Prospettive
assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972
DOCUMENTI
DOCUMENTO
DELLA C.E.I. SULL'ASSISTENZA
Riportiamo
integralmente da L'Osservatore Romano del 15-7-1972 il
documento della C.E.1. sull'assistenza.
L'istituzione delle Regioni a
statuto ordinario ed il conseguente trasferimento alle competenze di queste di alcuni settori e funzioni dell'amministrazione statale,
tra cui l'assistenza sociale, ripropongono ad un nuovo livello ed in modo più
urgente, il problema dei rapporti fra intervento pubblico ed intervento
privato, sia esso di ispirazione religiosa che di ispirazione laica, e quindi
fra istituzioni ed opere assistenziali.
Sembra necessaria una
chiarificazione in merito, anche a motivo della
carenza di una «legge-quadro» che regoli chiaramente la materia, nell'intento
di illuminare maggiormente la pubblica opinione, di giungere ad una corretta
soluzione di un problema così importante per la vita nazionale, [non per fini
polemici o per difesa di privilegi e di interessi, ma per l'armonia dei
rapporti sociali e quindi per il maggior benessere della comunità e dei cittadini].
La soluzione del problema che, a
livello di enunciazione teorica, trova il suo
fondamento nel dettato costituzionale, è chiaramente
espressa nel «parere» della Commissione Parlamentare delle questioni regionali
per il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di
pubblica beneficenza, nel quale si afferma che:
«...la competenza delle Regioni in
materia di beneficenza pubblica (art. 117 Cost.) potrà e dovrà esercitarsi
anche nei confronti delle attività delle istituzioni di assistenza
privata in quanto tali attività rivestono carattere di servizio pubblico».
L'enunciazione traduce ed esprime i
compiti dello Stato democratico ed il modo più opportuno di porsi di fronte
alla realtà della Nazione ed al suo patrimonio sociale e civico, come di fronte
ai gruppi e ai cittadini.
Vengono così ad essere superate le
divisioni della compagine nazionale, evitando dannose discriminazioni ed
inutili tensioni.
C'è da augurarsi che questo rapporto
di intesa e di collaborazione, in piena sintonia con
lo spirito e la lettera della costituzione, sia una meta della democrazia
italiana storicamente e culturalmente acquisita.
Solo in questo modo lo Stato è e
potrà dirsi democratico. Lo Stato democratico, infatti, in forza della sua
stessa ragion d'essere, accetta e sollecita una vera partecipazione alla
soluzione dei problemi nazionali, senza che soluzioni ed interventi siano imposti soltanto dall'alto, ma lasciando un opportuno
spazio alla libertà dei singoli e dei gruppi ed alla loro iniziativa, ed
operando una opportuna mediazione tra esercizio del potere e governo, tra
popolo e cittadini, sviluppando e facendo crescere in essi il senso di
responsabilità. Questo è il senso dei rapporti fra Stato e cittadini.
Uno Stato democratico, inoltre, non
può non essere rispettoso delle opere realizzate e delle iniziative in atto
nella comunità nazionale, divenute parte viva nel
tessuto della nazione e mantenute in vita con notevoli sforzi di generosità e
con impegno culturale e finanziario; come non può non essere sollecito ed
interessato all'apporto delle forze e delle possibilità in esse esistenti,
specie quando queste risultino di pubblica utilità e siano in grado di offrire
un contributo vero e qualificato alle esigenze della società ed alla soluzione
dei problemi nazionali.
D'altronde sarebbe un grave errore,
storicamente imperdonabile, ignorare o peggio mortificare le opere, le
iniziative, le forze, le possibilità, e in particolare le istituzioni assistenziali nella comunità nazionale, quasi fossero un
attentato contro le funzioni dello Stato; esse sono piuttosto da coordinarsi,
da sollecitarsi, da integrarsi, e nel caso da migliorarsi, nell'intento appunto
di promuovere un benessere sempre più ampio e totale dei cittadini e di
servire la comune causa del progresso sociale e civile.
Un retto funzionamento delle
istituzioni di uno Stato democratico non può mai giustificare situazioni di
monopolio, perché mortificherebbero le persone e la libertà, e finirebbero con
l'impoverire e depauperare valori e le realizzazioni
di una comunità, affievolendo e forse spegnendo ogni senso di responsabilità e
di fattiva collaborazione.
Anche quando un servizio, nato dallo
spirito sociale, viene ad assumere rilevanza di interesse
pubblico, non è detto che l'esercizio di tale funzione debba diventare
un'esclusiva dell'organo statuale. Detta funzione, per sé, può essere compiuta
sia da organismi statali che da organismi non
statali, i quali assolvono perciò una funzione di pubblica utilità.
Voler perciò ignorare quanto istituzioni ed opere assistenziali hanno realizzato
in secoli di presenza e di attività al di fuori delle iniziative statali e
degli enti pubblici, si risolverebbe in uno sperpero inutile e dannoso ed in
un atto ingiustificato e realmente ingiusto verso la comunità nazionale, oltre
che in un atteggiamento irriguardoso verso gli iniziatori e i responsabili
delle istituzioni, i quali invece sono unanimemente reputati dei benefattori
della società.
