Prospettive
assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972
DOCUMENTI
ALCUNI
INTERROGATIVI PASTORALI SUL RECENTE DOCUMENTO DELLA C.E.I. RIGUARDANTE
L'ASSISTENZA SOCIALE
PIERO
ROLLERO
Il recente documento
della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.) sui problemi dell'assistenza (Osservatore Romano del 15 luglio 1972) ha suscitato
reazioni e perplessità di varia natura, a cui si accenna in altri articoli di
questo stesso numero della Rivista. Qui vogliamo accennare ad alcuni
interrogativi di ordine pastorale che sorgono alla
lettura del documento.
«Né
pregiudizio laicista né miope mentalità apologetica»
Nel settimanale della
Diocesi di Torino,
Nel numero seguente de
«L'approccio al problema mi pare non debba essere fatto col pregiudizio laicistico per il quale la disfunzione dell'assistenza
dipende totalmente dalla mentalità religiosa che, per se stessa, genererebbe
solo atteggiamenti paternalistici e sarebbe incapace di rispettare la libera
maturazione delle persone. Ma il tema
non deve essere affrontato nemmeno con miope mentalità apologetica cioè di difesa a oltranza delle istituzioni comunque siano e
comunque funzionino.
Qui sono in gioco
persone e persone in stato di bisogno e non attrezzature sportive e opere
murarie, per cui l'attenzione deve essere sempre
vigile nel cogliere ogni suggerimento utile a migliorare il servizio, lo studio
aggiornato e la fantasia desta ad ideare nuove forme maggiormente rispondenti
alla dignità dell'uomo, che, grazie alla sensibilità moderna e anche alla sottolineatura
conciliare, sta sempre più imponendosi come centro d'interesse e vertice dei
valori storici.
L'impegno non è doveroso
solo per gli “addetti ai lavori” ma per tutta la comunità cristiana e civile
che deve farsi carico di trovare soluzioni allo stato di disagio, di emarginazione, di mancato possibile recupero di tanti suoi
membri che conservano integro il diritto di essere effettivamente, e non solo
a parole, riconosciuti nella loro dignità.
All'interno delle stesse
istituzioni, molte delle quali, a dir il vero, lodevolmente avviate sulla
strada del rinnovamento e dell'aggiornamento, dovrebbe essere colto con
simpatia e segno di solidarietà ogni contributo di ricerca, di
opinione e statistico, anche se a volte espresso con qualche punta
critica (...) .
I meriti di tanti
religiosi e suore in campo assistenziale sono fuori discussione, costituiscono una delle più belle pagine della storia del Cristianesimo.
Ma non possiamo crogiolarci narcisisticamente
nei meriti acquisiti. Tanto più che proprio lo spirito - non raramente
contestatore per i loro tempi - dei grandi fondatori costituisce un pungolo ad
un aggiornamento continuo che insegue le novità, e possibilmente le anticipa,
per dare una risposta alle esigenze di chi è in stato di bisogno.
L'interessamento della
comunità cristiana che sappia superare il pettegolezzo
per diventare compartecipazione, magari critica dove fosse necessario, è
auspicabile anche agli effetti di una maggior efficacia di eventuali
impostazioni nuove auspicate dagli stessi responsabili. Sarebbe, in fondo, un
aspetto di quell'interazione che si è felicemente avviata da qualche tempo, tra
pastorale generale e ordini religiosi».
Ma le perplessità
maggiori nascono soprattutto dalla mancata impostazione « pastorale » che si
riscontra sia in questo documento sia in altri
precedenti sullo stesso tema.
L'autorità
del Vescovo sulle opere caritativo-assistenziali
Per chiarire questo aspetto occorre fare un passo indietro. Tra la fine
del 1969 e l'inizio del 1970 la presidenza della
C.E.I. predispose con un suo documento-regolamento l'istituzione di una «Commissione»
e di una «Consulta» permanenti per l'assistenza sociale, a livello nazionale, regionale e diocesano (1).
