Prospettive assistenziali, n. 18,
aprile-giugno 1972
DOCUMENTI
SENTENZA
DEL PRETORE DI TORINO
Riproduciamo
un ampio stralcio della sentenza pronunciata dal pretore di Torino nei
confronti di quattro dirigenti di istituti di
assistenza.
Con
la pubblicazione intendiamo anche rispondere a E. Delorenzi che, nell'articolo «Opinioni varie sull'opera assistenziale della Chiesa», in Medicina e morale, n. 1, 1972, afferma fra l'altro: «Non occorre
scendere a particolari nella campagna che, in questi ultimi tempi, è stata
condotta contro gli istituti assistenziali di vario
genere, dagli ospedali agli asili, agli istituti di educazione della gioventù»
e accusa l'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore e per la
lotta contro l'emarginazione sociale di aver denunciato i quattro dirigenti
processati.
Il
Delorenzi afferma inoltre che i quattro dirigenti
hanno ottenuto «piena assoluzione». Precisiamo invece che l'esposto presentato
non si riferiva ad alcun istituto in particolare. Inoltre, come risulta dalla sentenza, l'assoluzione non fu «piena». Infatti il Pretore, accertato che il funzionamento degli
istituti senza la preventiva autorizzazione di cui all'articolo 50 del R.D.
15-4-192G n. 718 costituisce reato ai sensi dell'art. 665 del codice penale, ha
ritenuto che «gli imputati in buona fede sono caduti in errore» non avendo né l'ONMI,
né il Ministero dell'Interno, dal 1926 al 1969, mai richiesto
l'applicazione della suddetta disposizione di legge.
Infine
la sentenza smentisce il Delorenzi che nell'articolo
citato riteneva una «stranezza» l'affermazione che gli istituti religiosi di assistenza possano ricoverare i minori per mercede.
Il Pretore di Torino ha pronunciato la seguente sentenza
nella causa penale contro
1) Veritier
Agnese, nata a Villar Perosa
il 1612-1891, residente presso la «Congregazione Suore S.S. Natale, corso Francia 164 (TO)».
2) Bertollè Angioletta, nata a Tronzano
Vercellese il 29-9-1919, residente presso «Pia Unione
casa Sacro Cuore», via Montebianco 36 S. Mauro Torinese.
3) Ferrero Giuseppe, nato a Torino il 7-1-1927 residente in
viale dei Mughetti 13 Torino.
4) Arbinolo Giovanni Battista, nato a Torino il 17-11-1915,
residente presso la
«Città dei Ragazzi» strada del Traforo di Pino, 67 - Torino.
Imputati
la prima: a) del reato p. e p.
dall'art. 665 c.p. per avere, quale rappresentante legale della «Congregazione del
S.S. Natale», gestito l'istituto S. Natale di Rivalta
(via Roma, 5), nel quale riceveva in convitto dei
minori dietro pagamento di rette o contributi, senza avere ottenuto la
dichiarazione di idoneità a funzionare di cui all'art. 50 del R.D. 15-4-1926 n.
178;
la seconda: b) dello stesso reato
indicato sub a) per avere, quale rappresentante legale della «Pia Unione Casa
Sacro Cuore», gestito l'istituto «Sacro Cuore» sito in
via Montebianco 36, San Mauro Torinese;
il terzo: c) del reato indicato sub a)
per avere, quale rappresentante legale dell'Associazione «Amici
dei bimbi», gestito l'omonimo Istituto sito in viale dei Mughetti 13, Torino;
il quarto: d) del reato indicato sub
a) per avere, quale rappresentante legale dell'opera diocesana «Madonna dei
Poveri», gestito l'istituto «Città dei Ragazzi» sito
in Torino, strada Traforo del Pino 67.
Fatti accertati in Torino il 30
marzo 1971.
