Prospettive assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972

 

 

DOCUMENTI

 

ALCUNI INTERROGATIVI PASTORALI SUL RECENTE DOCUMENTO DELLA C.E.I. RIGUARDANTE L'ASSISTENZA SOCIALE

PIERO ROLLERO

 

 

Il recente documento della Conferenza Episco­pale Italiana (C.E.I.) sui problemi dell'assistenza (Osservatore Romano del 15 luglio 1972) ha su­scitato reazioni e perplessità di varia natura, a cui si accenna in altri articoli di questo stesso numero della Rivista. Qui vogliamo accennare ad alcuni interrogativi di ordine pastorale che sor­gono alla lettura del documento.

 

«Né pregiudizio laicista né miope mentalità apologetica»

Nel settimanale della Diocesi di Torino, La Vo­ce del Popolo del 23 luglio si legge un equilibra­to commento di Franco Peradotto, che fra l'altro osserva: «Peccato che gli "esperti" non abbia­no colto l'occasione per determinare ulterior­mente il discorso e per fare proposte più con­crete (ad esempio sul problema dei "piani di programmazione" e delle "scelte di campo", cui pure si accenna nei documenti C.E.I.; sui con­trolli amministrativi, pedagogici, programmati­ci: è infatti su questi terreni che poi avvengono gli scontri). Ma parlavamo di dialogo sull'assi­stenza: speriamo che prosegua coraggiosamen­te sia "in casa" che nei confronti dello Stato e della Regione».

Nel numero seguente de La Voce del Popolo, nella pagina «Momenti del dialogo», è ospitata una lettera molto interessante a firma di ci. vi:

«L'approccio al problema mi pare non debba essere fatto col pregiudizio laicistico per il quale la disfunzione dell'assistenza dipende totalmen­te dalla mentalità religiosa che, per se stessa, genererebbe solo atteggiamenti paternalistici e sarebbe incapace di rispettare la libera matura­zione delle persone. Ma il tema non deve essere affrontato nemmeno con miope mentalità apolo­getica cioè di difesa a oltranza delle istituzioni comunque siano e comunque funzionino.

Qui sono in gioco persone e persone in stato di bisogno e non attrezzature sportive e opere murarie, per cui l'attenzione deve essere sem­pre vigile nel cogliere ogni suggerimento utile a migliorare il servizio, lo studio aggiornato e la fantasia desta ad ideare nuove forme maggior­mente rispondenti alla dignità dell'uomo, che, grazie alla sensibilità moderna e anche alla sot­tolineatura conciliare, sta sempre più imponen­dosi come centro d'interesse e vertice dei valo­ri storici.

L'impegno non è doveroso solo per gli “ad­detti ai lavori” ma per tutta la comunità cristia­na e civile che deve farsi carico di trovare solu­zioni allo stato di disagio, di emarginazione, di mancato possibile recupero di tanti suoi mem­bri che conservano integro il diritto di essere effettivamente, e non solo a parole, riconosciuti nella loro dignità.

All'interno delle stesse istituzioni, molte del­le quali, a dir il vero, lodevolmente avviate sulla strada del rinnovamento e dell'aggiornamento, dovrebbe essere colto con simpatia e segno di solidarietà ogni contributo di ricerca, di opinio­ne e statistico, anche se a volte espresso con qualche punta critica (...) .

I meriti di tanti religiosi e suore in campo as­sistenziale sono fuori discussione, costituisco­no una delle più belle pagine della storia del Cri­stianesimo. Ma non possiamo crogiolarci narci­sisticamente nei meriti acquisiti. Tanto più che proprio lo spirito - non raramente contestatore per i loro tempi - dei grandi fondatori costitui­sce un pungolo ad un aggiornamento continuo che insegue le novità, e possibilmente le anti­cipa, per dare una risposta alle esigenze di chi è in stato di bisogno.

L'interessamento della comunità cristiana che sappia superare il pettegolezzo per diventare compartecipazione, magari critica dove fosse necessario, è auspicabile anche agli effetti di una maggior efficacia di eventuali impostazioni nuo­ve auspicate dagli stessi responsabili. Sarebbe, in fondo, un aspetto di quell'interazione che si è felicemente avviata da qualche tempo, tra pasto­rale generale e ordini religiosi».

Ma le perplessità maggiori nascono soprattut­to dalla mancata impostazione « pastorale » che si riscontra sia in questo documento sia in al­tri precedenti sullo stesso tema.

