Prospettive assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

NO DELLE ACLI ALLA COGESTIONE

 

I

 

(...) Ma c'è un problema che le ACLI ritengono nevralgico e che si po­ne, sia pure in modi diversi, a tutti i livelli: quello di un più diretto con­trollo sociale che dovrà essere realizzato mediante l'istituzione, a fianco delle gestioni tecnico-professionali, di appositi organismi a composizione democratica rappresentativa delle forze sociali (organizzazioni sindacali, associazioni dei lavoratori, degli utenti e delle categorie professionali in­teressate) ; organismi cui dovranno essere demandati compiti non solo consultivi, ma anche di controllo e di proposta vincolante.

La questione del controllo sociale, tuttavia, si pone come abbiamo vi­sto in modo veramente innovatore e politicamente assai importante, a li­vello di base. Ad avviso delle Acli (e si tratta di una proposta già formu­lata per le unità sanitarie locali) a questo livello dovrà essere prevista, ol­tre a quelle realizzate nel comitato delle forze sociali, una partecipazione diretta delle comunità di base, predisponendo con legge il diritto di rap­presentanti democraticamente designati dal basso di volta in volta, sui di­versi problemi e secondo procedure da stabilire, a farsi portavoce delle istanze espresse da assemblee e gruppi di cittadini presso gli organi di gestione tecnico-funzionale e politica previste per i servizi a livello com­prensoriale.

Si tratta di un obiettivo irrinunciabile in quanto è solo per suo trami­te che sarà possibile attivare processi di riappropriazione politica da par­te della base popolare operaia e contadina oggi costretta a ruoli del tutto marginali, e nel contempo sperimentare nuove procedure di pianificazione urbanistica e sociale.

Per quanto più direttamente riguarda il movimento operaio e i suoi al­leati nell'attuale situazione politica, questo obiettivo della partecipazione autogestita si rivela decisamente centrale, sia in questa fase in cui la ri­presa efficace dell'iniziativa sociale e politica dei lavoratori passa attra­verso una presa di coscienza quanto più generalizzata e mobilitante anche da parte di altri strati di cittadini oltre quelli operai, sia nella fase di at­tuazione in cui i momenti di inevitabile conflittualità tra base e strutture di gestione dei servizi saranno un permanente momento di controllo socia­le e di crescita culturale e politica.

 

II

 

Per il livello nazionale appare pacifico che l'amministrazione del fon­do sanitario nazionale e delle relative funzioni di programmazione e di in­tervento, debba avvenire con il concorso delle amministrazioni pubbliche (statali e regionali) interessate nonché dalle rappresentanze degli utenti; analogamente per il livello regionale, con i rappresentanti della regione debbono essere associati all'amministrazione quelli degli enti locali e de­gli utenti.

Sia per il livello nazionale che per quello regionale il controllo politi­co deve essere riservato alle assemblee rappresentative elettive (Parla­mento e Consigli regionali).

Per il livello locale, ed indipendentemente dalle soluzioni operative che potranno essere prescelte, si pone invece l'esigenza di creare un più ampio spazio di partecipazione democratica per i cittadini utenti anche in modo da coinvolgere ed attivizzare direttamente la responsabilità dei sin­goli e dei gruppi all'impegno della costruzione della salute e, in prospetti­va, della promozione della condizione umana nel territorio. Le scelte che saranno compiute al riguardo qualificheranno, o meno, la valenza democra­tica della riforma sanitaria.

Come tema di riflessione e di mobilitazione per un impegno da svi­luppare soprattutto a livello regionale, le Acli propongono, per la parteci­pazione democratica alla vita delle Unità Sanitarie locali (U.L.S.) :

- di distinguere la gestione dal controllo politico, affidando la prima ad organismi espressi dagli enti locali interessati ed il secondo ad organi­smi espressi direttamente dagli utenti;

- di qualificare il momento del controllo politico, superando lo sche­ma delle tradizionali attribuzioni consultive di regola affidate ai comitati rappresentativi ed assicurando invece aali organismi di controllo un am­bito di iniziativa e di proposta che risulti incisivo e condizionante.