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1 - Con distinti decreti penali Veritier Agnese, Bertollè
Angioletta, Ferrero Giuseppe e Arbinolo
Giovanni Battista venivano condannati all'ammenda di L. 150.000 per il reato come loro rispettivamente
attribuito in rubrica. Avverso a tali decreti gli imputati proponevano
tempestiva opposizione, e pertanto, riuniti i procedimenti ai sensi dell'art.
413 c.p.p., veniva
celebrato, secondo le norme di rito, il dibattimento, che si svolgeva nelle
udienze del 28-9, 29-9 e 9-10-1971 (1).
7 - Respinte le varie questioni
preliminari, occorre esaminare se, nel caso de quo, sussistono concretamente
tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie dell'art. 665 c.p. che, nella
parte che ci interessa, dice: «chiunque, senza la
licenza dell'Autorità; ... per mercede... riceve persone in convitto».
Nessun dubbio può sussistere sul
fatto che gli istituti assistenziali ricevono i minori
in «convitto». Questa espressione viene
tradizionalmente riferita agli istituti che ai minori danno alloggio, vitto,
educazione e istruzione; i quattro imputati, sia pure per altre ragioni, hanno
esplicitamente ammesso che fornivano ai minori non soltanto l'alloggio ed il
vitto ma anche educazione ed istruzione. Del tutto arbitrario è, pertanto,
l'assunto difensivo secondo cui gli imputati non ricevono i minori in convitto.
8 - Gli imputati hanno vigorosamente
sostenuto che l'art. 665 c.p. non può essere applicato nei loro confronti, in
quanto essi hanno ricevuto i minori in convitto per
fine di beneficenza e senza alcuna mercede. Hanno assunto che non chiedono
alcuna retta specifica, ma soltanto «una contribuzione volontaria che varia
secondo la possibilità della famiglia». Per tali ragioni alcuni minori
sarebbero assistiti gratuitamente, e per altri v'è soltanto un modesto
contributo dell'ONMI, del Comune, della Provincia o di altri
Enti pubblici. Hanno affermato che la loro opera viene per la maggior parte
finanziata da contribuzioni volontarie di privati cittadini o di locali
imprese commerciali ed hanno concluso che, non
svolgendo l'assistenza per fine di lucro, non possono essere destinatari della
fattispecie dell'art. 665 c.p., che - col termine
mercede - vuole riferirsi alle imprese che esercitano attività con fine di
lucro.
Prima di esaminare il significato
del termine «mercede» contenuto nell'art. 665 c.p. è opportuno analizzare con
quali fondi gli imputati gestivano i loro istituti. L'istruzione
dibattimentale su questo punto s'è limitata a quanto è stato dichiarato dagli
stessi imputati, a ciò che risulta dai documenti da
loro spontaneamente esibiti e alle deposizioni del teste Elia. Questo Pretore
ha ritenuto superfluo svolgere altre indagini per provare che percepivano
somme maggiori, in quanto ciò che è stato ammesso dagli imputati è pienamente
sufficiente per giungere alla decisione di questo
processo.
Don Arbinolo
Giovanni Battista ha dichiarato che la «Città dei Ragazzi», che ospita in media
120-130 minori, spende - secondo l'ultimo bilancio - L. 19 milioni annui. - Lo stesso istituto mediamente
incassa, sempre secondo l'imputato, la somma di L.
11.000 mensili per ogni ragazzo ricoverato. A tale cifra si perviene tenuto
conto che alcuni ragazzi sono assistiti gratuitamente, per altri 2-3 v'è un
contributo dell'ONMI, per altri 4-5 v'è una retta della Amministrazione
Provinciale e per altri vi sono le rette pagate dalla famiglia di ammontare
diverso a secondo le possibilità economiche. Effettuando
la media di queste rette e contributi specificatamente versati per ogni
minore, secondo l'Arbinolo, si giunge alla somma di L. 11.000 mensili incassati per ogni ragazzo.