 

L'autorità del Vescovo sulle opere caritativo-assistenziali

Per chiarire questo aspetto occorre fare un passo indietro. Tra la fine del 1969 e l'inizio del 1970 la presidenza della C.E.I. predispose con un suo documento-regolamento l'istituzione di una «Commissione» e di una «Consulta» perma­nenti per l'assistenza sociale, a livello naziona­le, regionale e diocesano (1).

L'iniziativa fu accolta con soddisfazione da quanti auspicavano da tempo che i Vescovi po­tessero esercitare la funzione pastorale sulle opere caritative e assistenziali, comunque ope­ranti nella Diocesi in nome della Chiesa. Nel do­cumento-regolamento, infatti, così si legge: «La Commissione ha il compito di svolgere azione di promozione qualificata nel settore dell'assi­stenza e di raccordo fra le istituzioni assisten­ziali, in qualunque modo dipendenti dall'autorità ecclesiastica». E nella lettera accompagnatoria a firma del Segretario di Stato Card. G. Villot si precisa: «Sarà pertanto cura della C.E.I. di pre­parare un concreto piano di azione, atto a costi­tuire commissioni di studio ed organi esecutivi di coordinamento e di vigilanza su tutto l'appa­rato assistenziale cattolico in Italia; e sarà, d'al­tra parte, doveroso impegno di ogni Istituzione - comprese quelle dirette da Religiosi esenti (Motu Proprio Ecclesiae Sanctae, art. 25 e segg.) - di uniformarsi agli accertamenti e agli indiriz­zi predisposti in maniera congrua e stabile». [Il corsivo è nostro].

In questa chiara affermazione di riconosciuta autorità del Vescovo su tutte le opere «dipen­denti sotto qualsiasi aspetto dall'autorità eccle­siastica», non dovrebbero più verificarsi delle dichiarazioni come quelle rilasciate da mons. Fiordelli a proposito dei Celestini di Prato in da­ta 6.12.1968: «Svolsi sempre, senza la pretesa di esercitare diritti che non avevo e pur non es­sendo al corrente di fatti gravi di cui si è oc­cupato il tribunale, insistenti interventi in via privata presso i responsabili dell'opera» (2).

Ma l'iniziativa della C.E.I. di costituire tali Commissioni e Consulte per l'assistenza socia­le lasciò perplessi quanti si attendevano anche una più ampia visione pastorale dei problemi dell'assistenza, che superasse da una parte l'im­postazione limitata quasi esclusivamente agli istituti, e d'altra parte la mentalità ancora trop­po giuridica di affrontare tali problemi. Infatti nel citato documento-regolamento l'azione caritati­vo-assistenziale è quasi completamente identifi­cata con gli istituti assistenziali, e per essi si ri­chiedono alle Commissioni degli interventi che in parte sono piuttosto compito dell'autorità ci­vile e in parte esulano da un'autentica pastora­le, come ad esempio i seguenti: «Verifica della efficienza e funzionalità [degli istituti] sotto il profilo educativo, sanitario e amministrativo (...) Indicare la posizione giuridica più idonea ai sin­goli istituti».

Quello che mancava era un documento pro­grammatico di vasto respiro pastorale, a cui pu­re accennava il regolamento con le parole: «Pro­mozione e programmazione dell'azione caritativa e assistenziale della Chiesa locale nell'ambito della programmazione pastorale generale». Co­me si deduce da questo brano, tale compito era affidato alle singole Diocesi (ed è quanto si è tentato nella Diocesi di Torino, come si vedrà).

Il più recente documento della C.E.I., invece, in data 15 luglio 1972, si pone su un indirizzo na­zionale, in maniera centralizzata; è frutto dichia­rato di «esperti» e non contributo delle Chiese locali. Esso, d'altra parte (pur sforzandoci di leg­gerlo nella maniera più comprensiva), riproduce le stesse lacune del precedente documento-re­golamento della C.E.I., con in più uno sforzo apo­logetico nei confronti delle istituzioni religiose.

Invero il documento dà l'impressione di una redazione a quattro-cinque mani, con apporti sva­riati di cui alcuni molto validi (cfr. soprattutto a pagg. 23 e 25 di questa stessa Rivista, dove è ri­prodotto interamente) , ed altri non concordanti coi primi.

