Prospettive
assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972
EDITORIALE
ISTITUZIONI
CIVILI E RELIGIOSE CONTRO UNA NUOVA ASSISTENZA
Corte Costituzionale
Con
sentenza n° 139 del 6 luglio 1972,
Come
ha giustamente osservato il Presidente della Regione Puglia (1), ancora una volta
a) assistenza privata, che non rientrerebbe né nella beneficenza,
né nell'assistenza sociale;
b) beneficenza pubblica (unica materia ritenuta di competenza delle regioni), che sarebbe «caratterizzata essenzialmente
(...) dalla discrezionalità delle prestazioni, in denaro o in servizi».
Inoltre sarebbe «determinante in essa la
considerazione della concreta situazione del singolo individuo,
la valutazione della personalità e delle condizioni di vita dell'assistibile,
in relazione, peraltro, alle disponibilità materiali dell'ente od organo
erogante»;
c) assistenza sociale, che sarebbe orientata «nel senso di eliminare
o ridurre entro limiti rigorosi, ancorandola all'accertamento di dati oggettivi,
la discrezionalità degli organi od enti erogatori, così da rendere
progressivamente concreto quel diritto all'assistenza sociale, che il primo
comma dell'art. 38 Cost. vuole sia attribuito ad ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere».
Inoltre
sarebbe preminente nell'assistenza sociale «la tipicizzazione
legislativa di determinate categorie di assistibili,
per modo che le prestazioni rispettivamente previste abbiano a spettare a
chiunque vi rientri, e per il sol fatto di rientrarvi. E,
rispettivamente, anche le prestazioni (sarebbero), a loro volta, uniformemente
stabilite alla stregua di valutazioni medie, configurandosi - tendenzialmente
- come sostitutive od integrative di un reddito da lavoro mancante od
insufficiente».
Ricordiamo
che, da un lato fin dal 1923 (R.D. 30. 12. 1923 n°
2841 e successivamente, ad esempio, D.L.L. 22 marzo 1945 n° 173) i
termini di assistenza e beneficenza sono usati promiscuamente senza alcuna distinzione
e, d'altro lato, che con il R.D. 19.11.1889 n. 6535 il ricovero degli inabili poveri era
previsto con la tipicizzazione legislativa della
categoria di assistibili, che il ricovero era dovuto a chiunque fosse riconosciuto
inabile e privo di mezzi economici e infine che la spesa era obbligatoria per
i comuni, nei casi in cui le istituzioni di ricovero non avessero mezzi sufficienti.
Gli
esempi sopra citati confermano, a nostro avviso, che è inaccettabile considerare
attività distinte l'assistenza sociale e la beneficenza pubblica,
come argomenta
Se fosse valida la concezione della
Corte Costituzionale, le Regioni non avrebbero nessuna potestà di approvare,
nell'ambito stesso delle competenze di beneficenza pubblica trasferite con il
D.P.R. 15. 1. 1972 n° 9, leggi che stabilissero il
superamento della discrezionalità delle prestazioni, la tipicizzazione
di determinate categorie di assistibili, la effettiva
attuazione (ancorché solo per alcuni gruppi di assistibili) dell'art. 38 della
Costituzione.
Infatti la materia, in tal
modo regolamentata, non rientrerebbe più nella beneficenza pubblica, ma in
quella di assistenza sociale!
Inoltre
ci sembra particolarmente grave l'affermazione della Corte Costituzionale per cui il campo d'azione dell'assistenza sociale si limiterebbe
alla previsione del primo comma dell'art. 38 della Costituzione, e cioè agli
inabili al lavoro privi di mezzi economici, e non si estenderebbe, come invero
già oggi avviene, sia pur con le note gravi carenze, anche ad un elevatissimo
numero di altre persone. È ben vero che non saranno certamente gli interventi
di «assistenza sociale» a risolvere i problemi delle persone attualmente
emarginate a causa della mancanza di lavoro, di case, di una istruzione
formativa, ecc. Riteniamo - e più volte l'abbiamo scritto - che il superamento
dell'emarginazione si possa ottenere solo con la gestione partecipata a livello
di unità locali, fatto che sarebbe certamente e notevolmente accelerato dal
passaggio integrale delle funzioni alle Regioni e dalla conseguente sottrazione
di esse dai vertici nazionali (ministeri, enti nazionali).
Vogliamo
infine osservare che
Governo
Con
D.P.R. 5 6 1972 n° 315 il Governo ha delegato alle
Regioni a statuto ordinario le funzioni
amministrative statali in materia di istituzioni private e di comitati di
soccorso (2).