L'assistenza sociale, più che un
problema di dipendenza dallo Stato o dagli organi pubblici, è un problema la
cui soluzione necessita di una più decisa volontà
politica, della capacità e dedizione delle persone che vi sono preposte e
della buona impostazione e conduzione delle opere.
C'è da augurarsi, di vero cuore, che
lo Stato italiano ed i suoi organi responsabili, studino il settore
dell'assistenza e dei servizi sociali in questa prospettiva e con questo
spirito, senza ulteriori remore ed attese, con sano
realismo e in una visione non aprioristica e preconcetta della realtà, con
formule che consentano la più ampia presenza e collaborazione dei cittadini
anche nella fase di elaborazione culturale e nel momento di programmazione.
L'assistenza sociale, infatti, è un
aspetto indispensabile di una equilibrata politica
sociale, che consente ed assicura a tutti i cittadini, specie quelli
diseredati o in stato di bisogno, di fruire concretamente dei propri diritti
più essenziali ed elementari riconosciuti dalla Costituzione.
Ogni giorno migliaia di persone,
animate dalla carità cristiana, prestano il loro amorevole servizio negli
istituti educativo-assistenziali,
negli ospedali, nelle case di cura per anziani, negli istituti per minorati
fisici e psichici e in molte altre analoghe opere destinate al prossimo sofferente
o comunque bisognoso. Sono laici, uomini e donne, sacerdoti, religiosi,
religiose, che attendono alle esigenze di numerosissime istituzioni di assistenza sociale, alle quali hanno dato vita, spesso
con gravi sacrifici e generoso impegno. Il loro servizio fa parte di una
scelta totale, volontariamente maturata nel contesto della
fede cristiana che insegna a vedere il prossimo come «persone da amare» e il
servizio al prossimo come una vocazione capace di «riempire» l'esistenza.
La maggioranza di queste persone è
formata da suore, le quali per meglio servire il prossimo hanno rinunciato ad
una propria famiglia. Per esse la dedizione ai «piccoli»,
ai malati, ai poveri, non è tanto un «lavoro» quanto piuttosto un «ideale di
vita». In molte zone la loro presenza fra i bambini e i bisognosi è ancora
l'unica espressione concreta di solidarietà sociale che porta un soffio di umanità e di speranza. Ordinariamente le famiglie, anche
non praticanti, sono portate a scegliere, per i loro figli o i loro malati, le suore. Esistono inoltre minorazioni fisiche
e psichiche alle quali le istituzioni religiose si sono dedicate con impegno
eccezionale e in certi casi, esclusivo.
Di tutto questo non si usa fare pubblicità.
Oggi si tende piuttosto a svolgere una azione critica
al fine di sottolineare le inevitabili lacune e stimolare un continuo miglioramento.
Anche questo può essere positivo, a patto però che
siano rispettate la buona reputazione delle istituzioni e le esigenze della
giustizia. Ciò, ad esempio, non è avvenuto quando,
recentemente, le attività di una ex suora, che peraltro non aveva niente a che
vedere con le istituzioni religiose, hanno indotto la stampa a suscitare una
pesante ondata di sospetto contro tutte le opere assistenziali cattoliche; e
quando una inchiesta della magistratura e il successivo riscontro di alcune
irregolarità burocratiche, hanno spinto la stessa stampa ad una vera e propria
diffamazione, in una atmosfera di anacronistica «caccia alle streghe».
In tali circostanze si sono dette e
scritte cose talmente infondate da far pensare che l'assalto denigratorio alle
opere assistenziali di ispirazione religiosa fosse soltanto
un pretesto finalizzato a mete politiche di parte. L'affermazione è pesante; ma
assai gravi sono anche i fatti che l'hanno originata.
Basti citare la dichiarazione di un
esponente di partito, secondo cui «la carità religiosa e privata» considererebbe
come «fatali» le condizioni degli infelici e si ispirerebbe
allo strano criterio per cui «quello che conta è l'anima e non il corpo»; di
conseguenza queste istituzioni caritative si dedicherebbero alla custodia dei
bambini e degli adulti infelici solo «per alleviarne le pene, ma non certo per
riabilitarli e reinserirli nella società». Ci si domanda come sia possibile una affermazione del genere, palesemente contraria al
pensiero e alla pratica assistenziale di ispirazione religiosa. Ma chi
pronunciava questo assurdo giudizio aveva un suo
scopo: appoggiare cioè, non soltanto la necessaria riforma dell'assistenza in
Italia, ma soprattutto «una certa riforma», intesa in senso monopolistico e
discriminatorio, che dovrebbe, nei progetti della sua e di altre parti
politiche, «far sparire» (questo è il punto!) «migliaia di enti religiosi e
privati».