Un tentativo di impostazione pastorale

Nella Diocesi di Torino si è fatto un notevole tentativo, come si è già accennato, di elaborare un documento di pastorale dell'assistenza da parte della Commissione nominata dal Vescovo, la quale fin nella sua denominazione stessa su­pera certi limiti giuridici e istituzionali già se­gnalati: essa si denomina Commissione per la pastorale dell'assistenza. Dopo una lunga rifles­sione sul documento di base della pastorale ge­nerale diocesana (il documento che è poi stato assunto ed elaborato dal Vescovo nella lettera Camminare insieme. Linee programmatiche per una pastorale della Chiesa torinese), la Commis­sione ha elaborato una bozza di «Documento programmatico sul ruolo della Chiesa locale in materia di assistenza». La bozza è stata inviata a tutti gli enti e le persone interessate per aver­ne critiche e suggerimenti; si è giunti ora a una seconda bozza non ancora definitiva né ufficiale.

Ma tutti vi potranno riconoscere il sincero sforzo di un'impostazione veramente pastorale, in linea con l'impostazione generale della pasto­rale della Diocesi. Rinviamo al precedente nu­mero di questa Rivista dove è pubblicata la se­conda bozza del documento, con a fianco uno dei commenti e dei contributi più significativi di una comunità religiosa (3).

Riportiamo qui solo i sottotitoli del documen­to che da soli testimoniano lo sforzo di inqua­dramento sociale e religioso dei problemi dell'assistenza:

I. Premessa: la situazione attuale (quadro di ri­ferimento) :

1. Sviluppo economico, povertà ed emargina­zione.

2. Prevalenza del potere economico sul potere politico.

3. Sistema assistenziale in funzione di scelte economiche.

4. Società dell'abbondanza e nuove forme di povertà.

5. Responsabilità della Chiesa torinese.

6. Nuova visione della riforma assistenziale.

7. Scelta fondamentale della Chiesa torinese.

II. Principi generali: come deve collocarsi la Chiesa torinese:

8. Chiesa: comunione e servizio.

9. Carità e opere assistenziali.

10. Comunità e impegno sociale.

11. Situazione passata e prospettive attuali.

12. Compito specifico della Chiesa oggi.

III. Orientamenti operativi nella situazione to­rinese:

13. Promuovere e denunciare in difesa dell'uomo.

14. Responsabilizzare la comunità civile.

15. Proporre esperienze nuove.

16. Animare le istituzioni assistenziali [civili].

17. Proporre il modello della comunità cristia­na alle istituzioni civili.

18. La linea comunitaria nelle nostre istitu­zioni.

19. Credere nei mezzi poveri.

Questo documento era noto agli «esperti» della C.E.I.? Possiamo affermare di sì per vari motivi. Anzitutto il documento della C.E.I. utiliz­za lo stesso brano sui «nuovi poveri» (di cui si parla ampiamente nell'Editoriale a pag. 6). In secondo luogo, mons. Nervo, uno dei presenta­tori del documento alla conferenza stampa, in una trasmissione radiofonica del 10 settembre 1972 «Mondo cattolico», illustrò la posizione dell'assistenza religiosa in termine estremamen­te simili ad alcuni brani del documento della commissione diocesana di Torino, e riconobbe esplicitamente alla società civile il dovere di intervenire nel campo assistenziale e alle istitu­zioni religiose di «spostarsi su nuove frontie­re», allo stesso modo che nel documento di To­rino si mette fra i compiti pastorali quello di responsabilizzare la comunità civile e di proporre esperienze nuove.

Nella stessa trasmissione radiofonica mons. Pangrazio fece pure alcune dichiarazioni sul si­gnificato pastorale dell'assistenza, le quali ci sembrano molto più limitatrici di quelle di mons. Nervo: negli istituti per minori la pastorale si identificherebbe nell'educazione e negli istituti per anziani nell'esercizio in genere della carità.

 

Un esempio di pastorale: responsabilizzare la società civile

Prima di esaminare alcuni punti particolari del recente documento della C.E.I., ci sembra im­portante premettere un esempio di pastorale, at­tuato dalla Commissione per la pastorale dell'assistenza della Diocesi torinese. Si tratta di un'azione, costata non pochi sacrifici personali, che da una parte ha responsabilizzato la comuni­tà civile ad assumere un'iniziativa assistenziale che in un primo tempo la Diocesi pensava di as­sumere in proprio (il controverso problema della supplenza!), e d'altra parte ha avuto anche il grande vantaggio di far avanzare le prospettive del ricupero degli handicappati verso le forme più moderne e più socializzanti possibili.