L'iniziativa fu accolta
con soddisfazione da quanti auspicavano da tempo che i Vescovi potessero esercitare la funzione pastorale sulle opere
caritative e assistenziali, comunque operanti nella Diocesi in nome della
Chiesa. Nel documento-regolamento, infatti, così si
legge: «La Commissione ha il compito di svolgere azione di promozione
qualificata nel settore dell'assistenza e di raccordo
fra le istituzioni assistenziali, in
qualunque modo dipendenti dall'autorità ecclesiastica». E nella lettera accompagnatoria a firma del Segretario di Stato
Card. G. Villot si precisa: «Sarà pertanto
cura della C.E.I. di preparare un concreto piano di azione,
atto a costituire commissioni di studio ed organi esecutivi di coordinamento e
di vigilanza su tutto l'apparato assistenziale cattolico in Italia; e sarà,
d'altra parte, doveroso impegno di ogni
Istituzione - comprese quelle dirette da Religiosi esenti (Motu
Proprio Ecclesiae Sanctae,
art. 25 e segg.) - di uniformarsi agli accertamenti e agli indirizzi predisposti
in maniera congrua e stabile». [Il
corsivo è nostro].
In questa chiara
affermazione di riconosciuta autorità del Vescovo su tutte le opere «dipendenti
sotto qualsiasi aspetto dall'autorità ecclesiastica», non dovrebbero più
verificarsi delle dichiarazioni come quelle rilasciate da mons. Fiordelli a proposito dei Celestini di Prato in data 6.12.1968: «Svolsi
sempre, senza la pretesa di esercitare
diritti che non avevo e pur non essendo al corrente di fatti gravi di cui
si è occupato il tribunale, insistenti interventi in via privata presso i responsabili dell'opera» (2).
Ma l'iniziativa della
C.E.I. di costituire tali Commissioni e Consulte per l'assistenza sociale
lasciò perplessi quanti si attendevano anche una più ampia visione pastorale
dei problemi dell'assistenza, che superasse da una parte l'impostazione
limitata quasi esclusivamente agli istituti,
e d'altra parte la mentalità ancora troppo giuridica
di affrontare tali problemi. Infatti nel citato
documento-regolamento l'azione caritativo-assistenziale
è quasi completamente identificata con gli istituti assistenziali, e per essi
si richiedono alle Commissioni degli interventi che in parte sono piuttosto
compito dell'autorità civile e in parte esulano da un'autentica pastorale,
come ad esempio i seguenti: «Verifica della efficienza
e funzionalità [degli istituti] sotto il profilo educativo, sanitario e
amministrativo (...) Indicare la posizione giuridica più idonea ai singoli
istituti».
Quello che mancava era
un documento programmatico di vasto respiro pastorale, a cui pure accennava il
regolamento con le parole: «Promozione e programmazione dell'azione caritativa
e assistenziale della Chiesa locale nell'ambito della
programmazione pastorale generale». Come si deduce da questo
brano, tale compito era affidato alle singole Diocesi (ed è quanto si è
tentato nella Diocesi di Torino, come si vedrà).
Il più recente documento
della C.E.I., invece, in
data 15 luglio 1972, si pone su un indirizzo nazionale, in maniera centralizzata;
è frutto dichiarato di «esperti» e non contributo delle Chiese locali. Esso,
d'altra parte (pur sforzandoci di leggerlo nella maniera più comprensiva),
riproduce le stesse lacune del precedente documento-regolamento della C.E.I., con in più uno sforzo apologetico
nei confronti delle istituzioni religiose.
Invero il documento dà l'impressione di
una redazione a quattro-cinque mani, con apporti svariati
di cui alcuni molto validi (cfr. soprattutto
a pagg. 23 e 25 di questa stessa Rivista, dove è riprodotto interamente) , ed
altri non concordanti coi primi.
Un tentativo di impostazione
pastorale
Nella Diocesi di Torino
si è fatto un notevole tentativo, come si è già accennato, di elaborare un
documento di pastorale dell'assistenza da parte della
Commissione nominata dal Vescovo, la quale fin nella sua denominazione stessa
supera certi limiti giuridici e istituzionali già segnalati: essa si denomina
Commissione per la pastorale
dell'assistenza. Dopo una lunga riflessione sul documento di base della
pastorale generale diocesana (il documento che è poi stato assunto ed
elaborato dal Vescovo nella lettera Camminare
insieme. Linee programmatiche per una pastorale della Chiesa torinese),
Ma tutti vi potranno
riconoscere il sincero sforzo di un'impostazione veramente pastorale, in linea
con l'impostazione generale della pastorale della
Diocesi. Rinviamo al precedente numero di questa Rivista dove è pubblicata la
seconda bozza del documento, con a fianco uno dei
commenti e dei contributi più significativi di una comunità religiosa (3).