Esamineremo più avanti che cosa, in
concreto, è stato fatto o non è stato fatto in Italia
in questo settore. Avremo pure occasione di documentare che cosa pensano e che
cosa fanno i responsabili e gli operatori delle istituzioni assistenziali
di ispirazione cristiana. Apparirà chiaro che questi non sono
affatto «contro», ma «per» una autentica riforma, che non sia però
lesiva dei diritti dei cittadini e in particolare degli assistiti. Una riforma
del genere è dai cattolici, e non da oggi, reclamata ed auspicata.
È doveroso anzitutto contestare
certi attacchi preconcetti contro la carità cristiana. Bisogna però
premettere, a scanso di equivoci, che quando si parla
di carità non si intende affatto avallare quel concetto deformato che fa di
essa un alibi per coprire l'ingiustizia. La carità cristiana nasce da una
visione globale dell'uomo ed ispira nei suoi confronti
un atteggiamento di amore e di dedizione nel rispetto della sua dignità e di
tutte le sue esigenze materiali e spirituali.
La carità non
esaurisce il servizio ai poveri e agli emarginati: tale servizio anzi richiede
e coinvolge l'impegno prioritario della giustizia; quando la giustizia è carente,
la carità ne supplisce il vuoto e ne reclama la presenza; quando la giustizia
opera, la carità le offre un'anima. Questo è il pensiero e la prassi della Chiesa. La sua storia
lo dimostra. Quando la società negava al povero i suoi diritti, e quindi la
giustizia,
I Gerolamo
Emiliani, i
Camillo De Lellis, i Benedetto Cottolengo,
i Giovanni Bosco, i Giuseppe Murialdo, i Giovanni Guanella; e ancora i
don Orione, i don Gnocchi, i don Facibeni e centinaia
di altri uomini e donne, fondatori di grandi istituzioni o promotori di
modeste iniziative, sono altrettanti protagonisti, assieme ai loro seguaci dal
ruolo di supplenza e, per certi aspetti, profetico, svolto dalla carità
cristiana nella storia del nostro paese.
L'aggettivo «profetico» non è affatto retorico. Questi uomini e queste donne,
infatti, non si limitarono a realizzare una generica supplenza alle lacune
della società civile, ma fa loro carità li spinse a ricercare una specializzazione
«avant la lettre» nei settori e nei metodi del loro
impegno, dando vita ad autentiche strutture assistenziali
che anticiparono, sia pure in modo pionieristico, gli orientamenti maturati
assai più tardi negli organi pubblici e nella società stessa. Una storia
completa e dettagliata dell'azione assistenziale
della Chiesa non è stata scritta, ma bastano i fatti di pubblico dominio per
constatare come, specialmente negli ultimi secoli, siano sorti ordini e
congregazioni religiose, maschili e femminili, con specifiche vocazioni di
servizio a determinati bisogni emergenti nella società, quali ad esempio
l'educazione dei ragazzi abbandonati, l'istruzione di quelli poveri, la cura
dei malati e degli anziani, l'assistenza e la rieducazione dei vari tipi di
minorati (sordomuti, ciechi ecc.), la preparazione professionale dei giovani.
Ma il ruolo profetico della carità
cristiana si scopre nella sua completezza esaminando l'atteggiamento che i
grandi fondatori assunsero, e cercarono di ispirare ai loro seguaci, verso la
persona degli assistiti. È eloquente a questo proposito la testimonianza di Ignazio Silone, recentemente citata
da Carlo Arturo Jemolo in un articolo su don Orione.
«Silone - scrive Jemolo -
ci ha descritto in una efficace pagina il suo (di don
Orione) comportamento di fronte a lui, ragazzo ribelle, sospettoso della
tunica del prete; don Orione chiede al sedicenne se desidera un giornale da
leggere nel lungo viaggio, e il sedicenne chiede “L'Avanti!”, che appare
allora il foglio della rivolta; ed il piccolo prete non ha un gesto di riprovazione,
ed alla prima stazione scende e gli compra il giornale; e poi parla a lungo
col ragazzo, sempre trattandolo come un eguale, mai presentandosi come un
benefattore, mai con un discorso che possa apparire tentativo di proselitismo».
Jemolo esprime la sua ammirazione «per quest'opera di aiuto ai ragazzi, volta a farne uomini coraggiosi, atti
alla vita della collettività di molti che rischiano di precipitare attraverso la
miseria nelle vie del vizio»; e il suo giudizio appare assai più obiettivo e rispettoso
della storia che non le illazioni di cui si è detto sopra.
Alla
base della carità
cristiana autenticamente vissuta sta la convinzione che l'assistito è un essere
umano, titolare di una dignità che la società non gli ha consentito di
soddisfare pienamente; una dignità che fa di quest'uomo il soggetto di un
preciso diritto e che impone alla società il dovere di considerarlo e di
aiutarlo concretamente ad essere un uomo «come gli altri».