Da La Voce del Popolo del 5 marzo 1972 tra­scriviamo titoli e testo di un articolo al riguardo:

«Un'altra significativa vittoria contro situazio­ni emarginanti - Corsi professionali per handi­cappati (La Giunta sceglie la via più esatta). - L'iniziativa costituisce una scelta innovatrice e coraggiosa - Gli studenti colpiti da “handicap” psichico e fisico potranno frequentare le scuole normali pur ricevendo le prestazioni specialisti­che necessarie - Le posizioni della Commis­sione diocesana assistenza -

La Giunta comunale torinese ha approvato, il 10 febbraio scorso, l'istituzione di corsi di for­mazione professionale per handicappati psicofi­sici. I corsi saranno aperti presso Centri di ad­destramento normali: cioè per la prima volta non si aprirà un Centro per soli handicappati, ma funzioneranno corsi specializzati all'interno dei Centri normali esistenti. È doveroso sottolinea­re l'importante decisione della Giunta e com­prenderne il significato.

L'iniziativa del Comune di Torino è la prima in Italia che abbia una caratteristica antiemargi­nale e integrativa fra soggetti handicappati e non handicappati. Dal documento dell'apposita com­missione che ha preparato e suggerito al Comu­ne tale iniziativa d'avanguardia, riportiamo alcu­ni brani.

«Due sono essenzialmente le impostazioni che si possono avere in materia di handicappati:

a) tendere al loro reinserimento sociale, il che ammette una precedente emarginazione; coloro che sono per questa impostazione propugnano per gli handicappati psichici e fisici l'accesso ai servizi "doppione", cioè a scuole, ad ambulato­ri, ad altri servizi "speciali" e cioè non utilizza­bili dai cittadini non handicappati;

b) operare in concreto perché a tutti i livelli (sanità, scuola, lavoro, abitazione) i servizi sia­no predisposti in modo tale da poter essere uti­lizzati da tutti i cittadini (handicappati e non handicappati). Detti servizi devono essere strut­turati in modo che gli handicappati possano ivi ricevere le prestazioni specialistiche necessarie per ridurre e compensare gli handicaps.

Si deve riconoscere che oggi non vi sono le possibilità obiettive per creare corsi di forma­zione professionale frequentati da handicappati e da non handicappati, mentre “è possibile l'i­stituzione di corsi per handicappati psichici e di corsi per handicappati fisici nelle istituzioni fre­quentate da non handicappati”. Dovrebbero pe­rò essere avviate in un secondo tempo delle spe­rimentazioni per l'inserimento nei corsi normali di uno o due handicappati psichici o fisici (per corso)».

D'altra parte in Torino e provincia esistono or­mai delle esperienze incoraggianti di scuole ma­terne, elementari e medie, aperte sia agli handi­cappati sia ai non handicappati, per cui l'iniziati­va del Comune di Torino viene a completare un ciclo di formazione che, partendo dalla scuola materna, trova la sua conclusione nella prepara­zione professionale in vista del futuro inserimen­to socio-lavorativo.

Su questa stessa linea è un importante docu­mento internazionale «raccomandazione n. 99 concernente l'adattamento e il riadattamento professionale degli invalidi (psichici e fisici)», emanata dall'Ufficio Internazionale del Lavoro il 1° giugno 1955. In essa si postula la necessità di «integrare la preparazione degli invalidi con quella dei non invalidi e in loro compagnia».

Ma l'iniziativa del Comune di Torino ha pure un altro importante significato, che riguarda la pastorale dell'assistenza. La Commissione dio­cesana per la pastorale dell'assistenza il 6 no­vembre '70 promosse una riunione a cui furono invitati i rappresentanti degli Enti pubblici, di Associazioni e di Scuole interessate al proble­ma per discutere appunto «l'urgente necessità di programmare servizi di preparazione profes­sionale per gli handicappati psichici e fisici».

Fra i punti in discussione furono soprattutto i seguenti: competenze, responsabilità e impegni degli Enti pubblici territoriali (Regione, Provin­ce, Comuni) nell'attuazione di un programma di preparazione professionale per handicappati; eventuale spazio e opportunità di interventi di organismi privati, laici e religiosi.