La proposta delle Acli parte dal presupposto che ogni forma di coin­volgimento delle forze sociali alla questione di pubblici servizi - se scel­te - risulta sterile ai livelli in cui il compito di gestione si riduce all'am­ministrazione pura e semplice, nell'ambito di standard e di criteri prede­terminati, Può divenire anzi dannoso nella misura in cui tenta di coinvol­gere le espressioni locali delle forze sociali in una logica di mediazione che spegne ogni dialettica e paralizzi ogni positivo momento conflittuale. Di qui la necessità di una marcata separazione tra la funzione e gli orga­nismi della gestione e la funzione e gli organismi del controllo democrati­co, in modo che questi ultimi risultino, con mandato specifico, espressio­ne diretta delle comunità interessate.

L'ipotesi offerta al dibattito può essere così formulata:

a) la gestione della USL (amministrazione delle risorse, determina­zione dei rapporti con gli operatori, controllo tecnico, predisposizione dei preventivi e dei consuntivi, ecc.) è affidata ad organismi espressi dai con­sigli comunali competenti per il territorio. Tali organismi entrano in rap­porto con gli enti locali e le regioni secondo gli schemi dell'ordinamento amministrativo, anche per quel che riguarda il controllo di legittimità e di merito degli atti di gestione:

b) il controllo politico sull'attività delle USL è affidato a organismi (comitati di controllo sanitario) composti da cittadini eletti direttamente dalle popolazioni del territorio della USL contestualmente all'elezione di consigli comunali.

L'elezione avviene su una lista unificata in ordine alfabetico con pre­sentazione riservata a gruppi di cittadini, esclusione di simboli o altri ri­ferimenti di tipo politico partitico. Il comitato è integrato per un numero non superiore ad un terzo dei suoi componenti, da delegati di gruppi attivi di cittadini che vengono di volta in volta espressi con vincolo demandato, per la trattazione di problemi specifici, dalle assemblee di quartiere, di fabbrica, campagna ecc. e chiedono di partecipare al comitato, nel quale hanno diritto al voto limitatamente alla questione per la quale hanno rice­vuto il mandato.

Il comitato di controllo sanitario dovrebbe avere, salvo ulteriori spe­cificazioni, almeno le seguenti prerogative:

- promuovere indagini sulla validità dei servizi sanitari di base con facoltà di accesso ai singoli ai servizi stessi, nonché indagini sulle condi­zioni ambientali (città, fabbriche, ecc.) con obbligo per l'organismo di ge­stione di mettere a disposizione mezzi ed esperti per la loro effettuazione;

- chiamare a deporre su materie attinenti l'organizzazione e l'eroga­zione dei servizi i responsabili dei servizi stessi, sia amministrativi che sanitari;

- proporre all'organismo di gestione dell'USL misure atte ad adegua­re i servizi alle esigenze della popolazione; tali proposte debbono essere obbligatoriamente discusse; l'eventuale reiezione deve essere motivata, nonché rilasciare, a richiesta dell'organismo di gestione, parere su que­stioni specifiche; per alcune materie il parere deve essere obbligatorio; il mancato accoglimento va motivato;

- richiedere all'organismo di gestione riunioni congiunte per esami­nare i principali problemi della politica sanitaria locale;

- appellarsi alla regione, in caso di mancato accoglimento della proposta da parte dell'organismo di gestione della USL, con diritto ad es­sere ascoltato dall'organismo regionale.

 

(Da ACLI, Quaderni di azione sociale, n. 2-3, 1971, pag. 149 e 150 e n. 10-11, 1970, pag. 1381 e 1382).

 

 

IL SERVIZIO SOCIALE COME AGENTE DI CAMBIAMENTO SOCIALE

 

1) Il servizio sociale si è finora posto prevalenti compiti di tampona­mento, di riparazione, di aiuto alle persone. Gli è mancata la prospettiva del mutamento sociale, o quando tale prospettiva si è posta, lo ha fatto come problema astratto, senza approfondire le tappe operative attraverso le quali poter agire professionalmente in quella direzione. Si è posto spes­so degli obbiettivi astratti, senza la continua verifica dei metodi e delle tecniche usate in ordine al raggiungimento degli obbiettivi stessi.

A livello di diagnosi, e di conseguente piano di intervento, il servizio sociale si è per lo più limitato agli aspetti individuali o dell'ambiente limi­trofo, senza attenzione alle cause strutturali e sovrastrutturali.

2) Oggi il servizio deve proporsi di essere agente di cambiamento so­ciale - inteso come trasformazione complessiva e radicale della società - non nel senso che sia l'unico responsabile delle situazioni di mutamen­to della società, bensì ponendosi nella prospettiva del mutamento, e indi­viduando le strategie per operare in vista di esso.

