Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo
1972
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DISPOSIZIONI MINISTERIALI SULLE CLASSI DIFFERENZIALI E SPECIALI
PIERO ROLLERO
All'inizio del 1972 dare un giudizio
sulle classi differenziali ci sembra superato e scontato in teoria. Ma nella
pratica purtroppo continua, di poco ridotta, la grave prassi di «emarginazione»
sociale, psicologica e pedagogica a cui è stato
ridotto tale strumento di ricupero, e continua la non osservanza delle leggi e
delle disposizioni ministeriali che impongono una ben precisa procedura nella
formazione delle classi differenziali e nella loro assistenza.
Uno strumento, forse non del tutto
negativo nelle intenzioni dei promotori, è diventato in pratica un grave fatto
sociale e pedagogico. Del resto anche gli stessi promotori più convinti, fra
cui G. Bollea, lo hanno ormai respinto come strumento
scientifico di ricupero.
Le stesse disposizioni ministeriali
più recenti hanno posto un alt e più
di una alternativa alle classi differenziali. Ma se pensiamo all'enorme struttura «differenziale» creata in
questi anni dal 1962 ad oggi (nella sola provincia di Torino si è passato da 50
classi speciali e differenziali ad oltre 500!) e se pensiamo che specialmente
per la scuola elementare si sono dettate «uniformi o caute (sic) disposizioni
di massima» (com'è scritto nel cosiddetto «Piano Gui») e anche queste non sono osservate, non ci dobbiamo
stupire se senza una programmazione e un coordinamento efficienti non si sono
raggiunti gli scopi voluti. Che fare ora di questa struttura e delle decine di
migliaia di alunni interessati?
È opportuno esporre almeno in
sintesi le principali motivazioni contro le classi differenziali, prima di
accennare alle possibili alternative.
a) La critica pedagogica, che è stata la prima
in ordine di tempo (da noi, soprattutto Volpicelli, Agazzi, Bertolini), si può far
risalire alle esperienze del 1936 del Dottrens a
Ginevra, in cui si sono dimostrate negative le classi «omogenee». Contro l'omogeneizzazione
si impone la individualizzazione, contro la
separazione dei soggetti l'utilizzazione delle differenze, contro una pedagogia
«differenziale» una pedagogia di «relazione» varia e ricca. In particolare, per
il disadattato non è valida un'azione formativa, quando questi si trova
inserito in un gruppo di coetanei che presentano analoghe carenze.
b) In tale situazione, come già notava
il Dottrens, il progresso pedagogico non è stimolato.
Gli insegnanti trovano nella facile alternativa delle classi differenziali l'alibi per non attivizzare e
individualizzare i loro metodi che continuano ad essere
collettivi e passivi.
c) Più in generale, la ragione
veramente fondamentale è la seguente: le classi differenziali servono ad
eludere il problema di fondo della ristrutturazione
della scuola. Sono ancora un alibi
per non affrontare il problema di una modificazione
totale della scuola.
d) Anche la critica psicologica, molto attiva, ha portato ragioni allarmanti. In primo luogo, ci avverte che il disadattato
non è oggetto ma soggetto anche nell'educazione speciale. I
nostri atteggiamenti e le nostre concezioni contribuiscono a
strutturare l'insufficiente mentale e il disadattato. In particolare, non si
può trascurare la grave risonanza
psicologica che si verifica nel bambino e nel
ragazzo collocato in classe differenziale o speciale: sensi di colpa e di
timori, difficile maturazione della concezione di sé e della propria autostima,
predisposizione a comportamenti irregolari.
e) Risulta
inoltre impossibile stabilire con criteri strettamente scientifici per decidere
chi debba essere soggetto a un particolare tipo di trattamento o ad un altro. È
nota a questo proposito la grossa polemica sull'impiego dei reattivi mentali:
le critiche a questo riguardo sono fondamentalmente corrette.
f) Ancora: il rifiuto delle
classificazioni rigide e la riscoperta dei condizionamenti sociali (contro le tesi organicistiche e innatistiche dell'intelligenza) hanno fatto individuare «gli alunni di ambiente socioculturale
depresso», non più da considerarsi insufficienti mentali o pseudoinsufficienti, e hanno imposto una pedagogia di «compensazione» in ambiente
normale, iperstimolante, e non più differenziazioni
in strutture scolastiche pure esse depresse. (Si veda
a questo proposito l'ottimo numero unico di «Scuola di base», 1969, n. 5).