Si trattava di chiarire le seguenti posizioni. La Chiesa, e più specificatamente la Chiesa torine­se, è di fatto coinvolta nelle istituzioni di assi­stenza. La Chiesa è in questo momento alla ri­cerca della sua giusta collocazione in questo settore e quindi alla ricerca dei modi con cui rea­lizzare un giusto rapporto con le istituzioni pub­bliche, rispettando sia le istanze che intorno ai modi della propria presenza emergono via via, sia i ritmi e quindi il tempo necessario per addi­venire ad una posizione soddisfacente.

Di fatto esisteva in quel momento un proble­ma, «i servizi di preparazione professionale per handicappati psichici», in merito al quale erano pervenute alla Commissione sollecitazioni sia per un appoggio ad un'azione «vicaria» da par­te della Diocesi, sia per l'iniziativa opposta di rifiuto di intervento da parte della Diocesi al fi­ne di impegnare più direttamente in questo sen­so le forze degli enti locali o comunque istitu­zionalmente competenti.

Dalla riunione del 6 novembre 1970 e da ulte­riori approfondimenti e interventi della Commis­sione e di singoli suoi componenti, ha preso av­vio una Commissione di studio presso l'Asses­sorato al Lavoro del Comune di Torino, ed ora siamo giunti all'importante decisione della Giun­ta comunale che istituisce i corsi professionali per handicappati nella forma più moderna desi­derabile.

La Commissione diocesana per la pastorale dell'assistenza ha intanto maturato una bozza di un notevole documento che, fra l'altro, pone fra gli orientamenti operativi «la responsabilizzazio­ne della comunità civile»: stimolare la comuni­tà civile ad assumersi le funzioni e attività che le sono proprie, preparando il passaggio in spiri­to di collaborazione, senza speculazioni e rim­pianti. Tale politica assume particolare rilievo in questo momento in cui la competenza nel setto­re assistenziale viene trasferito dallo Stato alle Regioni».

 

Due iniziative di deistituzionalizzazione

Vogliamo qui ricordare inoltre due iniziative di deistituzionalizzazione, condotte a termine da parte di istituzioni religiose: iniziative che si pongono su un'analoga linea dell'iniziativa tori­nese di responsabilizzazione della comunità ci­vile e di deciso avanzamento («profetico») del­le forme assistenziali.

1 - Riportiamo da «Prospettive sanitarie e so­ciali» 1972, n. 1/2. pp. 20-21:

L'Amministrazione dei Pii Istituti Educativi ha gestito, fino alla data del 30-IX-1970, il Collegio del Baraccano in Bologna. Tale Collegio ospita­va circa 92 minori di sesso femminile, dagli ot­to anni ai diciotto, ed era retto da un gruppo di Suore (dell'Ordine delle Minime dell'Addolora­ta) le quali non erano direttamente dipendenti dell'Ente, ma erano legate ad esso da una Con­venzione. Il 30-IX-1970 appunto il Personale reli­gioso lasciò il Collegio, e l'Amministrazione, te­nendo conto sia delle esigenze dell'organizzazio­ne assistenziale, sia delle proprie condizioni eco­nomiche, pose in atto questo programma:

a) costituzione di n. 4 «gruppi famiglia». Ta­li gruppi, o «focolari» erano alloggiati in appar­tamenti presi in affitto in vari punti della città. Vi erano ospitate per ciascuno un numero medio di otto bambine o ragazze raggruppate secondo criteri che tenevano conto dell'età, del tipo di studi frequentati (tutte le minori studiavano), del luogo di provenienza, delle amicizie, ecc. Le alunne erano seguite da 4 persone, di cui una (laureata in pedagogia, o diplomata Assistente Sociale) con funzioni di Responsabile dell'appar­tamento e con la direzione dello stesso (ed ap­positamente retribuita) , una con funzioni di col­laboratrice domestica (appositamente retribuita), e due (studentesse della Scuola di Servizio sociale o studentesse universitarie) con funzio­ni di «ragazze alla pari» (retribuite cioè soltan­to col vitto e con l'alloggio; esse dovevano ser­vire da modelli di comportamento, e coadiuvare la responsabile dell'appartamento nelle funzioni educative). L'Ente in un primo tempo (per quat­tro mesi circa) pagò direttamente ai fornitori le provviste e comunque le spese riguardanti gli appartamenti; in un secondo tempo (per la re­stante parte dell'anno, cioè dal febbraio al lu­glio 1971), esso passò alle Responsabili degli appartamenti una retta giornaliera per allieva comprensiva delle spese di carattere ordinario (meno naturalmente l'affitto, il mobilio, gli sti­pendi al personale ecc.). I Pii Istituti Educativi procurarono inoltre alle ragazze ospiti degli ap­partamenti un'ampia partecipazione ad attività sportive, culturali, ricreative, ecc. L'Ente seguì l'attività dei «gruppi famiglia», lasciando tutta­via la più ampia libertà pedagogica alle Respon­sabili degli appartamenti, la cui attività era coor­dinata da una apposita Coordinatrice, la quale seguiva anche le altre attività assistenziali dell'Ente. La conduzione pedagogica degli «appar­tamenti» fu ispirata a criteri alquanto avanzati, nel quadro della «destituzionalizzazione» dei mi­nori, e si deve comunque tenere in considerazio­ne che le ragazze ospitate erano vissute in pre­cedenza nel Collegio del Baraccano, onde il pro­cesso di deistituzionalizzazione delle stesse ri­sentì indubbiamente di tale immediato mutamen­to dei sistemi educativi.