Se il servizio sociale non si pone questo obbiettivo generale, decade dalla sua possibilità di vero aiuto alle persone.

Coerentemente al suo patrimonio di valori, il servizio sociale si pone come agente del mutamento non solo e non tanto a livello di strutture, ma di coscienza civile, di valori, volto a rimettere l'uomo al centro dei suoi atti, dei suoi bisogni.

3) Il servizio sociale si pone quindi come obbiettivo generale quello del mutamento sociale: tende in particolare a umanizzare il processo e il livello di soluzione dei bisogni; tende cioè non solo a liberare l'uomo dai bisogni ma a renderlo agente consapevole della sua stessa liberazione.

Ovviamente il momento umanizzante è comune a molte altre profes­sioni. Il servizio sociale può comunque trovarsi ad essere, in determinate condizioni, uno dei catalizzatori umani nella soluzione dei bisogni. Non so­lo: ma nella società squilibrata attuale con bisogni e gerarchie di bisogni «disumani», riflesso della cultura consumistico-capitalistica, il servizio sociale può dare un apporto all'umanizzazione dei bisogni cioè a un modo umano di concepire e vedere i bisogni stessi.

In linea generale, e con significato molto ampio, si può dire che i bi­sogni affrontati dal servizio sociale siano perciò i bisogni sociali con com­ponente umana, i bisogni cioè la cui soluzione richiede l'utilizzazione di risorse sia personali che ambientali.

Come obiettivo storico sembra che il servizio sociale possa porsi a quello dell'attuazione delle linee di tendenza della Costituzione (in parti­colare artt. 1 e 3) nei suoi sviluppi attuali, tesi alla programmazione di una politica sociale non sganciata dalla politica economica, nell'ambito del de­centramento e delle esigenze di democrazia sostanziale che vi sono im­plicite.

Il servizio sociale, nell'ambito di tale obiettivo, che è evidentemente a tempi lunghi e inoltre comune a molte forze sociali e ad altre professio­ni, può dare un apporto limitato, ma orientato.

Il servizio sociale, comunemente ad altre professioni, può agire nel senso di produrre trasformazioni organiche al mutamento, che si concre­tizzano in azioni parziali progressive.

Altre forze sociali (es. i sindacati) operano per il mutamento attac­cando direttamente le strutture economiche di potere. Il servizio sociale cerca di individuare tutti gli interlocutori reali di ogni problema, cercan­do - nel tendere a risolvere i problemi - quelle alleanze e quegli inter­venti diretti che servono. Di fatto, per molti problemi, uno degli interlocu­tori necessari è il potere politico-amministrativo. (Si è riscontrato che gli assistenti sociali hanno sempre considerato negativamente l'occuparsi di funzioni amministrative. Così finora negli enti vi sono da una parte gli am­ministrativi e dall'altra gli assistenti sociali. È l'amministrazione però che decide fini, mezzi, piani, controlli, uso dei soldi).

4) Precisando ulteriormente in che senso il servizio sociale può es­sere agente di mutamento sociale, si ritiene che lo sia prevalentemente nella linea della partecipazione e della consapevolezza. Il servizio sociale è agente di mutamento consapevole e partecipato, nel quadro di una poli­tica sociale volta al mutamento della società. L'approccio fondamentale è perciò con gli utenti.

Non si pone tanto come mediatore tra la classe dirigente e gli utenti, quando si affianca agli utenti e li aiuta, per la sua competenza specifica, in particolare per l'interpretazione culturale dei bisogni sociali. Questo pro­cesso di riappropriazione degli strumenti culturali da parte della popola­zione evita il compito di mediazione pura e semplice con il potere costitui­to che pure rimane una possibilità di intervento ponendosi per altro dalla parte della gente.

Interpretazione culturale a livello di base significa far emergere de­scrizioni corrette della realtà sociale, circolazione di informazioni le più complete possibili che siano occasioni serie per decidere, sollecitazioni di responsabilità collettive.

Molte volte nell'azione di lotta per il mutamento, le persone vengono strumentalizzate.