Riportiamo qui solo i
sottotitoli del documento che da soli testimoniano lo sforzo di inquadramento sociale e religioso dei problemi dell'assistenza:
I. Premessa: la situazione attuale (quadro di riferimento) :
1. Sviluppo economico, povertà ed emarginazione.
2. Prevalenza del potere
economico sul potere politico.
3. Sistema assistenziale in funzione di scelte economiche.
4. Società
dell'abbondanza e nuove forme di povertà.
5. Responsabilità della
Chiesa torinese.
6. Nuova visione della
riforma assistenziale.
7. Scelta fondamentale
della Chiesa torinese.
II. Principi generali: come deve collocarsi
8. Chiesa: comunione e
servizio.
9. Carità e opere assistenziali.
10. Comunità e impegno
sociale.
11. Situazione passata e
prospettive attuali.
12. Compito specifico
della Chiesa oggi.
III. Orientamenti operativi nella situazione torinese:
13. Promuovere e
denunciare in difesa dell'uomo.
14. Responsabilizzare
la comunità civile.
15. Proporre esperienze
nuove.
16. Animare le
istituzioni assistenziali [civili].
17. Proporre il modello
della comunità cristiana alle istituzioni civili.
18. La
linea comunitaria nelle nostre istituzioni.
19. Credere nei mezzi
poveri.
Questo documento era
noto agli «esperti» della C.E.I.? Possiamo affermare
di sì per vari motivi. Anzitutto il documento della C.E.I. utilizza lo stesso
brano sui «nuovi poveri» (di cui si parla ampiamente nell'Editoriale a pag. 6). In secondo luogo, mons. Nervo, uno dei presentatori del documento alla conferenza stampa, in una
trasmissione radiofonica del 10 settembre 1972 «Mondo cattolico», illustrò la
posizione dell'assistenza religiosa in termine estremamente simili ad alcuni
brani del documento della commissione diocesana di Torino, e riconobbe
esplicitamente alla società civile il dovere di intervenire nel campo assistenziale e alle istituzioni religiose di «spostarsi su
nuove frontiere», allo stesso modo che nel documento di Torino si mette fra i
compiti pastorali quello di responsabilizzare la comunità civile e di proporre
esperienze nuove.
Nella stessa
trasmissione radiofonica mons. Pangrazio fece pure
alcune dichiarazioni sul significato pastorale dell'assistenza, le quali ci sembrano molto più limitatrici di
quelle di mons. Nervo: negli istituti per minori la pastorale si
identificherebbe nell'educazione e negli istituti per anziani nell'esercizio in
genere della carità.
Un
esempio di pastorale: responsabilizzare la società
civile
Prima di esaminare
alcuni punti particolari del recente documento della C.E.I., ci sembra importante premettere un esempio di pastorale,
attuato dalla Commissione per la pastorale dell'assistenza della Diocesi
torinese. Si tratta di un'azione, costata non pochi sacrifici personali, che da
una parte ha responsabilizzato la comunità civile ad
assumere un'iniziativa assistenziale che in un primo tempo
Da
«Un'altra significativa vittoria
contro situazioni emarginanti - Corsi professionali per handicappati (
L'iniziativa del Comune
di Torino è la prima in Italia che abbia una caratteristica
antiemarginale e integrativa fra soggetti
handicappati e non handicappati. Dal documento dell'apposita
commissione che ha preparato e suggerito al Comune tale iniziativa
d'avanguardia, riportiamo alcuni brani.
«Due sono essenzialmente
le impostazioni che si possono avere in materia di handicappati:
a)
tendere al loro reinserimento sociale, il che ammette una precedente
emarginazione; coloro che sono per questa impostazione
propugnano per gli handicappati psichici e fisici l'accesso ai servizi
"doppione", cioè a scuole, ad ambulatori, ad altri servizi
"speciali" e cioè non utilizzabili dai cittadini non handicappati;
b)
operare in concreto perché a tutti i livelli (sanità, scuola, lavoro,
abitazione) i servizi siano predisposti in modo tale
da poter essere utilizzati da tutti i cittadini (handicappati e non
handicappati). Detti servizi devono essere strutturati in modo che gli
handicappati possano ivi ricevere le prestazioni specialistiche necessarie per
ridurre e compensare gli handicaps.