Trattasi
di delega e non di trasferimento per cui i titolari
della funzione non sono le Regioni, ma rimangono gli organi statali.
Le
Regioni, pertanto, non solo non eserciteranno le funzioni legislative, ma
dovranno svolgere le funzioni amministrative in conformità delle direttive
emanate dal Governo centrale.
Non
solo a livello governativo, ma anche a livello regionale viene portata avanti
una «nuova» concezione di ente locale, al fine di
mantenere in vita anche gli organismi più fatiscenti, come ad esempio gli enti
comunali di assistenza. Si tende infatti a
comprendere fra gli «altri enti locali indicati» nell'art. 118 della
Costituzione (3) non solo quelli assimilabili ai Comuni o
alle Province (ad esempio i consorzi fra di essi), ma tutti quegli organi, fra
l'altro anche quelli non democraticamente eletti, che operano a livello locale.
Tutto ciò allo scopo di conservare gli innumerevoli
centri di sottogoverno e di contrastare ogni riforma.
Al
riguardo vi è da ricordare la posizione ferma tenuta dalla
maggioranza del Consiglio regionale toscano, che nel riesame della
legge in materia di turismo, ha ribadito che gli enti provinciali per il
turismo non potevano essere considerati enti locali.
La
legge riapprovata è stata vistata dal commissario del Governo, che l'aveva
invece precedentemente rinviata al Consiglio
regionale.
Ciò
dimostra che, quando vi è una effettiva volontà
politica, le Regioni hanno la possibilità di contrastare con successo le
posizioni conservatrici, anche quelle del Governo centrale.
Se
lo stesso criterio verrà adottato nei confronti
dell'assistenza, si arriverà certamente al rafforzamento delle funzioni dei
Comuni e, almeno, alla riduzione dei 40 000 enti di assistenza.
*
* *
In
linea con il mantenimento in vita delle migliaia di enti
inutili, è la recente istituzione del Ministero della gioventù, affidato
all'On. Caiati.
Come
osserva giustamente Giorgio Tecce sull'Espresso
«i problemi della gioventù sono i
problemi della società nel suo complesso e quindi rientrano in quelli che
dovrebbero essere studiati e risolti nell'ambito di ciascun ministero a meno che, mal interpretando Croce, non si ritenga che
l'unico e reale problema dei giovani sia quello di diventare adulti (e
ossequienti al potere)».
Prosegue
il Tecce «Se dunque l'On. Caiati
vorrà veramente svolgere una qualche azione potrà
ricordare ai suoi vari colleghi le promesse mai mantenute, gli obblighi
inevasi, le responsabilità passate e presenti». Speriamo che la
istituzione del Ministero della gioventù non sia il primo atto per la
creazione di altri «disadattati ministeriali» e cioè di possibili assurdi altri
Ministeri per gli anziani, per la famiglia, per gli handicappati, ecc.
Conferenza episcopale
italiana
In relazione al trasferimento alle
Regioni a statuto ordinario delle competenze in materia di assistenza,
Il
collegamento delle due sopraindicate iniziative con il trasferimento alle
Regioni, suscita non poche perplessità. Se infatti lo
scopo - come doveva - fosse stato quello di un intervento a favore delle
centinaia di migliaia di persone emarginate in Italia, occasioni non ne
sarebbero mancate neppure prima.
Purtroppo,
come appare evidente in tutto il documento,
Il
documento è anche episodico: viene citato, quale
esempio di atteggiamento profetico, una testimonianza di Ignazio Silone su Don Orione (che meritava ben altro) che acquista
a lui «ragazzo ribelle sospettoso della tunica del prete» l'Avanti,
che appare, allora, «il foglio della
rivolta». Don Orione poi parla a lungo con il Silone
giovinetto «sempre trattandolo come un uguale, mai presentandosi come un
benefattore, mai con un discorso che possa apparire tentativo di proselitismo».
Il discorso è forse rivolto a certi dirigenti di istituzioni
religiose?
Un
punto centrale della difesa delle istituzioni religiose è costituito dalla
citazione di un esponente di partito che avrebbe affermato
che le istituzioni stesse si dedicherebbero alla custodia dei bambini e degli
adulti infelici «per alleviare le pene, ma non certo per riabilitarli e inserirli
nella società».
