Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo
1972
DOCUMENTI
NEUROPSICOFARMACOLOGIA COME REPRESSIONE (1)
GIULIO A. MACCACARO
Se a questo mio intervento seguirà una
discussione, mi auguro che nessuno riterrà necessario ricordarmi che ci sono
psicofarmaci capaci di dare beneficio a certi malati e malati che trovano
sollievo nell'assunzione di certi psicofarmaci.
Il problema che intendo proporre è
un altro: il passaggio dalla sperimentazione psicofarmacologica come caso
particolare del più generale uso medico dell'uomo - già analizzato altrove come
momento di violenza classista - all'uso dello psicofarmaco come modello
generale di quella gestione repressiva della società capitalista che nella
medicina ha soltanto uno strumento particolare.
Non mi sfuggono né la gravità di questa enunciazione né il dovere di giustificarla, né la
difficoltà di adempiere a tale dovere nel breve tempo a mia disposizione.
Per questo, consegno alla Presidenza
fotocopia di un lavoro intitolato «Sperimentazione terapeutica
della propericiazina in bambini di 3-6 anni» a firma
di G. Battista Cavazzuti, Filadelfo
Amore e Maurizio Giacalone, pubblicato da pag.
È possibile e mi auguro che gli
autori siano presenti in quest'aula perché il lavoro è stato compiuto a Modena,
come collaborazione dell'Ufficio Igiene e Sanità del Comune, diretto dal prof. F. Vivoli e della Clinica Pediatrica Universitaria, diretta dal prof.
Renato Pachioli.
Il mio intervento sarebbe già svolto
se dessi lettura integrale di questo lavoro, scelto
solo per ragioni di prossimità topografica tra molti altri analoghi. Dovrò
invece riassumerlo e corredarlo con qualche altra
notizia:
1) Il lavoro precisa che il farmaco
sperimentato è il «Neuleptil», una specialità della
ditta Farmitalia, che viene
ringraziata in una nota a piè di pagina 295.
2) Da autorevoli fonti, non
industriali, di lingua inglese, leggo testualmente che il «Neuleptil»
«è usato per la cura della schizofrenia
acuta e cronica e per la correzione delle turbe comportamentali nelle malattie
psichiatriche gravi. È anche utile nella cura della ansietà
grave e degli stati di tensione».
3) Dalle stesse fonti leggo che gli «Effetti tossici» gli «Antidoti» e le «Controindicazioni» del Neuleptil sono
gli stessi della Clorpromazina, con una segnalazione
particolare di «ipotensione posturale e tachicardia» per i bambini.
4) Leggo infine che, nei bambini
affetti dalle malattie per le quali il Neuleptil è indicato, la dose iniziale non deve superare
0,5 mg al giorno per anno di età e cioè 1,5 mg per bimbo di 3 anni e 3 mg per
un bimbo di 6 anni.
Date queste documentate premesse è naturale chiedersi in quale ospedale psichiatrico i
colleghi di Modena abbiano trovato i loro piccoli pazienti, e da quali «gravi malattie psichiatriche» gli
sventurati fossero affetti.
La risposta la leggo testualmente
nel lavoro a pag. 293: «Per le nostre
esperienze abbiamo scelto i bambini frequentanti le Scuole Materne Comunali di
Modena. Tale materiale ci ha assicurato
una soddisfacente omogeneità di sperimentazione, trattandosi di soggetti
osservati dallo stesso personale, negli stessi orari e nello stesso ambiente.
Inoltre il rilievo dei comportamenti dei bambini ha
potuto essere effettuato da persone competenti, libere dalla suggestione familiare».
Leggo ancora a pag. 294: «Su un totale di 629 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni frequentanti 6 scuole
materne, sono stati scelti per la sperimentazione 150 soggetti, segnalati per
turbe del comportamento nell'ambito della scuola».
A proposito di tale segnalazione
merita di essere ricordato che in una noticina a piè di pagina 293 «gli autori ringraziano il corpo insegnante delle scuole materne
comunali per la valida collaborazione».