g) Infine la critica sociologica, la più recente e la più polemica, ha
dimostrato la funzione discriminatrice di classe di questi interventi: se
facciamo una statistica secondo la classe sociale di appartenenza
delle famiglie, esiste un'enorme sproporzione a tutto svantaggio delle classi inferiori.
h) La critica sociopolitica
va ancora oltre e indica nella scuola uno dei gestori dell'esclusione e dell'emarginazione: «La società normale che assume come
imperativo la conservazione dell'ordine costituito, non può voler mettere in crisi
la propria sicurezza, e quindi demanda ai suoi rappresentanti ufficiali
(polizia, giudici, medici, psicologi, insegnanti, educatori, benefattori in
genere) il compito di riportare alla normalità chi rischia di opporvisi, a
prezzo di rifiutare e poi di escludere chi si ostina, oppure non è in grado di
accettare la norma» (R. GUIGLIA, Pazzi
come li vogliamo. Creazione e sopraffazione dei disturbi
mentali, Ed. Dehoniane, Bologna, 1971, p. 43).
Passando alle violazioni di legge a
questo riguardo, che aggravano la situazione già così precaria per i motivi
addotti, in primo luogo bisogna ricordare che quasi nessun Comune in tutta
Italia ha attuato il «Regolamento di medicina scolastica»
(D.P.R. 22 dicembre 1967, numero 1518), soprattutto il suo «Titolo IV»
che prevede «L'assistenza medico-scolastica nelle scuole speciali, classi
differenziali, istituti medico-psico-pedagogici,
educativi e assistenziali». In questo vuoto assistenziale, il Ministero della P.I. da alcuni anni
stipula delle convenzioni con vari Enti allo scopo di supplire, almeno in
parte, ma certamente in modo insufficiente alla situazione.
Esistono poi delle norme che
chiamano in causa anche dirigenti scolastici e insegnanti: oltre al citato D.P.R., si vedano l'articolo 415
del Regolamento generale sull'istruzione elementare, le circolari ministeriali
9 luglio 1962 n. 4525 e 2 febbraio 1963 n. 934, e le circolari annuali sulle
convenzioni delle équipes.
Si tratta purtroppo, in gran parte, di «caute disposizioni di massima», secondo la stessa definizione ufficiale già
citata, le quali contengono anche punti molto criticabili. Ma
anch'esse non sono osservate specialmente per quel che riguarda le classi differenziali.
Esse fanno obbligo all'insegnante di
tentare, prima dell'invio in classe differenziale, «un buon insegnamento
individualizzato nella scuola comune» e «un'attenta e vigile azione educativa,
mediante un insegnamento adeguatamente individualizzato».
Fanno obbligo al dirigente
scolastico che «la selezione degli educandi sia accuratissima» tramite una ben
precisa e minuziosa prassi di reperimento, diagnosi e avviamento alle classi
differenziali. Fanno obbligo di tenere per ogni alunno anche di classe
differenziale «una cartella nella quale devono essere raccolte le schede con i
risultati delle indagini mediche, psicologiche, ambientali e con le
osservazioni degli insegnanti, nonché un giudizio di
sintesi sul soggetto».
Salvo lodevoli eccezioni, la prassi
comune è ben lontana da questi indirizzi, che, prima di essere
delle norme da osservare, sono dei principi etici, la cui inosservanza a danno
degli alunni chiama in causa la coscienza individuale e collettiva.
Quali alternative
si possono proporre alle classi differenziali?
Un discorso così impostato non si
può accettare. Occorre fare un discorso su tutta
l'educazione differenziale o speciale per essere coerenti alle premesse
poste.
Il problema del disadattato va
veramente tutto ripensato, come afferma R. Lafon. Accenno almeno alla necessità di estendere la prassi delle «classi
speciali» funzionanti e integrate nei plessi scolastici normali, e di ridurre
via via le scuole speciali autonome e ancor più gli
istituti medico-psico-pedagogici. Solo quando noi
avremo avvicinato l'insufficiente mentale all'alunno normodotato,
solo quando tutti gli insegnanti potranno confrontare
veramente queste due realtà, avremo dimostrato la superfluità delle classi
differenziali: non un abisso categoriale separa
questi due mondi, ma i nostri pregiudizi; esiste una gamma di variazioni e non
una separazione incolmabile.