Nelle relazioni fra società ed
assistito, la carità suscita un «modo» di agire, che, superando il freddo ed
anonimo atteggiamento burocratico, instaura un autentico rapporto umano, in
cui emerge il rispetto della persona o l'autentica partecipazione ai suoi
problemi. Inoltre, per certi tipi di bisogni, di fronte ai quali anche le
migliori leggi e le più perfette strutture sono quasi impotenti (si pensi ai
ricoverati al «Cottolengo»), oseremmo dire che solo la carità può garantire il servizio umanamente
più adeguato: solo chi riesce a vedere nell'uomo sofferente la immagine di
Cristo può compiere amorevolmente quei gesti di eroismo richiesti per la cura
di certe sconcertanti infermità.
Le istituzioni religiose, offrendo
questo tipo di testimonianza in epoche in cui i poveri erano praticamente emarginati, e in altre epoche più recenti in
cui la società «si degnava» di assisterli con la beneficenza, concepita come
una elargizione, hanno contribuito alla evoluzione della società stessa,
anticipando di secoli le convinzioni acquisite successivamente dallo Stato
democratico, almeno nella Carta costituzionale. Questo è ancor oggi il significato
profondo del servizio di quelle istituzioni che ispirano il loro impegno
sociale al comando evangelico dell'amore del prossimo. «In questo senso - come
dice il Papa Paolo VI - la carità precede ed integra la
giustizia, e l'ora è venuta di farne l'apologia come fermento di qualsiasi
sistema economico e sociale».
Le polemiche sorte in Italia in
questi ultimi tempi, oltre a negare il valore della ispirazione
religiosa nelle opere di assistenza, hanno pure tentato di svalutare la presenza
concreta e il tipo di servizio delle istituzioni religiose nella situazione
odierna. Non si dispone di una statistica religiosa
nel settore dell'assistenza nel nostro paese. È certo però che essa assume
proporzioni massicce. A titolo esemplificativo riportiamo alcuni dati di una indagine di qualche anno fa. Da essa
risulta che nel 1967 gli istituti di ricovero dipendenti da enti religiosi
erano 2116, pari al 30 per cento del totale. Nella stessa epoca risultavano
operanti ben 5826 istituti per la ricezione diurna dei minori. Queste cifre
comprendono anche istituzioni non cattoliche, che però in Italia sono una esigua minoranza.
Per quanto riguarda il numero dei
religiosi e delle religiose impegnati nelle opere di assistenza,
i dati in nostro possesso comprendono anche quelli che prestano servizio negli
istituti pubblici. Nei 1967 operavano, negli istituti di ricovero pubblici e
privati, ben 43 714 religiosi (il 47 per cento del totale), di cui 6010 uomini
e 37704 donne. Aggiungendo a questi, i religiosi impegnati negli istituti di
ricezione diurna, sia pubblici che privati, l'entità
del personale religioso addetto all'assistenza nel nostro paese superava di
molto le centomila unità.
Ma per poterne valutare
obiettivamente il servizio occorre conoscere anche la situazione di notevole
disagio in cui sono venute a trovarsi le istituzioni
religiose o comunque non statali che si occupano di assistenza. Esse sono
costrette a far fronte ad un complesso di problemi nuovi che non possono più
essere risolti con i soli mezzi a loro disposizione. In una moderna democrazia infatti non è più concepibile che l'enorme problema
dell'assistenza venga scaricato sul volontariato e sulla dedizione delle istituzioni
libere. Lo stesso «modo» di concepire l'assistenza ha
subito radicali mutamenti sotto la spinta dell'evoluzione culturale e sociale.
La soluzione del problema coinvolge l'intera comunità, e soprattutto esige che
i pubblici poteri si assumano le loro responsabilità.
In Italia,
nonostante che
Per farsi un'idea più completa della
situazione è necessario tener presente che nel quadro delle
leggi vigenti si interessano dell'assistenza almeno cinque ministeri in modo
stabile, ed altri in modo saltuario, con uffici centrali e periferici; che
esistono diversi enti pubblici nazionali operanti a favore di determinate
categorie di bisognosi; che, accanto a questi, sono sorte numerose associazioni
nazionali di categoria con funzioni anche assistenziali; che pure gli enti
previdenziali svolgono attività assistenziali.
Perifericamente le competenze sono suddivise fra le
province (assistenza a illegittimi e a minorati
psichici), i comuni (inabili, assistenza medico-farmaceutica, centri assistenziali),
gli enti comunali di assistenza (assistenza generica e centri assistenziali),
gli istituti di pubblica assistenza e beneficenza (che gestiscono asili,
istituti per minori, per minorati e per anziani), le istituzioni private con o
senza personalità giuridica, le cui attività sono parzialmente, ed in misura
diversa, finanziate dallo Stato o da Enti pubblici. In questa confusa cornice
strutturale manca un vertice politico-amministrativo che attui il coordinamento
degli interventi nel quadro di una adeguata programmazione;
si verificano sovrapposizioni e conflitti di competenze in alcuni settori,
mentre altri restano scoperti; ha luogo una forte tendenza degli enti di
categoria a rinchiudersi in un ghetto corporativo.