Di
questa «citazione» non viene riferito il nome di chi
l'avrebbe fatta per cui nessuno ha la possibilità di smentire o di precisare
il proprio pensiero; non viene nemmeno indicato il contesto in cui la
dichiarazione è stata fatta. Su di essa viene
costruito il sospetto di un presunto scopo che sarebbe quello di volere una
riforma dell'assistenza «intesa in senso monopolistico e discriminatorio che
dovrebbe nei progetti della sua e di altre parti politiche (quali?) far sparire
- questo è il punto - migliaia di enti religiosi e privati».
Non
stupisce quindi che Mons. Gobbi (4), durante la conferenza stampa, abbia giustificato (5) «quella suora cui scappi di dare uno schiaffo a un bambino», chiedendo ai presenti: «Quanti schiaffi danno
le mamme?» e, ricordando le botte dategli dal padre, abbia aggiunto con una
competenza più da esperto gastronomo che da pedagogo,
«Le bistecche diventano più buone, battendole un poco» (6).
Nel
documento si accenna, come contributo dei cattolici alla riforma
dell'assistenza, anche agli «ultimi progetti di
legge elaborati in seno al partito democratico cristiano, grazie alla presenza
in esso di persone competenti che a questo problema
hanno dedicato le loro energie». La discriminazione e la parzialità della
scelta operata dalla C.E.I. è evidentemente contro i
precedenti progetti democristiani (v.
Foschi) e a favore di orientamenti
nettamente conservatori. E così viene riportata (ma
senza indicarne la fonte precisa) una citazione. Essa si riferisce ad una «relazione
di legge democratico-cristiana» e cioè
alla proposta di legge Falcucci (n°
1233 Senato del 215 1970) che, guarda caso, propone non solo il «pluralismo
assistenziale», tanto caro alla C.E.I., ma anche la
trasformazione dal Ministero dell'interno in Ministero dell'interno e
dell'assistenza sociale, trasformazione tanto cara a coloro che partono ancora
dal concetto che (7) «i servizi e le
attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi
passivi e parassitari».
Il
documento inoltre presenta due piani distinti: la situazione assistenziale è
presentata indicando fatti ovvii ormai da lunga data (prestazioni erogate
saltuariamente per sopperire a lacune sanitarie, previdenziali e scolastiche,
discrezionalità degli interventi, disparità di trattamento, isolamento degli
assistiti, ecc.).
L'altro
piano è costituito dalle considerazioni apologetiche e pratiche che sono in aperto contrasto con la diagnosi della situazione.
Infatti da un lato viene
affermato che si vuole «in conformità alle più moderne concezioni, un sistema
di sicurezza sociale, in seno al quale una gran parte dei bisogni, oggi in
qualche modo tamponati mediante iniziative assistenziali inadeguate, siano
affrontati alla radice attraverso una politica di interventi globali nei
settori della produzione, della distribuzione del reddito, della istruzione,
della tutela della salute, della casa, della sicurezza sociale, dei servizi
sociali».
D'altro
lato questa indicazione, da noi condivisa, viene
subito ristretta quando il documento sostiene che: «l'assistenza sociale (...)
è un aspetto indispensabile di una equilibrata politica sociale, che consente
ed assicura a tutti i cittadini, specie quelli diseredati o in stato di bisogno,
di fruire concretamente dei propri diritti più essenziali ed elementari
riconosciuti dalla Costituzione». La stessa Costituzione sancisce invece in primis il diritto al lavoro, ad un giusto salario, alla salute,
all'istruzione, ecc. e non assicura certo a tutti i cittadini il diritto all'assistenza.
E
con un concetto ancor più limitato, il campo operativo dell'assistenza viene
più avanti individuato in modo diverso, affermando che l'assistenza
vera e propria dovrebbe essere limitata «alle situazioni straordinarie e
contingenti che comportino spese imprevedibili». Nello stesso documento viene poi ribadito che «per tutte le altre situazioni di
difficoltà dovrebbe essere promossa una vasta rete di servizi sociali per
tutti i cittadini». Dal che appare evidente che la sfera di attività
dell'assistenza, prima delimitata, viene poi notevolmente estesa sotto la
denominazione di servizi sociali, intesi però sempre in senso assistenziale
essendo destinati «a tutte le altre situazioni di difficoltà».
Nessuna
indicazione concreta, salvo la richiesta di interventi
economici alle persone e per gli istituti, viene portata avanti nel documento
del
In
questo contesto è evidente che si verifica la
situazione descritta da Henri (8) «Il voto di povertà delle religiose pare ben
comodo a coloro che a tale voto non son legati. È molto comodo contare su un certo numero
di persone che lavorano gratis o pressapoco, per
occuparsi proprio di persone per le quali non si ha voglia di spendere, perché
non rendono nulla. Non ci si perita d'altronde a ricoprirle d'ammirazione».