Si deve riconoscere che
oggi non vi sono le possibilità obiettive per creare corsi di formazione
professionale frequentati da handicappati e da non handicappati,
mentre “è possibile l'istituzione di corsi per handicappati psichici e di
corsi per handicappati fisici nelle istituzioni frequentate da non
handicappati”. Dovrebbero però essere avviate in un secondo tempo delle sperimentazioni
per l'inserimento nei corsi normali di uno o due
handicappati psichici o fisici (per corso)».
D'altra parte in Torino
e provincia esistono ormai delle esperienze
incoraggianti di scuole materne, elementari e medie, aperte sia agli handicappati
sia ai non handicappati, per cui l'iniziativa del Comune di Torino viene a
completare un ciclo di formazione che, partendo dalla scuola materna, trova la
sua conclusione nella preparazione professionale in vista del futuro inserimento
socio-lavorativo.
Su questa stessa linea è
un importante documento internazionale «raccomandazione n. 99
concernente l'adattamento e il riadattamento professionale degli
invalidi (psichici e fisici)», emanata dall'Ufficio Internazionale del Lavoro
il 1° giugno
Ma l'iniziativa del Comune di Torino
ha pure un altro importante significato, che riguarda la pastorale
dell'assistenza. La Commissione diocesana per la pastorale dell'assistenza il
6 novembre '70 promosse una riunione a cui furono
invitati i rappresentanti degli Enti pubblici, di Associazioni e di Scuole
interessate al problema per discutere appunto «l'urgente necessità di
programmare servizi di preparazione professionale per gli handicappati
psichici e fisici».
Fra i punti in
discussione furono soprattutto i seguenti: competenze, responsabilità e impegni
degli Enti pubblici territoriali (Regione, Province, Comuni) nell'attuazione
di un programma di preparazione professionale per handicappati; eventuale
spazio e opportunità di interventi di organismi privati,
laici e religiosi.
Si trattava di chiarire
le seguenti posizioni.
Di fatto esisteva in
quel momento un problema, «i servizi di preparazione
professionale per handicappati psichici», in merito al quale erano pervenute
alla Commissione sollecitazioni sia per un appoggio ad un'azione «vicaria» da
parte della Diocesi, sia per l'iniziativa opposta di rifiuto di intervento da
parte della Diocesi al fine di impegnare più direttamente in questo senso le
forze degli enti locali o comunque istituzionalmente competenti.
Dalla riunione del 6
novembre 1970 e da ulteriori approfondimenti e
interventi della Commissione e di singoli suoi componenti, ha preso avvio una
Commissione di studio presso l'Assessorato al Lavoro del Comune di Torino, ed
ora siamo giunti all'importante decisione della Giunta comunale che istituisce
i corsi professionali per handicappati nella forma più moderna desiderabile.
La Commissione diocesana
per la pastorale dell'assistenza ha intanto maturato una bozza di un notevole
documento che, fra l'altro, pone fra gli orientamenti operativi «la
responsabilizzazione della comunità civile»:
stimolare la comunità civile ad assumersi le funzioni e attività che le sono
proprie, preparando il passaggio in spirito di collaborazione, senza
speculazioni e rimpianti. Tale politica assume particolare rilievo in questo
momento in cui la competenza nel settore assistenziale
viene trasferito dallo Stato alle Regioni».
Due
iniziative di deistituzionalizzazione
Vogliamo qui ricordare
inoltre due iniziative di deistituzionalizzazione,
condotte a termine da parte di istituzioni religiose:
iniziative che si pongono su un'analoga linea dell'iniziativa torinese di
responsabilizzazione della comunità civile e di deciso avanzamento
(«profetico») delle forme assistenziali.