b) rientro in famiglia di circa 21 alunne, per le quali l'operazione stessa (accompagnata da un sussidio mensile alle famiglie) fu ritenuta pos­sibile e matura. Le ragazze venivano seguite in famiglia nella loro formazione dalla Coordinatri­ce Assistenziale dell'Ente.

c) sistemazione in un semiconvitto cittadino (cioè in una scuola che, dopo le lezioni, tratte­neva le ragazze a pranzo e dopo-scuola pomeri­diano e ricreazione) a pagamento da parte dell'Ente di altre 3 minori, le quali venivano pure seguite dalla Coordinatrice.

Con il settembre 1971, l'Ente ha ulteriormente modificato la propria attività assistenziale nel quadro e sulla via della «deistituzionalizzazione» dei minori: si è ritenuta matura la situazione per riaffidare le ragazze alle loro famiglie d'origine. Ciò è stato possibile in tutti i casi, meno uno (per il quale gli Istituti Educativi stanno provve­dendo a mantenere direttamente una bambina seguita da una Assistente Sociale, in attesa di una soluzione possibilmente familiare, o comun­que più «sociale» per la minore stessa). Per­tanto quasi tutte le ragazze assistite dall'Ente sono oggi, mantenute in famiglia, con un sussi­dio mensile da parte dei Pii Istituti e con l'aiuto di un apposito Servizio Sociale, che visita costan­temente le minori. Riteniamo che quest'opera­zione sia estremamente positiva, in quanto, do­ve una famiglia c'è e dove essa è appena idonea. la famiglia stessa rappresenta sempre un mo­mento educativo migliore non solo di qualunque collegio, ma anche di qualunque altra forma esterna (gruppi famiglia, focolari, ecc.). Certo, dove la famiglia non c'è o è insufficiente, è ne­cessario studiare altre forme esterne di mante­nimento, fra le quali quella dei «gruppi fami­glia» appare in questo momento la migliore, pur con tutti gli accorgimenti dovuti. La principale difficoltà in proposito consiste nel reperimento di personale idoneo non solo dal punto di vista scientifico, ma anche da quello pratico.

Per quanto riguarda i costi si noti che:

a) il testatico del mantenimento pro-capite giornaliero di una alunna nel collegio del Barac­cano era di lire 1700 (cui al giorno d'oggi, per l'incremento di spese del personale per il Rias­setto delle retribuzioni e delle carriere e del co­sto della vita, deve aggiungersi un 35%), per­tanto giungendosi ad un testatico di lire 2295 giornaliere;

b) il testatico di mantenimento pro-capite giornaliero di una minore in un «gruppo fami­glia» è risultato di lire 4500, comprensive di vitto, fitto locali, spese di personale educativo e varie (depurato dalle spese del personale ammi­nistrativo che possono valutarsi in circa lire 500 pro-capite); così si ha un testatico giornaliero complessivo pro-capite di lire 5000;

c) il testatico di mantenimento pro-capite gior­naliero di una minore in famiglia, è preventivato in lire 1857 (comprensive anche del Servizio So­ciale e sulla base di un sussidio mensile di lire 45000 circa). Pertanto, ove possibile, l'assisten­za domiciliare è anche la più conveniente.