Sotto il profilo funzionale
la situazione è caratterizzata da gravi anomalie: il prevalente criterio
occasionale e discrezionale favorisce la cronicità del bisogno, crea disparità
ed insufficienze di trattamento, isola gli assistiti e non ne promuove
l'inserimento nella società. Tutto ciò non risana le situazioni di bisogno
nella loro radice, come non le risanano le prestazioni integrative erogate
saltuariamente per sopperire a lacune sanitarie, previdenziali o scolastiche.
La politica assistenziale italiana non si è ancora
del tutto liberata dai residui di una mentalità e di una prassi in auge nel
secolo scorso; e pertanto i suoi interventi costituiscono piuttosto una cura
disordinata degli effetti, anziché un efficace tentativo di rimuovere le cause
del bisogno. Con la conseguenza che il povero resta ancora, in pratica, un
peso fastidioso anziché un «caso di coscienza» per la società.
Sono molti i fatti che dimostrano il
persistere di atteggiamenti paternalistici,
classisti, economicisti nella pratica assistenziale;
e non sono del tutto scomparsi coloro che, anche ad alto livello, considerano
gli indigenti come una categoria da cui la società deve «difendersi», e
l'assistenza come uno dei mezzi destinati a tale scopo. Per completare il
quadro si deve rilevare un'altra serie di anacronismi
del sistema attuale: esso infatti favorisce la clientelizzazione
degli assistiti, ignora o rompe la dimensione familiare, assolutizza
il ricovero, alimenta l'emarginazione, esclude la partecipazione della
comunità, non punta sul personale qualificato mentre gonfia il volume di quello
amministrativo.
In una situazione del genere le
istituzioni assistenziali non statali sono spesso
costrette ad un continuo e snervante logorio, e non di rado ad una povertà
paralizzante. Non è infrequente il caso di istituti
che, per rendere un servizio più rispondente alle esigenze dei tempi, dovrebbero
e potrebbero delimitare il loro campo di impegno, ma ne sono impediti dal fatto
che non esiste la possibilità di collocare altrove i propri assistiti. Anzi,
questi stessi istituti, mentre da un lato vengono
aspramente criticati, dall'altro sono sottoposti a pressioni di autorità e di
enti pubblici affinché accettino in custodia, in qualsiasi modo, minori o
minorati che lo Stato non sa come assistere e dove collocare.
Si pretende che gli enti non statali
di assistenza provvedano in modo completo e decoroso
alla educazione dei minori loro affidati: ma forse pochi sanno che la cosiddetta
«retta di Stato» sale al massimo a 800-1000 lire giornaliere. Per di più tale
retta non raramente viene corrisposta con estenuanti ritardi; molti istituti sono creditori verso gli Enti pubblici di parecchi milioni.
Comunque va precisato che, nonostante tutto,
i casi di inadeguatezza non costituiscono affatto un fenomeno generale. Anzi,
va sottolineato (come vedremo) che moltissime
istituzioni cattoliche hanno tentato di affrontare i problemi nuovi di propria
iniziativa, ridimensionando le opere in base ai reali bisogni emergenti in una
determinata zona; preoccupandosi di preparare in modo adeguato gli operatori
sociali; ammodernando le strutture e i metodi in armonia con le esigenze
moderne ed optando per determinati tipi di servizi sociali. I risultati
faticosamente raggiunti sono da considerarsi tanto più meritori quanto meno gli istituti sono stati aiutati dagli organi
pubblici. In tutti i modi non si può certo affermare
che le istituzioni pubbliche di assistenza si collochino sempre ad un livello
più avanzato rispetto a quelle religioso-private.
Ciononostante abbiamo avuto in
Italia una improvvisa e clamorosa campagna
scandalistica la cui eco, rimbalzata anche all'estero, non si è ancora spenta.
A noi sembra che il vero scandalo consista nel tentativo di attribuire
la responsabilità di lacune, dovute anche all'inadempienza dei pubblici
poteri, solamente a coloro, istituzioni e persone, che invece ne hanno dovuto
subire le conseguenze, pur continuando a prodigarsi nel sacrificio e nel
disinteresse a servizio dei bisognosi.
Quanto si è detto finora non vuole
essere un'accusa alla classe politica per il fatto che non è riuscita ad operare
un tempestivo ed adeguato aggiornamento rispetto alla evoluzione
della società. E neppure vuole essere una esaltazione
acritica delle istituzioni assistenziali libere, le quali hanno pure le loro
lacune, e se ne rendono conto. Si è insistito sulle responsabilità della
società civile perché si riteneva necessario offrire all'opinione pubblica,
sconcertata da accuse unilaterali e sproporzionate, un quadro completo della
situazione che aiuti a formulare giudizi più equilibrati e, diciamolo pure, più
onesti. Come non lo usiamo noi, così non pretendiamo dagli altri che si usi l'incenso verso le istituzioni religiose; pretendiamo
però (come vivacemente afferma un esperto operatore) che «almeno non si usi
l'arsenico».