Sulla base dei dati forniti dall'imputato
si deduce che la «Città dei Ragazzi» incassa, a titolo
di retta, una somma complessiva annua aggirantesi
tra L. 15.840.000 e L.
17.160.000 (tali cifre sono ricavate moltiplicando la retta media mensile di ogni ragazzo prima per 12: numero di mesi, e
successivamente per 120 o 130: numero dei ragazzi assistiti).
Ciò sta a
significare che la spesa annua per l'assistenza (19 milioni) viene
coperta quasi completamente dalle rette incassate per il ricovero dei ragazzi
e, pertanto, è erroneo sostenere che la «Città dei Ragazzi», si regge per la massima parte sulle contribuzioni volontarie di privati
cittadini. Quest'ultime, secondo i dati forniti dallo stesso Arbinolo, coprirebbero al massimo
un decimo delle spese totali, mentre per la restante parte i fondi derivano o
da denaro pubblico o dalle rette versate dalle famiglie dei minori ricoverati.
Ma v'è ancora di più. L'imputato ha
esibito una parte della corrispondenza intercorsa tra la «Città dei Ragazzi» e
Si inizia con una lettera del 10-1-1955
della Prefettura di Torino, «oggetto sussidio», ove è detto «Il Ministero
dell'Interno con nota n. 25981 comunica di avere concesso a questo
Ente una sovvenzione di 500.000 lire». Il 2-5-1955 è il comune di
Torino, a mezzo del suo assessore Sibille, che
scrive: «mi è lieto comunicare alla S.V. che questo Comitato... ha determinato
l'erogazione di un contributo straordinario di L.
500 mila a favore di codesta benemerita Opera». Il 12-4-1956 è
Dall'esame della frammentaria
corrispondenza esibita si può affermare che la «Città dei Ragazzi», oltre alle
rette già indicate, ha ricevuto in questi anni dallo Stato, dal Comune e dalla
Provincia una grande massa di mezzi finanziari, ammontante
a decine di milioni. Si può concludere che il predetto
istituto ha finanziato la sua attività quasi completamente con le rette pagate
dalle famiglie dei ragazzi ricoverati, e con i contributi straordinari e
sovvenzioni che a vario titolo gli sono stati elargiti da Enti pubblici.
A conclusioni sostanzialmente simili
si giunge per gli altri Istituti. È provato che «l'Associazione
Amici dei bimbi» riceveva dal Comune per ogni ragazzo assistito una
retta di L. 1.500 giornaliere (v. interrogatorio del
Ferrero) cioè Lire 45.000 mensili, somma che copriva
quasi completamente il costo dell'assistenza. Nella stessa
maniera rette dall'ONMI, dal Comune, dal
Chiarito che gli imputati, sostanzialmente
non svolgono l'assistenza dei minori né con fondi propri, né di privati
benefattori, ma con mezzi economici che a loro provengono o dai familiari dei
ragazzi ospitati o direttamente dallo Stato o da altri Enti pubblici, resta da esaminare se tali somme integrano il concetto di
mercede di cui all'art. 665 c.p. La risposta deve essere affermativa.
Innanzitutto è da notare che l'eventuale fine di
beneficenza che ispirava gli imputati non esclude che essi potevano agire «per
mercede», nella stessa maniera che il fine educativo di una scuola privata o
il fine curativo di una clinica medica privata non esclude che tali attività
possono essere esercitate per mercede. Né alcun pregio giuridico ha la tesi
sostenuta dai difensori secondo cui per la beneficenza occorrono fondi
economici e pertanto gli imputati dovevano necessariamente chiedere rette, contributi, sussidi ed altre elargizioni di denaro
sia alle famiglie che dagli Enti pubblici. Ciò è esatto da un punto di vista pratico ma non ha alcuna rilevanza sull'elemento oggettivo
del reato. Si noti che secondo il combinato disposto dagli artt.