2 - Il secondo esempio di deistituzionalizzazio­ne è quello compiuto con un gruppo di ragazzi subnormali ospiti dell'Istituto Medico Psicopeda­gogico don Guanella con deficit intellettivi me­dio-gravi. L'esperienza guidata dal dott. Carlo Brutti del Centro d'Igiene Mentale di Perugia è molto significativa (4). Anzitutto egli aveva ten­tato un'altra esperienza: «la messa in crisi dell'istituzione dall'interno, promuovendo in un isti­tuto della città - di circa 40 ragazze e 10 adul­ti-educatori - una forma di gestione partecipata di educatori ed educandi». L'esperienza purtrop­po fallita «che ribadisce pertanto l'impenetrabi­lità della struttura», ha fatto «scaturire indica­zioni per altre scelte e altre sperimentazioni ra­dicalmente deistituzionalizzanti. A questo pro­posito - sempre riguardo al nostro scontro con gli istituti - noi abbiamo potuto verificare che una operazione di deistituzionalizzazione radica­le è possibile, ma a certe condizioni. A condizio­ne cioè di non farne un episodio isolato di rottu­ra di certe tradizioni assistenziali, che ormai è noto quanto siano deleterie, ma di farne lo spun­to per una alternativa completa, coinvolgente al­tri parametri sociali che fino ad oggi hanno agi­to - perfino in buona fede - sulla linea delle dinamiche di emarginazione e di esclusione che operano negli individui singoli e nei gruppi».

I momenti significativi di questo processo che ha significato il ritorno dei ragazzi alle famiglie e l'inserimento in classi normali con particolare assistenza, si possono leggere nella relazione del Dr. Brutti già citata (4).

 

Appunti sul documento della C.E.I.

Venendo ora dopo questa ampia premessa (che ci è sembrata necessaria, anche nella parte dedicata alla deistituzionalizzazione) al docu­mento della C.E.I., ci sembrano rilevanti i se­guenti interrogativi sotto l'aspetto pastorale.

Si è già accennato allo sforzo apologetico con­tenuto nel documento a favore delle istituzioni religiose. Ma non si va troppo oltre, quando, de­nunciando alcune manovre laiciste, si giunge ad accomunare avversari reali e critici leali, defor­mando forse le intenzioni di coloro che sono sin­ceramente preoccupati del nostro sistema assi­stenziale attuale, così gravemente ingiusto ed emarginante?

Un aspetto che nel documento si sarebbe vo­luto più incisivo: la denuncia delle responsabi­lità del patere politico, senza tralasciare il po­tere economico. Compito pastorale è, infatti, non solo quello di cogliere i «segni dei tempi», va­lorizzando i contributi positivi da qualunque ma­trice culturale provengano, ma è anche quello di responsabilizzare la comunità civile.

La «dedizione», i «gravi sacrifici», il «gene­roso impegno» di «migliaia di persone animate dalla carità cristiana», vanno giustamente valo­rizzati. Il documento della C.E.I. a questo propo­sito giunge anche a questa affermazione: «Per certi tipi di bisogni, di fronte ai quali anche le migliori leggi e le più perfette strutture sono quasi impotenti (si pensi ai ricoverati al «Cot­tolengo»), oseremmo dire che solo la carità può garantire il servizio umanamente più adeguato: solo chi riesce a vedere nell'uomo sofferente l'immagine di Cristo può compiere amorevolmen­te quei gesti di eroismo richiesti per la cura di certe sconcertanti infermità».

Ora agli svariati interrogativi che sorgono di fronte a queste affermazioni (ad esempio, per­ché questa svalutazione delle possibilità legisla­tive ed organizzative della comunità civile), per­ché si vogliono ignorare certe realizzazioni civili già in atto?, vogliamo rispondere con quattro or­dini di considerazioni.

È ormai acquisito che ad aggravare i soggetti handicappati e l'ambiente stesso di ricovero e di cura contribuiscono due fattori: la «concentra­zione» dei soggetti in pochi istituti (si è anche parlato di «deportazione assistenziale», a pro­posito dello sradicamento dal proprio ambiente di migliaia e migliaia di persone) e l'istituziona­lizzazione precoce e prolungata. Nessuno può nascondersi una realtà: lo stesso personale reli­gioso in alcune situazioni è sottoposto a gravis­simi sacrifici, dovuti alla gravità dei soggetti, al numero degli stessi, agli orari: tutte condizioni che sarebbe doveroso (doveri umani e anche sindacali) migliorare per la stessa salute fisica e psichica del personale.

2 - La passività di fronte alla grave responsa­bilità della comunità civile deve essere supera­ta negli ambienti religiosi per i quali è certa­mente anche forma di eroismo talora la denun­cia coraggiosa e continuata, per non diventare la facile coscienza che scarica le responsabilità altrui. Ma d'altra parte è anche grave compito di evangelizzazione denunciare i pregiudizi razzisti della società del benessere, perché accetti i suoi membri meno fortunati a parità di diritti e li in­serisca nel tessuto sociale.