1 - Riportiamo da
«Prospettive sanitarie e sociali» 1972, n. 1/2. pp. 20-21:
L'Amministrazione dei
Pii Istituti Educativi ha gestito, fino alla data del 30-IX-1970,
il Collegio del Baraccano in Bologna. Tale Collegio
ospitava circa 92 minori di sesso femminile, dagli otto anni ai diciotto, ed
era retto da un gruppo di Suore (dell'Ordine delle Minime dell'Addolorata) le
quali non erano direttamente dipendenti dell'Ente, ma erano legate ad esso da una Convenzione. Il 30-IX-1970 appunto il Personale
religioso lasciò il Collegio, e l'Amministrazione, tenendo conto sia delle
esigenze dell'organizzazione assistenziale, sia delle
proprie condizioni economiche, pose in atto questo programma:
a) costituzione di n. 4
«gruppi famiglia». Tali gruppi, o «focolari» erano alloggiati
in appartamenti presi in affitto in vari punti della città. Vi erano ospitate
per ciascuno un numero medio di otto bambine o ragazze
raggruppate secondo criteri che tenevano conto dell'età, del tipo di studi
frequentati (tutte le minori studiavano), del luogo di provenienza, delle
amicizie, ecc. Le alunne erano seguite da 4 persone, di cui una (laureata in
pedagogia, o diplomata Assistente Sociale) con funzioni di Responsabile
dell'appartamento e con la direzione dello stesso (ed appositamente retribuita)
, una con funzioni di collaboratrice domestica (appositamente retribuita), e
due (studentesse della Scuola di Servizio sociale o studentesse universitarie)
con funzioni di «ragazze alla pari» (retribuite cioè soltanto col vitto e con
l'alloggio; esse dovevano servire da modelli di comportamento, e coadiuvare la
responsabile dell'appartamento nelle funzioni educative). L'Ente in un primo
tempo (per quattro mesi circa) pagò direttamente ai fornitori le provviste e comunque le spese riguardanti gli appartamenti; in un
secondo tempo (per la restante parte dell'anno, cioè dal febbraio al luglio
1971), esso passò alle Responsabili degli appartamenti una retta giornaliera
per allieva comprensiva delle spese di carattere ordinario (meno naturalmente
l'affitto, il mobilio, gli stipendi al personale ecc.). I Pii Istituti
Educativi procurarono inoltre alle ragazze ospiti degli appartamenti un'ampia
partecipazione ad attività sportive, culturali, ricreative, ecc. L'Ente seguì
l'attività dei «gruppi famiglia», lasciando tuttavia la più ampia libertà
pedagogica alle Responsabili degli appartamenti, la cui attività era coordinata
da una apposita Coordinatrice, la quale seguiva anche
le altre attività assistenziali dell'Ente. La conduzione pedagogica degli
«appartamenti» fu ispirata a criteri alquanto avanzati, nel
quadro della «destituzionalizzazione» dei minori,
e si deve comunque tenere in considerazione che le ragazze ospitate erano
vissute in precedenza nel Collegio del Baraccano,
onde il processo di deistituzionalizzazione delle
stesse risentì indubbiamente di tale immediato mutamento dei sistemi
educativi.
b) rientro in famiglia
di circa 21 alunne, per le quali l'operazione stessa (accompagnata da un
sussidio mensile alle famiglie) fu ritenuta possibile e matura. Le ragazze venivano seguite in famiglia nella loro formazione dalla
Coordinatrice Assistenziale dell'Ente.
c) sistemazione in un
semiconvitto cittadino (cioè in una scuola che, dopo
le lezioni, tratteneva le ragazze a pranzo e dopo-scuola pomeridiano e
ricreazione) a pagamento da parte dell'Ente di altre 3 minori, le quali
venivano pure seguite dalla Coordinatrice.
Con il settembre
Per quanto riguarda i
costi si noti che:
a) il testatico del
mantenimento pro-capite giornaliero di una alunna nel
collegio del Baraccano era di lire 1700 (cui al
giorno d'oggi, per l'incremento di spese del personale per il Riassetto delle
retribuzioni e delle carriere e del costo della vita, deve aggiungersi un
35%), pertanto giungendosi ad un testatico di lire 2295 giornaliere;
b) il testatico di
mantenimento pro-capite giornaliero di una minore in un «gruppo famiglia» è risultato di lire 4500, comprensive di vitto, fitto locali,
spese di personale educativo e varie (depurato dalle spese del personale amministrativo
che possono valutarsi in circa lire 500 pro-capite); così si ha un testatico
giornaliero complessivo pro-capite di lire 5000;
c) il testatico di
mantenimento pro-capite giornaliero di una minore in famiglia, è preventivato
in lire 1857 (comprensive anche del Servizio Sociale e sulla
base di un sussidio mensile di lire 45000 circa). Pertanto, ove
possibile, l'assistenza domiciliare è anche la più conveniente.
2 - Il secondo esempio
di deistituzionalizzazione è quello compiuto con un gruppo di ragazzi subnormali
ospiti dell'Istituto Medico Psicopedagogico don Guanella con deficit intellettivi medio-gravi.