Allo scopo di favorire una
valutazione più serena ed obiettiva della situazione assistenziale
in Italia, è opportuno accennare rapidamente al contributo che gli studiosi e
gli operatori sociali cristianamente ispirati hanno
dato alla formazione di una moderna concezione dell'assistenza nel nostro
paese. Senza voler negare che possano sussistere anche
in ambienti cattolici strascichi di mentalità arretrate, è doveroso prendere
atto di questa realtà, la quale dimostra il prevalere di una mentalità orientata,
alle più coraggiose riforme.
Da diversi anni i cattolici in
Italia svolgono un ruolo di sollecitazione e di stimoli nei confronti dei
pubblici poteri, affinché venga attuata una radicale
ristrutturazione di tutto il sistema assistenziale. Le loro ricerche, i loro
studi, le loro proposte, le loro iniziative, messe a punto e pubblicizzate in
convegni e riviste, costituiscono un rapporto avanzato e spesso originale,
tanto da essere considerati un valido punto di riferimento da parte di altri gruppi politici e sociali. Basterebbe citare il
documento della «Fondazione Zancan», firmato dai
rappresentanti delle istituzioni cattoliche più
qualificate nel settore, sui principi e sui modi che dovrebbero presiedere una
seria riforma. Esso ha avuto larga eco ed è stato pubblicato o citato da
autorevoli riviste.
Sono pure di attualità
le concrete proposte elaborate in recenti documenti dall'UNEBA e dal CIF per
una legge quadro che risponda alle moderne esigenze. Ma esistono altre
numerosissime pubblicazioni a livello scientifico e divulgativo, nonché documenti e rapporti di cui è impossibile qui
offrire una adeguata rassegna. Promotrici di tali contributi sono istituzioni
ed organizzazioni specializzate nel campo dello studio e della ricerca, quali
L'orientamento dei cattolici è a
favore di una delimitazione dei compiti dell'assistenza intesa come rimedio
allo stato di povertà. Si vuole invece, in conformità alle più moderne
concezioni, un sistema di sicurezza sociale, in seno al quale una gran parte
dei bisogni, oggi in qualche modo tamponati mediante iniziative assistenziali inadeguate, siano affrontati in radice
attraverso una politica di interventi globali nei settori della produzione,
della distribuzione del reddito, della istruzione, della tutela della salute,
della casa, della sicurezza sociale, dei servizi sociali. Molti dei bisogni
oggi demandati all'assistenza devono essere coperti con interventi economici
di sicurezza sociale (anziani, inabili, invalidi) perché sia consentito a tutti
di programmare la propria vita senza dipendere da varie forme di assistenza pubblica o privata. L'assistenza vera e
propria verrebbe in tal modo limitata alle situazioni
straordinarie e contingenti che comportino spese imprevedibili. Per tutte le altre situazioni di difficoltà dovrebbe essere
promossa una vasta rete di servizi sociali per tutti i cittadini.
In questo nuovo modo di concepire
l'assistenza si deve seguire il criterio di dare
uguali prestazioni ad uguali bisogni, affinché l'intervento corrisponda ai
reali bisogni della persona senza essere condizionato all'appartenenza o meno
ad una determinata categoria. Occorre inoltre preoccuparsi di prevenire i bisogni
e comunque di evitare lo «sradicamento» del bisognoso
dal suo ambiente familiare e sociale. Viene pure
sottolineata la dimensione familiare degli interventi, che devono tendere ad
aiutare la famiglia piuttosto che a sostituirsi ad essa, a dare prestazioni
economiche in casa piuttosto che «rette» in istituti. Di grande
rilievo è pure l'accento che si pone sulla partecipazione della comunità, le
comunità locali devono essere direttamente interessate a questi problemi, sia
a livello di rapporti umani sia a livello di strutture, partecipando alla
programmazione, alla gestione e al controllo dei servizi.
C'è un punto sul quale il pensiero
cattolico insiste con particolare decisione: la salvaguardia
della libera iniziativa nel campo dell'assistenza, peraltro in armonia con
Nel campo specifico dell'assistenza
si deve ricordare (come già si è accennato) che non è in gioco soltanto un
problema di tecniche e di strutture, ma anche e soprattutto di rapporti umani:
e quando si tratta di rapporti interpersonali il volontariato e l'ispirazione
religiosa sono elementi di fondamentale importanza.
Sostenendo la libertà di iniziativa si chiede, in sostanza, che le attività delle
istituzioni non statali di assistenza siano riconosciute come attività che «rivestano
caratteri di servizio pubblico», con tutte le conseguenze che ne derivano.