Vengono messe a nudo le contraddizioni, vengono negate le istituzio­ni, senza prevedere le situazioni intermedie delle persone. Nella critica al­le istituzioni, il servizio sociale è attento che, non prevedendo altre solu­zioni, non vengano strumentalizzati gli utenti; ma sollecita, promuove me­diante alleanze, soluzioni alternative, servizi aperti, risposte più rispetto­se dell'uomo. Contemporaneamente cioè, se nega delle istituzioni, pro­muove aiuti tecnico-professionali, naturalmente subordinati alla prospet­tiva sociale generale.

Si viene così precisando un ruolo politico-professionale del servizio sociale.

In vista degli obbiettivi da raggiungere, il servizio sociale deve cerca­re alleanze con altre forze sociali e altre professioni, cercando consensi in ordine alla soluzione dei bisogni reali.

5) Il servizio sociale può operare con tutti i cittadini. Di fatto però opera nella fascia dell'emarginazione, senza perdere di vista le cause ge­nerali dei bisogni, cioè non gestendo l'emarginazione come fatto settoria­le. Opera quindi (si parla sempre del modello alternativo) nella program­mazione e gestione dei servizi sociali, dove gli emarginati devono essere inseriti come tutti gli altri cittadini.

Utenti del servizio sociale sono dunque i singoli, i gruppi, le comuni­tà che si trovano nella fascia dell'emarginazione, i meno liberi, i privi di poteri, i condizionati da situazioni intrinseche o estrinseche, o coloro che potrebbero essere emarginati.

Sono compresi quei cittadini che sono soggetti a sfruttamento, subor­dinazione, discriminazione, sottosviluppo umano.

Oltre agli anziani, ai minori (abbandonati, orfani, devianti), agli amma­lati psichici, ai fisicamente non efficienti, ai «poveri» per cause sociali e culturali, vi sono condizioni di proletariato e sottoproletariato messe ai margini nella scuola, nelle abitazioni, nel lavoro, nell'emigrazione pendola­re e esterna, ecc.

Si allarga così lo spazio di intervento.

Se dunque sono gli emarginati gli utenti in senso stretto del servizio sociale, sono peraltro suoi interlocutori tutte quelle persone, istituzioni, forze sociali (amministratori, enti, sindacati, partiti, gruppi, membri della comunità ecc.), che possono e devono essere mobilitate a vantaggio e nel­lo interesse degli utenti, in una prospettiva e in una dimensione comunita­ria dei problemi dei gruppi più deboli.

6) Nel quadro di questo ruolo del servizio sociale, è necessario im­postare l'intervento come intervento globale e pluridirezionale, superando la settorialità e l'apriorismo delle singole tecniche, ponendosi come pro­fessione con competenze specifiche a servizio di persone, famiglie, grup­pi, comunità, considerati in tutta la concatenazione dei condizionamenti psicologici, sociologici, economici, politici, e stimolando tutte le potenzia­lità degli utenti.

Per fare ciò il servizio sociale si avvale di un metodo (che si realizza in continuo rapporto dialettico tra teoria e azione, come mediazione stori­ca tra valori e tecniche, e che si concretizza in una serie di operazioni e strategie diverse ma tra loro strettamente coordinate) e di tecniche in in­tervento.

L'itinerario metodologico si sposta da «studio-diagnosi-trattamento» a «valutazione del problema - della situazione - individuazione del pia­no di intervento».

7) Le tecniche sono mezzi da usare con soggetti umani, gruppi, co­munità, per attuare un intervento.

Poiché derivano dalla convergenza delle scienze umane e dalla fina­lizzazione che si vuol dare all'intervento, non sono agnostiche.

Possono essere usate al servizio del sistema o per umanizzare e libe­rare l'uomo. La scelta delle tecniche adatte all'intervento va fatta in base alle scienze umane e alla finalizzazione che se ne vuol fare.

Troppo spesso finora il servizio sociale ha usato tecniche «importa­te» passivamente, senza valutare le scienze di base e senza confrontarle con gli obbiettivi da raggiungere (es. studio-diagnosi-trattamento psicolo­gici per dare un sussidio).

8) Ci si è chiesti anche quali sono le teorie psicologiche e sociologi­che che sono state poste a fondamento delle tecniche di servizio sociale. Si è constatato, pur senza approfondire il problema, come il mettere alla base certe teorie ha portato a prospettive riduzionistiche dei rapporti tra persone. Ad es. l'aver messo alla base la teoria dei ruoli, ha portato a fa­re un'analisi apolitica, astorica, antipersonale. Si è fondato l'intervento sulle attese date dal ruolo che ha assunto valore di norma. Il servizio so­ciale si è fondato così su una ideologia integrazionistica e conservatrice che considera le contraddizioni come secondarie.