L'esperienza guidata dal dott. Carlo Brutti del Centro d'Igiene Mentale di
Perugia è molto significativa (4). Anzitutto egli
aveva tentato un'altra esperienza: «la messa in crisi dell'istituzione
dall'interno, promuovendo in un istituto della città - di circa 40 ragazze e
10 adulti-educatori - una forma di gestione partecipata
di educatori ed educandi». L'esperienza purtroppo fallita «che ribadisce pertanto l'impenetrabilità della
struttura», ha fatto «scaturire indicazioni per altre scelte e altre sperimentazioni
radicalmente deistituzionalizzanti. A questo proposito
- sempre riguardo al nostro scontro con gli istituti - noi abbiamo potuto
verificare che una operazione di deistituzionalizzazione
radicale è possibile, ma a certe condizioni. A condizione
cioè di non farne un episodio isolato di rottura di certe tradizioni
assistenziali, che ormai è noto quanto siano deleterie, ma di farne lo spunto
per una alternativa completa, coinvolgente altri parametri sociali che fino ad
oggi hanno agito - perfino in buona fede - sulla linea delle dinamiche di
emarginazione e di esclusione che operano negli individui singoli e nei gruppi».
I momenti significativi di questo processo che ha significato il
ritorno dei ragazzi alle famiglie e l'inserimento in classi normali con
particolare assistenza, si possono leggere nella relazione del Dr. Brutti già
citata (4).
Appunti
sul documento della C.E.I.
Venendo ora dopo questa ampia premessa (che ci è sembrata necessaria, anche
nella parte dedicata alla deistituzionalizzazione) al
documento della C.E.I., ci sembrano rilevanti i seguenti
interrogativi sotto l'aspetto pastorale.
Si è già accennato allo
sforzo apologetico contenuto nel documento a favore delle istituzioni religiose.
Ma non si va troppo oltre, quando, denunciando alcune manovre laiciste, si
giunge ad accomunare avversari reali e critici leali, deformando
forse le intenzioni di coloro che sono sinceramente preoccupati del nostro
sistema assistenziale attuale, così gravemente ingiusto ed emarginante?
Un aspetto che nel
documento si sarebbe voluto più incisivo: la denuncia
delle responsabilità del patere politico, senza tralasciare il potere
economico. Compito pastorale è, infatti, non solo quello di cogliere i «segni
dei tempi», valorizzando i contributi positivi da
qualunque matrice culturale provengano, ma è anche quello di responsabilizzare
la comunità civile.
La «dedizione», i «gravi
sacrifici», il «generoso impegno» di «migliaia di persone animate dalla carità
cristiana», vanno giustamente valorizzati. Il documento della C.E.I. a questo
proposito giunge anche a questa affermazione: «Per
certi tipi di bisogni, di fronte ai quali anche le migliori leggi e le più
perfette strutture sono quasi impotenti (si pensi ai ricoverati al «Cottolengo»), oseremmo dire che
solo la carità può garantire il servizio umanamente più adeguato: solo chi
riesce a vedere nell'uomo sofferente l'immagine di Cristo può compiere
amorevolmente quei gesti di eroismo richiesti per la cura di certe
sconcertanti infermità».
Ora agli svariati
interrogativi che sorgono di fronte a queste affermazioni (ad esempio, perché questa svalutazione delle possibilità legislative ed
organizzative della comunità civile), perché si vogliono ignorare certe
realizzazioni civili già in atto?, vogliamo rispondere con quattro ordini di
considerazioni.
È ormai acquisito che ad
aggravare i soggetti handicappati e l'ambiente stesso di ricovero e di cura
contribuiscono due fattori: la «concentrazione» dei soggetti in pochi istituti
(si è anche parlato di «deportazione assistenziale», a
proposito dello sradicamento dal proprio ambiente di migliaia e migliaia di
persone) e l'istituzionalizzazione precoce e prolungata. Nessuno può
nascondersi una realtà: lo stesso personale religioso in alcune situazioni è
sottoposto a gravissimi sacrifici, dovuti alla gravità dei soggetti, al numero
degli stessi, agli orari: tutte condizioni che sarebbe
doveroso (doveri umani e anche sindacali) migliorare per la stessa salute
fisica e psichica del personale.
2 - La passività di
fronte alla grave responsabilità della comunità
civile deve essere superata negli ambienti religiosi per i quali è certamente
anche forma di eroismo talora la denuncia coraggiosa e continuata, per non
diventare la facile coscienza che scarica le responsabilità altrui. Ma d'altra
parte è anche grave compito di evangelizzazione
denunciare i pregiudizi razzisti della società del benessere, perché accetti i
suoi membri meno fortunati a parità di diritti e li inserisca nel tessuto
sociale.