Tale richiesta, del resto, coincide con quella espressa
anche nel «Parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali,
per il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di
beneficenza pubblica». Mentre il servizio di assistenza
economica viene necessariamente ad essere di competenza pubblica, deve
restare aperta alla libera iniziativa la possibilità di trasferire la gestione
dei servizi sociali ad altri soggetti che, oltre ad operare in vista delle
finalità fissate dalla programmazione, offrano garanzie di prestazioni adeguate
sul piano qualificativo.
Non quindi concorrenza, non
duplicali, ma autentica, solidale e responsabile partecipazione. Con il
vantaggio che l'iniziativa libera, potrebbe svolgere anche un ruolo di
sperimentazione e di anticipazione in quei settori nei
quali l'iniziativa pubblica, per sua natura, può muoversi con maggior
difficoltà e lentezza. «È questo a nostro avviso - si legge nella relazione
introduttiva a un disegno di legge democristiano - il
modo reale di verificare e garantire il valore positivo del pluralismo. Il
pluralismo assistenziale, infatti, nel suo significato più autentico, non può
voler dire frazionamento e disarticolazione di interventi
e di risorse, ma, al contrario, convergenza di libere iniziative, di
differenziate esperienze, di positiva ricerca di nuove tecniche operative,
indirizzando tutto ciò al servizio della comunità, e quindi realizzando quel
finalizzarsi di iniziative private verso obiettivi comuni, che deve trovare
nei pubblici poteri il suo momento di sintesi, di espansione e di guida».
Le istituzioni di assistenza
gestite da enti religiosi sono sinceramente dominate da uno spirito di lealtà
verso lo Stato, di servizio alla comunità e di solidale adeguamento alle
finalità delle riforme. Per esse l'impegno concreto
al servizio dei bisognosi, attuato anche con iniziative proprie, è un aspetto
irrinunciabile della testimonianza cristiana. Tale impegno emana direttamente
dalla fede, la quale non può essere professata solo a parole, ma deve essere
tradotta in un amore concreto verso il prossimo, specialmente verso i più
poveri. Fin dai primi tempi della Chiesa il servizio ai fratelli fu praticato
come impegno non solo personale ma comunitario e fu istituito un apposito «ministero» (il diaconato) che si affiancò ai
ministeri della parola e della grazia.
Se la comunità politica volesse
forzatamente allontanare l'apporto del servizio ispirato dalla fede, si creerebbe un vuoto difficilmente colmabile. Tale
servizio infatti si colloca fra i contributi più
importanti e necessari per la costruzione di una società che non si limita a
far fronte ai bisogni materiali dell'uomo, ma soddisfi anche il profondo
anelito di fraternità, di conforto morale, di amicizia.
Chi opera con questo spirito è
inoltre particolarmente qualificato ad impegnarsi nella «scoperta» e nel
servizio dei «nuovi poveri», vittime impotenti dei fattori di squilibrio, di
disuguaglianza e di oppressione, tipici della società
moderna, di cui parla la «Populorum progressio» (n. 47): «In una società dell'abbondanza la
povertà non si misura solo in base al reddito di cui si dispone o al livello di vita di cui si gode. Ma vi è pure una povertà
che si riferisce alle condizioni di vita, al sentimento di sentirsi respinti
dall'evoluzione dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità... La povertà non è solo quella del denaro, ma anche la mancanza
di salute, la solitudine affettiva, l'insuccesso professionale, l'assenza di
relazioni, gli handicaps fisici e mentali, le
sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono da una incapacità a
integrarsi nel gruppo umano più prossimo. In definitiva il povero non è forse colui che non conta nulla, che non viene mai ascoltato, di
cui si dispone senza domandargli il suo parere, e che si chiude in un
isolamento così dolorosamente sofferto che può andare talora fino ai gesti
irreparabili della disperazione? Una società si giudica dal posto che essa riserva
ai più diseredati dei suoi membri, dalla preoccupazione che essa dimostra nel
farla accedere a una vita pienamente umana, dove essi
ritrovino delle ragioni per vivere e per sperare».
Le istituzioni assistenziali
di ispirazione religiosa rivendicano dunque il diritto ad esistere e ad
operare con il pieno riconoscimento della società. La loro
disponibilità ad adeguarsi alle nuove esigenze imposte sia dalla evoluzione
sociale sia dal crescente intervento dello Stato, è fuori discussione. Ciò che
esse respingono, è l'intento di chi vorrebbe estendere arbitrariamente i poteri
dello Stato al di là di quelli connessi con il suo
ruolo di promozione, di alta direzione, di coordinamento, di integrazione e di
controllo (che però non sia, come è attualmente, confuso, contraddittorio e
paralizzante); di chi vorrebbe cioè la scomparsa di tali istituzioni o la
eliminazione della loro originalità, soggiogandole anche alle conseguenze
ideologiche delle politiche dominanti.