665 c.p. e 50 R.D. 15-4-1926 n. 718 non v'è reato quando
l'assistenza ai minori viene praticata con mezzi economici propri (pur
sussistendo l'obbligo, non sanzionato penalmente ma solo amministrativamente,
di chiedere la preventiva dichiarazione di idoneità), mentre sussiste
l'illecito penale quando s'impiegano fondi provenienti dalle famiglie dei
ragazzi o da enti pubblici. In realtà gli attuali imputati non sono dei benefattori, ma semplicemente, coordinando fattori
economici non propri, gestiscono il servizio dell'assistenza ai minori.
Non è esatto ritenere che il termine
mercede abbia una colorazione psicologica e voglia dire per fine di lucro. Il vigente
codice penale quando ha voluto richiedere tale scopo
ha usato le espressioni «profitto» o «lucro», ma mai il termine «mercede».
Una guida per rettamente interpretare l'art. 665 c.p. la si
può trarre dalla relazione al Re ove esplicitamente è detto che s'è usato il
termine mercede per ricomprendere nella norma sia
l'ipotesi di un vero e proprio esercizio professionale di carattere
permanente, sia l'ipotesi di attività temporanea. Come si nota,
si è su un piano completamente diverso dal fine di lucro. In realtà
mercede significa soltanto corrispettivo economico, indipendentemente se esso sia idoneo a generare un profitto. È certo che gli istituti
diretti dagli imputati ricevono un corrispettivo in
denaro per l'attività svolta. Ciò integra a sufficienza l'elemento materiale dell'articolo 665 c.p.
Questa interpretazione della norma
penale in esame è del tutto conforme al dettato costituzionale. L'art. 38
Cost. prevede due tipi di assistenza. Una del tutto
libera, in quanto praticata con mezzi propri; un'altra, invece, integrata dallo
Stato. È del tutto logico dedurre che gli istituti che operano con denaro
pubblico siano soggetti a determinati obblighi e
sanzioni.
Del resto guardando concretamente lo
sviluppo economico degli istituti assistenziali non
si può negare che essi traggano un «profitto» dalla loro attività. Ciò lo si deduce ponendo a confronto i mezzi economici che
avevano nel momento in cui sorsero e quelli che hanno attualmente.
Dai documenti esibiti risulta che all'atto della fondazione erano provvisti di un
patrimonio del tutto irrisorio (
Parimenti notevole è stato lo
sviluppo del Santo Natale che ha esteso la sua attività in 40 case sparse
nelle diocesi di Torino, Milano, Novara, Bergamo, Pinerolo,
Vercelli, Ivrea e Mondovì,
ove possiede beni immobili. Ha anche una casa al mare
a Cesenatico e case per villeggiatura a Ressago ed Usseglio.
I risultati economici conseguiti dai
predetti Istituti indicano a sufficienza che gli stessi dall'attività svolta
hanno conseguito un «profitto».
9 - Stabilito che il comportamento
degli imputati integra la fattispecie obbiettiva dell'art. 665 c.p., per affermare la loro penale
responsabilità bisogna analizzare se sussiste l'elemento soggettivo del reato.
È stato sostenuto dalla difesa che
gli imputati in buona fede sono caduti in errore su legge extra-penale e,
pertanto, devono essere assolti per mancanza dell'elemento soggettivo. Il
problema merita di essere ampiamente esaminato.
Nel corso dell'istruttoria
dibattimentale è emerso che nessuno degli istituti assistenziali
per minori esistenti nella provincia di Torino (sono circa 180) aveva ottenuto
il 30-3-1971 - data di accertamento del reato da parte di questo Pretore - la
prescritta dichiarazione d'idoneità (v. deposizione del teste Elia). - È anche risultato che questa situazione non è limitata a Torino, ma
riguarda tutta l'Italia. Da ciò si deduce che il citato art. 50, che nel 1926
introduceva nel nostro ordinamento giuridico l'istituto della dichiarazione d'idoneità, non è mai stato applicato.