Alla segnalazione-denuncia segue
l'istruttoria, cioè usando le parole degli autori: «tutti i bambini sono stati sottoposti ad
un periodo di osservazione preliminare di 6 giorni, durante il quale, giorno
per giorno, sono state annotate l'intensità e la frequenza dei disturbi».
Alla fine i capi di
accusa contro i 150 piccoli criminali di 3, 4 o 5 anni sono ormai
formulati con la inappellabile severità del linguaggio medico-scientifico:
«aggressività, crisi di collera,
isolamento, mutacismo, anoressia nervosa, vomiti
funzionali, enuresi diurna o notturna, encopresi,
onicofagia, masturbazione, fobie, sonnambulismo, balbuzie».
Ma che città è Modena, dove 1 infante
su 4 nelle scuole comunali ordinarie è in queste condizioni? La domanda ha
tanto più senso se si ricorda che alla guida della ricerca partecipava il
direttore dell'Ufficio igiene e sanità del Comune. Ma egli non poteva porsela
perché aveva già stipulato con gli altri autori la clausola metodologica che
si legge a pag. 294: «restare nel piano
dell'osservazione obbiettiva, quindi fenomenologica,
senza spingersi ad interpretazioni nosografiche e motivazionali
dei comportamenti».
Il dibattimento è dunque inutile, la
flagranza è indubbia, la sentenza definitiva: si tengano 50 bambini in
osservazione come controllo e agli altri 100 si somministrino per 40 giorni da
I risultati appaiono subito
eccellenti: i piccoli rei di aggressività e crisi di
collera diventano «adattati, socievoli e
tranquilli». Quelli colpevoli di «isolamento e mutacismo»
si omogenizzano con gli altri. Qualcuno che aveva il
«vomito funzionale» non sporca più. Uno che si masturbava
perde interesse alla faccenda. Con gli enuretici e i
balbuzienti le cose vanno meno bene ma non sarà questo
ad impedire agli autori di affermare compiaciutamente
a pag. 296 che il Neuleptil ha operato nei bambini un
vero «cambiamento di carattere». Pertanto
il «Commento conclusivo» da pag.
Le insegnanti, già ringraziate,
ringraziano compuntamente.
Ed il lavoro va alle stampe su una
rivista scientifica il cui comitato direzionale e referenziale è probabilmente
molto rappresentato in questa sala.
Ebbene, questo lavoro - che non è più
censurabile di molti altri - è una piccola summa di tante cose.
La manifesta incapacità di intendere
del soggetto della sperimentazione, il diaframma alzato tra i bambini-cavia e
la loro famiglia, l'uso disinvolto di dosi elevate, l'esposizione a pericoli
di vario genere: sono i connotati di un volto che abbiamo già conosciuto e
descritto come quello di una sperimentazione che è violenza sull'uomo, compiuta
nell'indifferenza morale camuffata da neutralità scientifica. Riconoscerli sulla base di questo e di molti altri lavori che aggravano
il mio archivio significa constatare che la sperimentazione neuropsichiatrica in generale e quella neuropsicofarmacologica
in particolare non si distinguono eticamente dalle
altre concepite e compiute in diversi settori della medicina clinica. Questa
era la prima parte della tesi che ho inizialmente
proposta.
Vorrei dedicare i minuti che mi
restano allo sviluppo della seconda. Posso farlo riferendomi ancora al già
citato lavoro.
Sulla scena che vi ho presentata, leggendone fedelmente il copione, sono apparsi i
quattro personaggi di primo piano in ogni storia di questo genere:
l'industria, l'istituzione, la scienza e l'autorità. La parte dell'industria
farmaceutica è abbastanza risaputa; cito da SCIENCE: «al fine di espandere il mercato potenziale per i suoi prodotti, essa
cerca di ridefinire e riclassificare, come problemi
medici che richiedono l'uso di farmaci, un ampio spettro di comportamenti umani
naturali che sono parte dei cimenti e delle prove della nostra esistenza...» (LEONARD, EPSTEIN,
BERNSTEIN e RANSON, 1970).
Che cos'è infatti
l'aggressività di un bambino? Risponderò con SHIELDS (1971): «il tentativo di costringere l'ambiente ad
occuparsi, anche reattivamente, di lui, a mitigare
la sua delusione affettiva».