Come
abbiamo prima accennato, la sola citazione riportata nel documento
è errata
(9).
Non
ci interessa tanto rilevare l'errore, anche se
madornale, quanto il fatto che la citazione stessa, estremamente importante per
il concetto di nuovi poveri (10) che viene
affermato, è inserita come semplice riempitivo e da essa non viene tratta
nessuna conclusione coerente. In particolare non sono denunciate le
responsabilità del potere economico, che cerca con vari espedienti di
giustificare la presenza dei nuovi poveri.
Invece
la denuncia è ben chiara nel documento della Commissione diocesana di Torino.
A
questo proposito il documento della C.E.I. si guarda bene dal citare un altro brano dello stesso Card. Villot che è posto come fondamento nel documento della
Commissione diocesana di Torino.
Affermava infatti il Card. Villot: «Diciamolo
chiaramente: (...) per i cristiani si tratta di imporsi con tutte le loro forze
in nome del Vangelo contro il primato di un economicismo che tenderebbe a
legittimare una povertà “residua” come il tributo da
pagarsi necessariamente alla crescita e allo sviluppo».
Molto
arretrata è la posizione del documento là dove genericamente afferma che: «La
carità non esaurisce il servizio ai poveri e agli emarginati: tale servizio
anzi richiede e coinvolge l'impegno prioritario della giustizia; quando la giustizia è carente, la carità ne supplisce il vuoto e ne
reclama la presenza». Ben altrimenti aveva chiarito il decreto del Concilio
ecumenico Vaticano II «L'apostolato dei laici» al n°
8: «Siano adempiuti gli obblighi di giustizia perché non avvenga
che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si
eliminino non soltanto gli effetti, ma anche le cause dei mali; l'aiuto sia
regolato in tal modo che coloro i quali lo ricevano vengano, a poco a poco,
liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi».
Sempre
proseguendo la lettura del documento dell'Osservatore
Romano apprendiamo che le istituzioni religiose costituiscono
«la struttura portante dell'assistenza sociale nel nostro paese» e che «sarà
così ancora per molto tempo».
Questa
affermazione auto-elogiativa e quasi intimidatoria viene
fatta dopo la precisazione che ben 2116 di esse (30% del totale in Italia) sono
costituite da istituti di ricovero!
Non
viene pertanto minimamente indicata la necessità di abolire le istituzioni
chiuse anche se, in altra parte del documento, si parla, genericamente anche
in questo caso, di «dimensione familiare degli interventi, che devono tendere
ad aiutare la famiglia piuttosto che sostituirsi ad essa, a dare prestazioni
economiche in casa piuttosto che rette in istituto». Come non sono fatte
citazioni precise, così sono generici i riferimenti del documento della C.E.I.
a fatti concreti: si parla genericamente di una ex
suora, individuabile nella Pagliuca, ma non si
riferisce che essa ha ricevuto per anni l'appoggio del vescovo di Frascati e
che, anche grazie a ciò, l'istituto è stato chiuso dopo 18 anni dalle prime
notizie di cattivo funzionamento; si parla di campagna scandalistica, senza
tener conto che la situazione dei Celestini di Prato era nota, anche alle
autorità religiose
(11) da molti anni prima della chiusura
dell'istituto e che la mancanza di interventi ha provocato danni indelebili
per centinaia di ragazzi, di cui uno deceduto; si parla di indagini della
magistratura che avrebbero riscontrato solamente delle irregolarità
burocratiche, dimenticando da un lato che oltre l'inchiesta del Pretore Infelisi ne sono state compiute molte altre, ad esempio a
Torino, a Milano, a Ronciglione (Viterbo), a Cagliari
ecc. e soprattutto che molti processi devono essere ancora effettuati (ad
esempio a Roma).
Si
citano i contributi di documenti sull'assistenza, alcuni di essi
sono certamente validi (ad esempio quelli della Fondazione Zancan),
ma si tace sulle contromanovre messe in atto da organi quali, ad esempio, la
potentissima U.N.E.B.A. che raggruppa 12.500
istituzioni religiose di assistenza. Per motivi culturali, ma soprattutto
politico-sociali, i dirigenti del
Da
parte nostra ribadiamo quanto abbiamo scritto
nell'editoriale del n° 13 di Prospettive assistenziali e cioè che «attuando una politica effettivamente
sociale (e cioè per tutti i cittadini), l'intervento assistenziale non è più
necessario».