Per essere molto
realisti, mi
richiamo alle recenti disposizioni ufficiali. La legge 30 marzo 1971, n.
La legge 23 settembre 1971, n. 820
sull'ordinamento della scuola elementare pone alcune condizioni di base molto
importanti:
1) il numero massimo di alunni che possono essere affidati a un solo insegnante
non potrà essere superiore a 25 (a 10 per le «pluriclassi»):
2) viene
istituito il ruolo di insegnanti per le attività integrative e per gli
insegnamenti speciali, «con lo scopo di contribuire all'arricchimento della
formazione dell'alunno e all'avvio della realizzazione della scuola a pieno
tempo» (art. 1).
Scuola a pieno tempo che non dovrà
«congelare» l'attuale struttura «scuola+doposcuola»,
ma operare una ristrutturazione di tutte le attività
scolastiche e far posto anche a «classi di rotazione» e a «insegnamenti
speciali», fra cui anche la cura individuale o in gruppi mobili degli alunni in
difficoltà.
Uno schema di disegno di legge del Ministero della P.I. (febbraio 1970) prevede appunto la
trasformazione delle classi differenziali in «sezioni di rotazione» per «gli
alunni della scuola elementare che frequentano classi normali, ma che per
presenza di disfunzioni particolari abbisognano di rieducazioni settoriali». Solo alcune classi differenziali dovrebbero essere così
trasformate, ma nella stragrande maggioranza meglio sarebbe trasformarle in
sezioni di attività integrative.
La circolare ministeriale del 14
luglio 1971 porta a conoscenza che i posti richiesti per classi speciali sono stati accolti solo per l'80% rispetto alle
proposte e «l'assegnazione di posti di classi differenziali è rinviata a quando
si avranno con maggior compiutezza gli elementi per stabilire la necessità di
istituire posti in parola».
La circolare del 25 agosto 1971,
«Funzionamento di classi sperimentali e di classi differenziali ad
esaurimento (sic!) nella scuola media»,
dà notizia che presso il Ministero della P.I. è
costituita una Commissione di studio con il compito anche di «prospettare
soluzioni alternative in una visuale di innovazioni strutturali e di maggior
efficacia funzionale negli interventi della scuola a favore degli alunni in
stato di disadattamento». Le prime risultanze di tale
Commissione hanno indotto il Ministero a due provvedimenti:
1) È sospesa la costituzione di
nuove prime classi differenziali di scuola media a partire
dal corrente anno scolastico.
2) «Potranno essere istituite, in via sperimentale, prime
classi costituite ciascuna di non più di 20 alunni, alle quali saranno
assegnati, in una percentuale non superiore al 25%, ragazzi portatori di turbe
caratteriali e/o di ipodotazioni mentali. Per tali
classi, che funzioneranno con l'assistenza della commissione medico-psico-pedagogica (...), è obbligatorio il
funzionamento del doposcuola».
Infine la
circolare 29 luglio 1971 detta nuovissime norme sulle convenzioni con le équipes. Oltre a raccomandare che non siano
solo diagnostiche, ma anche terapeutiche (con la presenza di specialisti della
riabilitazione in vari settori), pone un principio
pedagogico molto importante: il ricupero
di alunni disadattati in classe normale. «In presenza
di eventuali difficoltà e anomalie non sempre è adatto l'inserimento in classi
differenziali, pur riscontrandosi la necessità di un trattamento pedagogico
differenziato». Per cui anche l'équipe è richiamata a un'azione di «trattamento pedagogico differenziale nei
confronti di alunni da inserire anche in classi normali».
Da questa rassegna di concrete
indicazioni, emerge un nuovo indirizzo anche ufficiale nella educazione
speciale. Ampio criterio discrezionale è lasciato alla sensibilità e alla
disponibilità umana, sociale, pedagogica della scuola (dirigenti e insegnanti)
e all'impegno scientifico e professionale degli specialisti. È lasciata la più
ampia possibilità di sperimentazione, in attesa di
norme più specifiche, più generali, più omogenee e decisamente più vincolanti.
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