È la domanda di un bene smarrito,
non di 10 gocce di Diazepam. Cosa significa la
collera di un fanciullo? Risponderò con WINNICOTT (1958):
«un segno favorevole nella misura in cui
è interpretato ed usato come superstite possibilità di recuperare un rapporto
perduto», non una pastiglia di clordiazepoxide.
Cosa significa il primo furto di un
ragazzo? Risponderò con ZILBOORG (1954): «chi
di noi non è cresciuto un ladro è stato un bambino fortunato. Fortunato perché
nel giorno del suo primo piccolo crimine egli è stato amato ed ha potuto restituire il suo amore» non perché gli sono
stati somministrati 6 mg di propericiazina.
Ma non tutti i bambini sono fortunati
e quelli poveri lo sono meno degli altri.
Per essi
aggressività, collera, furto sono non soltanto l'espressione di una delusione
affettiva ma di una deprivazione obbiettiva, dicono non solo l'insufficienza di
un rapporto familiare ma anche quella di un possesso di cose con le quali
e sulle quali gli altri bambini
crescono e divengono. Chi erano socialmente quei 150 fanciulli
«segnalati» dalle insegnanti, quali
discriminanti di classe avevano contribuito a separarli dagli altri per farne
degli «imputati di devianza»?
Non c'è traccia di risposta a questa
domanda, anzi ce n'è il rifiuto. Non sarà certo l'industria farmaceutica a riproporla. Il suo pensiero in proposito ci
è noto perché - quali ne siano le buone intenzioni coltivate nei
laboratori e dichiarate nei congressi - il suo messaggio, diffuso tra i medici
e insinuato nella popolazione, è sotto gli occhi di tutti: dice che il LIBRIUM
può tacitare l'ansia prodotta negli operai da un lavoro pericoloso e da un cottimo
assillante; suggerisce l’ATARAX per domare l'inquietudine dei giovani e alla
depressione degli sconfitti propone il conforto del TOFRANIL.
Così facendo e così assumendo per sé
quell'onere e quell'onore della ricerca cui accennava con tanta
considerazione il collega Buscaino, essa non serve
soltanto il capitale farmaceutico, ma si rende benemerita del capitale quale
sistema: per farlo come si deve ha bisogno però, a sua volta, di essere
servita dalla scienza medica e dall'autorità sanitaria.
Ed ecco allora
comparire l'una e l'altra sulla scena della nostra favola nera. Ecco il pediatra universitario che
sceglie i suoi soggetti sperimentali secondo criteri e giudizi dei quali si ritiene
il solo autorizzato titolare, secondo scelte e discriminazioni per le quali non
ha ritenuto necessario il consenso, secondo propositi e
risultati dei quali incredibilmente si compiace. Chi gli ha dato il diritto di
«cambiare il carattere» di un
bambino? Chi gli ha permesso di compiere questa così violenta
operazione «libero da suggestioni familiari»? per conto di chi ha chiuso gli occhi
su tutto ciò che in quel carattere di quel bimbo
poteva essere ietto intorno alla situazione di quella famiglia?
E in nome di quale
autorità il Medico Capo del Comune, che qui doveva tener luogo di quel «Comitato» cui non credo anche se
credo che il collega Terrori ci creda, ha legalizzato
questa «strage delle devianze innocenti» aprendo al nuovo Erode in pillole le
porte di quelle Scuole Materne cui le madri consegnano ogni mattina i loro
bimbi con ben altre intenzioni, con ben altre speranze? Facile operazione del
resto in una istituzione - il quarto personaggio! -
che segnala il 25% dei suoi membri come portatori di «turbe del comportamento» avviandone perciò stesso più d'uno alla
carriera di stigmatizzato ed escluso, come alternativa
a quella di conculcato e represso.
A questo punto l'esperimento può
diventare «routine» e infatti, a distanza di 20 mesi e
di venticinque chilometri, si scopre che nell'asilo-nido dell'ONMI di Reggio
Emilia il VALIUM 2 viene somministrato sistematicamente a lattanti perfettamente
sani al solo scopo di evitare che piangano e disturbino.
