella scuola, nella società che li hanno respinti e, del resto, l'annullamento della personalità
è già insito nella stessa composizione rigidamente gerarchica del sistema
educativo che dovrebbe recuperarli.
Gianni, pur desiderando di mutare i
sistemi che gli altri avevano usato su di lui e che
aveva odiato, in realtà finisce per usarli. Si sente un aguzzino, ma nello
stesso tempo si rafforza in lui il senso di ribellione nei confronti di un
sistema repressivo.
E così quando a Gianni viene riferita la vanteria di Bruno, il ragazzo che lo
aveva denunciato per avere avuto dei rapporti sessuali con lui e che perciò è
stato allontanato da Torino per punizione, egli, intuendo che la presenza di
Bruno costituisce una minaccia per lui perché la sua posizione regge su una
menzogna, non esita a segnarne la condanna e ne diventa l'aguzzino. E sarà la
sua una punizione esemplare perché Bruno ha infranto la legge di «quella
società» e tale che convinca gli altri della innocenza
di chi ha traviato ma che a sua volta è stato traviato da adulti che avrebbero
dovuto educarlo. Inveisce contro Bruno in modo che tutti i compagni si
convincano che è un vigliacco e che avrebbe potuto tradire anche loro e che
perciò meritava una solenne lezione: un pestaggio che termina solo quando Bruno chiederà perdono e ammetterà di aver
parlato per invidia, per sminuirlo di fronte ai compagni perché era diventato
il centro dell'attrazione.
Non manderà mai un ragazzo in cella di isolamento, desidererà che i ragazzi scappino, anzi ne
diventerà un complice della fuga - è l'istituto con il suo assurdo regolamento
che li tiene come prigionieri - se ne godrà lo spettacolo per dare un
dispiacere agli accompagnatori e non muoverà un dito per fermarli - pur sapendo
che quelle fughe sospirate e sognate hanno quasi sempre conclusioni tragiche -
ma non eviterà di usare mezzi di punizione non meno aberranti come le
umiliazioni, l'isolamento dei rapporti con i compagni che sapeva i più dolorosi
per chi li subiva.
L'autore afferma nella prefazione: «Le
pagine del libro sono un tentativo di volersi scoprire e chiedersi quali
possibilità abbia di vivere normalmente chi è stato
per venticinque anni in istituto. Pone una domanda che ha in sé la risposta:
Gianni sa che non può far niente per pretendere di cambiare né se stesso, né le
cose perché i suoi avversari sono stati e sono i più forti ed egli è e sarà
sempre uno sconfitto.
LAURA MARASSO
SETTEGIORNI IN ITALIA E NEL MONDO, La manipolazione dei nostri figli, n. 233 del 28-11-'71.
Il numero 233 ospita la prima parte
di un servizio dedicato alla manipolazione del bimbo sin dalla scuola materna.
Esso si apre con un articolo di Christiane
Duparc che è una documentata contestazione della
scuola materna nell'esperienza francese, ma che potrebbe essere anche in
quella italiana, e la cronaca di casi, fatti, tendenze, opinioni che andrebbero
affrontati anche nella realtà italiana. Dice l'articolista: «La scuola infantile non sfugge affatto alle contraddizioni e alle
segregazioni della società attuale. Anzi, le riproduce e le accresce. Nonostante la loro dedizione, gli insegnanti servono, quando va bene,
a stabilire e ad alimentare le disparità sociali. Tutte le inchieste
concordano su questo punto...». «In questi cinque anni, ha constatato
L'affollamento della scuola materna,
la carenza di aule, asili infantili in condizioni
drammatiche, rischiano di diventare in Francia, come in Italia, il primo ghetto
di massa per i più «sfortunati» delle nuove generazioni. Per questo nello
stesso articolo vengono segnalate esperienze di
gruppi, di psicologi e di sociologi con conclusioni scientifiche molto
progredite che andrebbero approfondite e con iniziative nuove al di fuori degli
istituti scolastici burocratici e inadeguati.
AA.VV., Dalla parte dei subnormali, in Inchiesta, n. 4, autunno 71, pag. 63
e segg.
Segnaliamo all'attenzione dei
lettori l'articolo che contiene l'analisi di due esperienze alternative:
Centro per bambini subnormali gravi di Via Adriano 20, Milano della s.p.a.
Abetina e Centro di addestramento speciale di Piazza
Trento e Trieste 3/a, Bologna.
www.fondazionepromozionesociale.it