3 - Ma vi è un aspetto più profondo, estremamente doloroso, della
situazione che spesso sfugge anche ai più avveduti. Si legga con attenzione e
con comprensione, al di là di certe affermazioni,
l'articolo di G. Selleri in queste stesse pagine:
come presidente dell'Associazione nazionale fra invalidi per esiti di
poliomielite (A.N.I.E.P.) e gravemente impedito egli
stesso, ci porta a riflettere sulla «risonanza psicologica» che certe forme di assistenza producono nell'assistito. Per la persona in
stato di bisogno possono verificarsi sentimenti di
profonda sofferenza nel sentirsi oggetto compatito o anche «amato», nel percepire
di essere per l'altro occasione di beneficenza o anche di ascesi personale. Esiste
un reale pericolo che la «carità» sia vissuta da certi
religiosi (anche per una giustificata difesa psicologica da persone e da
situazioni gravemente frustranti) soprattutto come «ascesi personale» e
«mistica individuale», più che come realistica forma di servizio e di rapporto
interpersonale.
4 - Qui si vorrebbe
avanzare una considerazione analoga circa l'impegno
dei cristiani e dei non cristiani che lavorano con sacrifici e con dedizione a
volte non inferiori in istituzioni non religiose. A questo proposito il
documento della C.E.I. procede, nel suo intento apologetico, a contrapposizioni
nette, che lasciano perplessi, fra spirito religioso e l'atteggiamento che viene persino definito «burocratico» dell'assistenza «laica».
Fra le possibili citazioni riportiamo le seguenti:
«Nel campo specifico
dell'assistenza si deve ricordare (come già si è accennato) che non è in gioco
soltanto un problema di tecniche e di strutture, ma anche e soprattutto di
rapporti umani; e quando si tratta di rapporti interpersonali il volontariato
e l'ispirazione religiosa sono elementi di fondamentale importanza (...) Nelle relazioni fra società ed assistito, la carità suscita
un ‘modo’ di agire, che, superando il freddo ed anonimo atteggiamento
burocratico, instaura un autentico rapporto umano, in cui emerge il rispetto
della persona e l'autentica partecipazione ai suoi problemi».
Al di
là delle
intenzioni degli estensori, queste contrapposizioni suonano per chi è impegnato
nelle istituzioni assistenziali laiche come un ingiustificato misconoscimento
della propria testimonianza cristiana o anche solo umana. Si
pensi, fra l'altro (in alternativa agli istituti), alle sempre più numerose
famiglie cristiane e non cristiane che si aprono, con generosità e dedizione
non comuni, alle adozioni e agli affidamenti di bambini anche difficili e
handicappati.
Personalmente, lavorando
da anni per professione e per volontariato nel campo assistenziale, non posso accettare tali contrapposizioni e tanto meno la
definizione di «freddo ed anonimo atteggiamento burocratico» attribuito all'assistenza
pubblica.
Un punto essenziale e
importante ci sembra quello in cui il documento della C.E.I., con spirito più concreto e realistico, fissa in tre
esigenze la preparazione del personale: «Una moderna assistenza (...)
richiede, 1) oltre alla insostituibile animazione
interiore, 2) un'adeguata preparazione culturale e tecnica, 3) nonché una
specifica attitudine ad un'azione assistenziale 'aperta' e 'liberatrice' dal
bisogno».
Su queste tre esigenze devono misurarsi tutti gli operatori
sociali sia nelle istituzioni religiose sia nelle istituzioni
civili.
(1) Cfr. Prospettive assistenziali, 1970, n. 11-12,
pp. 17-22.
(2) Il corsivo è nostro. Cfr.
Padre G. PERICO, I Celestini di Prato.
Fatti e riflessioni, in «Aggiornamenti sociali», 1969, n. 1.
(3) Cfr. Prospettive assistenziali, 1972, n. 18,
pp. 22-31.
(4) Cfr. C. BRUTTI,
Esperienze sull'assistenza nell'età evolutiva nella Provincia di Perugia, in «Convegno provinciale sull'infanzia, Pistoia, 14-15-16 maggio 1971
- Atti», Comune di Pistoia, pp. 71 segg.
www.fondazionepromozionesociale.it