La repressione neuropsicofarmacologica
può cominciare dalla culla, è già cominciata. Ma per
l'istituzione, l'autorità, la scienza medica e l'industria essa ha altro nome: si chiama socializzazione.
È questa incauta parola, usata dai nostri colleghi,
che rivela l'identità del mandante: il sistema capitalista che sta facendo qui
come altrove le sue grandi manovre per trasferire nell'area medica e risolvere
nel piano farmacologico la conflittualità sociale e
particolarmente giovanile.
È questo sistema,
che dettando alla società i suoi modi di produzione, subordinando alle esigenze
del suo profitto quelli della convivenza, piegando al suo bisogno di
conformismo l'originalità dell'individuo, sacrificando alla divisione del
lavoro l'unità del singolo e della famiglia, effettivamente lacera il tessuto,
sfregia il volto
della società.
È lui che produce la malattia come
conflitto, ed è quindi ancora lui che gestisce la medicina come repressione,
perché la ribellione sia espulsa come malattia e la malattia
sia soffocata come ribellione.
È questa medicina che dopo aver
aiutato l'individuo a interiorizzare tutte le
contraddizioni del sistema fino a soffrirne come di proprie, fino a smarrire
ogni equilibrio e benessere, gli vieta persino l'espressione della sua
sofferenza che sarebbe denuncia delle sue cause: all'appello dei sintomi
risponde o negandoli, con il
trasferimento del malato nel ruolo del disadattato, o silenziandoli con il bavaglio della sedazione
farmacologica.
Così anche i rapporti più naturali
si deforma no, come ha detto bene anche il collega Giberti:
chi doveva essere difeso è definito offensore, chi doveva difendere
è abilitato all'offesa. Con l'uso sociale dello psicofarmaco è il medico che si difende dal malato, l'insegnante dall'allievo, il padre
dal figlio.
Più atrocemente ancora è il fanciullo che viene indotto a difendersi da se stesso, da
ciò che in lui è più naturale, vivo ed urgente. Quel fanciullo
diverrà ragazzo, giovane e uomo: e avrà imparato che c'è un altro modo di
porsi in rapporto con la realtà. Non già come impegno di lotta solidale, ma
come fuga solitaria: nel farmaco o nella droga, che differenza fa? Eppure fa
differenza perché se il primo lo avrà ridotto alla conformità necessaria, cioè alla autorepressione
spontanea, egli sarà tollerato da chi invece non gli concederà alcuna pietà se
nella seconda avrà cercato un'illusione di rivolta.
È comunque
e sempre una rivolta contro il terrore di non essere, una domanda di aiuto per esistere
ciò che grida nel pianto di un bimbo, nel gesto aggressivo di un fanciullo, nel
tremore di un ansioso, nel lamento di un depresso. nella
imprecazione di un folle.
Quando avremo soffocato questo
grido, quando la protesta sarà afona, la sofferenza muta, la collera spenta,
quando finalmente crederemo di poterci ascoltare l'un l'altro,
non resterà più nulla da dirci: soltanto un vuoto silenzio nel quale risuoni
la voce del potere.
Ho finito. Anch'io sono stato
aggressivo, collerico, urtante ma non mi giustifica
l'inconsapevolezza del bimbo. Eppure, come la sua
anche la mia accusa è una domanda, la mia protesta è una speranza. Formulate
dall'interno di un sistema nel quale io stesso vivo
il mio impegno, ma anche la mia contraddizione.
Per questo non ho caro quello che ho
detto, ma l'ho detto per chi mi è caro: un altro
medico come me, un altro ricercatore come me, un altro insegnante come me che
dia a me la certezza che ho cercato di suscitare in lui. Che in ogni punto del
sistema - in ogni sede, in ogni lavoro, in ogni funzione - c'è un posto di
lotta se vogliamo combatterla insieme, insieme con i compagni della unica lotta che conti.
(1) Intervento
presentato alla IV riunione della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia
(Bologna, 23-24 ottobre 1971).
www.fondazionepromozionesociale.it