Anche prescindendo dalle ragioni di
diritto e di democrazia, basti pensare che, nell'attuale situazione, lo Stato italiano
si trova a far fronte a colossali problemi primo fra tutti quello del personale
specializzato. Sembra assurdo in tale situazione qualcuno si preoccupi di
eliminare quello già esistente, solo perché è «religioso» eppure la tesi
secondo cui le libere istituzioni sarebbero appena da tollerare, sembra
obiettiva. La realtà dimostra che queste istituzioni costituiscono la struttura portante dell'assistenza sociale nel nostro
paese; e sarà così ancora per molto tempo. In altri stati moderni queste istituzioni
sono assai più obiettivamente considerate e valorizzate; esse vengono
favorevolmente accolte sia per la loro operatività immediata, sia per la
preparazione del loro personale, esse inoltre sono considerate strumenti di
necessaria collaborazione alla organizzazione
pubblica dei servizi sociali.
In questi ultimi anni le istituzioni
di assistenza gestite da enti religiosi hanno avviato
un concreto sforzo per l'aggiornamento delle proprie strutture. I pastori della
Chiesa hanno incoraggiato tale sforzo e, per renderlo più efficace, hanno
istituito a livello nazionale, regionale e diocesano consulte e commissioni
permanenti con compiti di promozione e di coordinamento.
I due cardini del rinnovamento sono
le «scelte di campo» e la qualificazione delle prestazioni. Per quanto riguarda
le scelte di campo emerge il problema di armonizzare
il servizio delle libere istituzioni con le esigenze della programmazione. Si
tratta cioè di individuare tipi di servizio che meglio
rispondono alla testimonianza di valori prioritari, che contribuiscano a
colmare lacune più urgenti e meno avvertite da altri, che rivestano un
significato anticipatorio ed esemplare.
Più complesso è il problema della
qualificazione. Sono stati promossi studi, incontri e dibattiti sulle esigenze
di una moderna assistenza che richiede, oltre alla insostituibile
animazione interiore, una adeguata preparazione culturale e tecnica, nonché
una specifica attitudine ad una azione assistenziale «aperta» e «liberatrice»
dal bisogno. In uno studio elaborato da un gruppo di esperti
della CEI e divulgato tra gli operatori assistenziali cattolici, si offre, ad
esempio, uno standard di massima per la conduzione degli istituti educativo-assistenziali per minori, in base alle esigenze
acquisite dalla scienza e dall'esperienza. Lo studio traccia tra l'altro un
quadro dei bisogni caratteristici del minore, suppone la preminenza del ruolo
della famiglia nella sua educazione, afferma la temporaneità
della funzione dell'istituto e sostiene la necessità di un collegamento
permanente con le famiglie e con la comunità esterna. Altri servizi del genere
sono in preparazione per i diversi settori assistenziali.
Ma lo sforzo di aggiornamento
è anche vivo all'interno delle congregazioni religiose impegnate con proprie
istituzioni nel settore dell'assistenza. L'aggiornamento ha per oggetto le
scelte prioritarie da compiere in un prossimo futuro (scelte imposte anche
dalla diminuzione delle vocazioni), nonché la
formazione specializzata dei religiosi e delle religiose.
Tipico è l'esempio offerto dalla
Federazione Italiana delle Religiose addette all'assistenza sociale (FIRAS), la quale svolge da molti anni un serio e impegnativo lavoro
a livello tecnico e culturale per la specializzazione delle suore operanti negli
istituti educativo-assistenziali, nelle case di
rieducazione, nei centri di osservazione, negli istituti per anziani, nelle
carceri, ecc.
Un'altra iniziativa della FIRAS è la
scuola di formazione psico-pedagogica per
educatrici, con sede a Roma e sezioni in varie regioni d'Italia, che ha già
offerto una specifica preparazione a migliaia di religiose che svolgono
funzioni educative negli istituti assistenziali e nei
collegi. Esistono in Italia parecchie altre scuole che si ispirano
all'impostazione di quelle della FIRAS.
Parallelamente a queste attività
Al termine di queste note stese col
solo desiderio di rendere giustizia alle libere istituzioni assistenziali,
è doveroso sottolineare l'importanza e la delicatezza del momento in cui è
venuto a trovarsi il problema dell'assistenza nel nostro paese. Grazie ad una
presa di coscienza che va crescendo nella società italiana, emergono
con sempre maggior chiarezza le lacune del settore, gli orientamenti più
validi per una efficace riforma, le complesse difficoltà che ostacolano il
cammino. Esistono molte convergenze fra le forze sociali e politiche chiamate
a contribuire alle scelte definitive. Ma esistono
anche non lievi divergenze su punti veramente vitali. La posta in gioco è
altissima: si tratta della persona umana, da servire nel momento più drammatico
della sua esistenza, quello cioè della formazione, del
dolore, dell'umiliazione, del bisogno, della infermità. È necessario che le
decisioni maturino al di fuori delle polemiche e delle passioni di parte, in
un clima di responsabilità e di collaborazione, affinché le scelte che saranno
compiute esprimano un autentico esempio di solidarietà sociale, che miri al
bene comune nel rispetto dei diritti e delle esigenze di tutti i cittadini.
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