Per rettamente giudicare l'azione
degli imputati è necessario comprendere i motivi per cui
non soltanto loro quattro, ma tutti i direttori degli istituti assistenziali
esistenti in Italia, non hanno preventivamente chiesto la dichiarazione di
idoneità, né gli organi dello Stato - preposti al loro controllo - hanno
richiesto l'osservanza della norma violata. A tale uopo occorre inquadrare
l'art. 50 del R.D. 1926 nel momento storico in cui fu posto.
Sino al 1925 non v'è nella nostra
legislazione alcuna norma che regoli espressamente gli istituti di assistenza ai minori, tranne quelle dettate per le opere
pie in genere. Lo Stato, secondo i principi liberali prevalenti in quell'epoca,
si disinteressava completamente del problema dei
minori bisognosi di assistenza. Nell'800 e nei primi del 900 sorsero -
specialmente per iniziativa di cattolici - molteplici
istituti privati di assistenza, che erano del tutto liberi ed agivano senza
alcun controllo pubblico.
Tra il 1925 ed il 1927 lo Stato
interviene per la prima volta con varie leggi e regolamenti (v. L. 10-12-1925 n. 2277; R.D. 15-4-1926 n.
718; R.D.L. 8-5-1927 n. 798; R.D. 29-12-1927 n. 2822). Il principio-base di tale normativa è, come già visto in
precedenza, che lo Stato ritiene che l'assistenza ai minori sia suo compito
esclusivo. Per tale motivo istituisce un apposito
ente (ONMI) nel quale sono accentrati tutti i poteri relativi all'assistenza.
Gli istituti privati possono esercitare l'assistenza ai minori soltanto alle
dipendenze dell'ONMI, che è l'unica a decidere i fini e le modalità della assistenza con effetti vincolanti sugli istituti
privati. L'ONMI può modificare gli statuti dei predetti istituti per
uniformarli ai suoi indirizzi. Per l'attuazione di questi scopi all'ONMI vengono attribuiti vasti poteri di controllo sia preventivi
(dichiarazione di idoneità) che successivi sugli istituti. Inoltre, tenuto
conto che gli istituti privati, per effetto di tali mutamenti legislativi, di fatto gestivano l'assistenza per conto dello Stato,
vengono loro concessi - da parte dell'ONMI - mezzi finanziari sotto la forma di
rette e contributi.
Ma ciò che è importante notare è che
questa normativa restò sin dall'inizio del tutto inattuata.
L'ONMI, infatti, non istituì la diretta assistenza dei minori, né operò i
prescritti controlli, né chiese la preventiva dichiarazione d'idoneità ai nuovi istituti privati, né coordinò i servizi di assistenza.
La situazione restò uguale a quella esistente in
precedenza e i privati istituti continuarono ad agire ed a sorgere liberamente.
L'unica novità era costituita dalla presenza dell'ONMI, che sa
limitò ad esercitare i poteri discrezionali ad essa conferiti, soltanto nella
erogazione dei contributi e dei sussidi agli istituti assistenziali. Favoriti
da tali contribuzioni gli istituti privati, specialmente quelli di ispirazione religiosa, aumentarono di numero ed
ampliarono la loro influenza.
La differenza tra la normativa in
vigore e la prassi che si istituì in quegli anni è
talmente profonda ed ampia che non si può ritenere che si sia verificata una
semplice inattuazione di norme e di istituti, come
molte volte avviene, ma si deve pensare che successivamente al 1927 è
intervenuto qualche fatto nuovo che ha causato un mutamento della volontà
statuale.
Ma anche le norme costituzionali
sono rimaste inattuate in quanto non sono stati
creati i previsti istituti assistenziali, né è stata
emanata la necessaria legislazione ordinaria che adeguasse la situazione ai
principi costituzionali.
Questa situazione di completa
indifferenza circa l'attività degli istituti assistenziali
e dell'ONMI è durata sino circa al 1969, quando l'opinione pubblica ha
cominciato ad interessarsi al problema dei minori abbandonati e gruppi di
privati cittadini hanno presentato le prime denunzie alla magistratura.