Ribadiamo inoltre che
«l'intervento non è valido di per sé quando è comunale o statale o provinciale
o regionale, laico o religioso, pubblico o privato» e che «mentre è necessaria
la garanzia pubblica (riconoscimento del diritto concretamente esigibile alle
prestazioni), l'alternativa vera è fra interventi emarginati e interventi
partecipati».
Un
primo passo concreto verso una effettiva
partecipazione, a cui genericamente si accenna nel documento della C.E.I., potrebbe essere compiuto anche dalle istituzioni
religiose di assistenza, chiamando i cittadini politicamente organizzati
(sindacati, gruppi di base, associazioni) a partecipare alla loro gestione e
alle decisioni sulle trasformazioni che verranno stabilite come necessarie al
soddisfacimento dei bisogni.
Sul
documento della C.E.I. pubblichiamo in questo numero due articoli: uno di G. Selleri, presidente dell'Associazione nazionale tra
invalidi per esiti di poliomielite, che, tra l'altro, mette in risalto la
negativa risonanza psicologica degli interventi assistenziali;
l'altro di P. Rollero, che tratta in particolare
alcuni aspetti pastorali.
(1) G. TRISORIO
LIUZZI, Un nuovo colpo per le Regioni,
in «Cronache della Regione Puglia», n. 3, luglio 1972, pag.
5.
(2) Testo dell'art. 1
del D.P.R. 5 giugno 1972 n. 315 - Delega alle regioni a statuto ordinario delle
funzioni amministrative statali in materia di beneficenza:
«L'esercizio delle funzioni amministrative
statali di cui all'art. 3, n. 3, del decreto del Presidente della Repubblica 15
gennaio 1972, n. 9, è delegato, per il rispettivo territorio, alle regioni a
statuto ordinario, che esercitano tali funzioni in conformità delle direttive
emanate dall'organo statale competente, al quale compete anche di accertare che
le funzioni delegate conseguano i fini di interesse
generale cui sono preordinate.
«In caso di inattività degli organi regionali nell'esercizio delle
funzioni delegate, nonostante preventiva diffida, qualora le attività relative
alle materie delegate comportino adempimenti propri dell'amministrazione, il
Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente, può disporre i
necessari atti sostitutivi.
«Il regolamento dei
rapporti finanziari di cui all'art. 17 lettera b) della legge 16 maggio 1970,
n. 281, è stato effettuato contestualmente al decreto
del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 9».
(3) L'ultimo comma
dell'art. 118 Cost. stabilisce: «
(4) Di Mons. Gobbi ricordiamo
(5) Le frasi sono
riportate da Paese Sera del
17-7-1972.
(6) Ricordiamo che
l'art. 224 del R.D. 15 aprile 1926 n. 718 (Regolamento della legge istitutiva
dell'ONMI) stabilisce: «Sono vietate le punizioni corporali e quelle
consistenti nella privazione degli alimenti».
(7) Dalla relazione
del Ministero dell'interno sul bilancio dello Stato del 1969.
(8) ALAIN NOEL HENRI, L'evoluzione degli istituti per minori privi
di ambiente familiare normale nel suo contesto storico globale, in
«Prospettive assistenziali», n. 14, aprilegiugno
1971, pag. 20 e segg.
(9) Alla Populorum progressio n.
47 viene attribuita la lunga citazione sui nuovi
poveri, invece che alla lettera inviata dal Card. Villot
a nome del S. Padre in data 24-5-
(10) Il Card. Villot precisa il concetto di nuovi poveri come segue:
«Nelle società del benessere, la povertà (...) non è più soltanto quella del
denaro, ma anche la mancanza di salute, la solitudine affettiva, l'insuccesso
professionale, l'assenza di relazioni, gli handicaps
fisici e psichici, le miserie familiari o tutte le frustrazioni che provengono
da una impotenza a integrarsi nel gruppo umano più
prossimo».
(11) Dichiarazione di Mons. Fiordelli, Vescovo di
Prato, del 6-12-1968: «Svolsi sempre, senza la pretesa di esercitare diritti
che non avevo e pur non essendo al corrente di fatti
gravi di cui si è occupato il tribunale, insistenti interventi in via privata
presso i responsabili dell'opera» (da G. PERICO, I «Celestini» di Prato. Fatti e riflessioni, in «Aggiornamenti
sociali», n. 1, gennaio 1969, pag. 6). Testimoni hanno invece riferito
di aver segnalato più volte la situazione a Mons. Fiordelli.
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