3 - Ma vi è un aspetto più profondo, estrema­mente doloroso, della situazione che spesso sfug­ge anche ai più avveduti. Si legga con attenzione e con comprensione, al di là di certe affermazio­ni, l'articolo di G. Selleri in queste stesse pagi­ne: come presidente dell'Associazione naziona­le fra invalidi per esiti di poliomielite (A.N.I.E.P.) e gravemente impedito egli stesso, ci porta a ri­flettere sulla «risonanza psicologica» che certe forme di assistenza producono nell'assistito. Per la persona in stato di bisogno possono verificar­si sentimenti di profonda sofferenza nel sentirsi oggetto compatito o anche «amato», nel perce­pire di essere per l'altro occasione di beneficen­za o anche di ascesi personale. Esiste un reale pericolo che la «carità» sia vissuta da certi re­ligiosi (anche per una giustificata difesa psico­logica da persone e da situazioni gravemente frustranti) soprattutto come «ascesi persona­le» e «mistica individuale», più che come rea­listica forma di servizio e di rapporto interper­sonale.

4 - Qui si vorrebbe avanzare una considerazio­ne analoga circa l'impegno dei cristiani e dei non cristiani che lavorano con sacrifici e con dedizione a volte non inferiori in istituzioni non religiose. A questo proposito il documento della C.E.I. procede, nel suo intento apologetico, a contrapposizioni nette, che lasciano perplessi, fra spirito religioso e l'atteggiamento che viene persino definito «burocratico» dell'assistenza «laica». Fra le possibili citazioni riportiamo le seguenti:

«Nel campo specifico dell'assistenza si deve ricordare (come già si è accennato) che non è in gioco soltanto un problema di tecniche e di strutture, ma anche e soprattutto di rapporti uma­ni; e quando si tratta di rapporti interpersonali il volontariato e l'ispirazione religiosa sono ele­menti di fondamentale importanza (...) Nelle re­lazioni fra società ed assistito, la carità suscita un ‘modo’ di agire, che, superando il freddo ed anonimo atteggiamento burocratico, instaura un autentico rapporto umano, in cui emerge il ri­spetto della persona e l'autentica partecipazio­ne ai suoi problemi».

Al di là delle intenzioni degli estensori, queste contrapposizioni suonano per chi è impegnato nelle istituzioni assistenziali laiche come un in­giustificato misconoscimento della propria testi­monianza cristiana o anche solo umana. Si pen­si, fra l'altro (in alternativa agli istituti), alle sempre più numerose famiglie cristiane e non cristiane che si aprono, con generosità e dedi­zione non comuni, alle adozioni e agli affidamen­ti di bambini anche difficili e handicappati.

Personalmente, lavorando da anni per profes­sione e per volontariato nel campo assistenzia­le, non posso accettare tali contrapposizioni e tanto meno la definizione di «freddo ed anoni­mo atteggiamento burocratico» attribuito all'as­sistenza pubblica.

Un punto essenziale e importante ci sembra quello in cui il documento della C.E.I., con spiri­to più concreto e realistico, fissa in tre esigenze la preparazione del personale: «Una moderna as­sistenza (...) richiede, 1) oltre alla insostituibi­le animazione interiore, 2) un'adeguata prepara­zione culturale e tecnica, 3) nonché una specifi­ca attitudine ad un'azione assistenziale 'aperta' e 'liberatrice' dal bisogno».

Su queste tre esigenze devono misurarsi tutti gli operatori sociali sia nelle istituzioni religiose sia nelle istituzioni civili.

 

 

 

 

(1) Cfr. Prospettive assistenziali, 1970, n. 11-12, pp. 17-22.

(2) Il corsivo è nostro. Cfr. Padre G. PERICO, I Celestini di Prato. Fatti e riflessioni, in «Aggiornamenti sociali», 1969, n. 1.

(3) Cfr. Prospettive assistenziali, 1972, n. 18, pp. 22-31.

(4) Cfr. C. BRUTTI, Esperienze sull'assistenza nell'età evolutiva nella Provincia di Perugia, in «Convegno provinciale sull'infanzia, Pistoia, 14-15-16 maggio 1971 - Atti», Comune di Pistoia, pp. 71 segg.

 

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