L'ONMI soltanto in questo momento ha mostrato la volontà di adeguare la prassi
alla normativa in vigore, ha iniziato un certo controllo ed ha richiesto la
dichiarazione d'idoneità a tutti gli istituti sorti successivamente
al 1926. Essa s'è subito accorta, però, che gli istituti privati, che non
erano mai stati sottoposti a qualsiasi forma di controllo, erano privi dei
requisiti richiesti dalla legge e, tenuto conto che non potevano
adeguarsi alla normativa in vigore immediatamente, e, sul presupposto che non
poteva disporsi la loro chiusura per mancanza di altri istituti ove ricoverare
i minori da loro assistiti, ritenne opportuno concedere un termine per «ottenere,
attraverso un realistico senso, di gradualità, il rispetto della legislazione
vigente in materia» (v. lettera dell'8-8-1969 dell'on.
Angela Gotelli, Presidente Nazionale dell'ONMI
diretta all'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore). Ed
ancora il 23-7-1971, quando questo pretore aveva già emesso vari decreti
penali di condanna per il reato di cui in epigrafe ed aveva iniziato indagini
di polizia giudiziaria per l'acclaramento di altri eventuali reati commessi nel campo dell'assistenza
ai minori,
È in questa situazione che oggi
interviene per la prima volta la magistratura per formulare un giudizio di
responsabilità penale a carico degli attuali imputati. Bisogna partire dalla
considerazione che questi hanno iniziato a svolgere
la loro attività quando la «prassi» menzionata s'era già creata e consolidata
da lunghissimo tempo (da 23 anni per don Arbinolo e
da quasi 40 per il Ferrero). Da tale lato la tesi
difensiva, secondo cui gli imputati in buona fede sono caduti in errore, è
attendibile. Tale errore non è stato determinato da un comportamento singolo della pubblica amministrazione, che non sarebbe certamente
sufficiente ad eliminare la responsabilità penale, ma è stato causato dal
comportamento tenuto in maniera univoca per 45 anni da tutto lo Stato. Gli
istituti erano quotidianamente in contatto per la loro attività con l'ONMI e la
prefettura che, non soltanto non richiedevano la dichiarazione d'idoneità,
ma, quantunque fossero a conoscenza che ne erano
sprovvisti, affidavano loro i minori, che per espressa disposizione di legge
possono essere affidati soltanto agli istituti «idonei». Non si possono
ritenere gli attuali imputati responsabili di una carenza
voluta dallo Stato in generale, e causata anche dal comportamento dell'ONMI e
del Ministero degli Interni che per legge sono tenuti al controllo degli istituti
assistenziali. E che la situazione è stata determinata principalmente dagli
organi dello Stato è provato dal fatto che, quando
l'ONMI di Torino il 1-8-1969 (per la prima volta) ha inviato una circolare
diretta all'adempimento della prescrizione stabilita nel citato art. 50, i
quattro imputati - come del resto tutti gli istituti esistenti nella provincia
di Torino - hanno presentato la relativa domanda.
Tenuto conto che l'art. 50 R.D.
15-4-1926 n. 718 è sottoposto alla disciplina dell'art. 47 c.p., e ritenuto che gli imputati in buona fede sono caduti in
errore, gli stessi vanno assolti per mancanza dell'elemento soggettivo del
reato.
P.Q.M.
Il Pretore,
Visto l'art. 479 c.p.p. assolve Arbinolo Giovanni Battista, Ferrero
Giuseppe, Bertollè Angioletta ed Agnese Veritier, in quanto persone non punibili perché il fatto
non costituisce reato.
Torino, 9-10-1971.
IL PRETORE (F. PALMISANO)
(1) Non riportiamo le
parti dal n. 2 al n. 6 che trattano varie questioni preliminari strettamente
giuridiche.
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