Gli assistenti sociali non hanno approfondito autonomamente il pro­blema delle teorie di base. Gli stessi insegnanti di servizio sociale non hanno avuto in generale la possibilità di elaborazione né a livello di teorie, né a livello di verifica professionale.

9) Naturalmente le tecniche che il servizio sociale usa non sono esclusive del servizio sociale perché altre professioni si fondano sulle stesse scienze umane e tendono a considerare l'uomo soggetto attivo.

Non sono dunque né il metodo né le tecniche che caratterizzano il ser­vizio sociale anche se è rilevante la scelta che finora è stata fatta spesso su basi scientifiche scorrette e finalizzate a strategie sbagliate) ma è l'am­bito d'intervento e l'obbiettivo da raggiungere.

10) Cercando ambiti propri di lavoro per il servizio sociale, si è sem­plificato situando il servizio sociale nell'unità locale dei servizi. Si è ac­cennato - senza peraltro approfondire il tema - al ruolo del servizio so­ciale di zona visto come un intervento globale; non solo lavoro di smista­mento e prima diagnosi ma lavoro promozionale, per la programmazione e per far partecipare gli utenti alla gestione dei servizi. Il servizio sociale dovrebbe captare le esigenze e proporle agli utenti, sollecitando le strut­ture.

Questo intervento, in prospettiva, è significativo perché l'unità loca­le non diventi solo decentramento e razionalizzazione dei servizi ma, co­me è auspicabile, occasione di partecipazione dei cittadini alla program­mazione e gestione dei servizi stessi.

Il servizio sociale deve però acquistare capacità di programmazione alternativa. Può affrontare i problemi individuali, ma deve prendere co­scienza se i problemi sono generali.

11) Si è compiuta una breve analisi delle tecniche di lavoro individua­le, di gruppo, di comunità. Si è detto che non è possibile definire a priori in quali settori di attività possono essere utilizzate le diverse tecniche; ciò dipende dai problemi e dalle situazioni.

12) Si è osservato che il servizio sociale individuale ha avuto un in­dirizzo prevalente psicoterapeutico; ora sembra prevalere invece quello educativo.

Prima era «liberazione dai condizionamenti» per l'adeguamento al ruolo e il buon funzionamento. Ora si deve tendere a «liberare le energie dell'uomo».

13) Anche per quanto riguarda il lavoro di gruppo, sembra superata la prospettiva del lavoro con finalità terapeutiche.

Il lavoro con i gruppi deve essere utilizzato nella linea della promo­zione e della presa di coscienza, per sviluppare una maggiore consapevolez­za di sé e delle risorse della comunità, il superamento di pregiudizi, ecc.

Ci si è chiesti che cosa dei contenuti di insegnamento di gruppo ser­ve per la nuova finalizzazione di maggiore consapevolezza e responsabi­lizzazione. Gli studenti dovrebbero aver modo di conoscere gruppi in situa­zioni che possono postulare l'intervento del servizio sociale e non gruppi artificiali.

14) Il lavoro di comunità è state in passato prevalentemente defina­lizzato. Oggi si può dire che non esiste il servizio sociale di comunità, ma una dimensione comunitaria del servizio sociale.

Nell'insegnamento di comunità si dovrebbe tendere a insegnare co­me sollecitare gli utenti: i problemi dei leaders, dei rapporti con Enti, dei comitati.

Ci si è chiesti qual è lo spazio del servizio sociale nelle tendenze di promozione sociale a livello comunitario. Ad es. si stanno ora promuoven­do le unità locali. Come può il servizio sociale inserirsi perché si passi da situazioni di decentramento a situazioni di partecipazione, per favorire so­lidarietà dal basso?

15) Riguardo all'amministrazione dei servizi sociali, la prospettiva è ovviamente di non identificarsi aprioristicamente con la politica degli en­ti. Più che accentuare il momento di traduzione della politica in servizi, oc­corre volgersi all'interpretazione dei bisogni per la modifica della politica. Sembra così importante non considerare l'ente fine a se stesso, ma inserirlo in una visione globale di intervento.

Alla formulazione della politica degli enti dovrebbero partecipare il personale e gli utenti stessi, con uno sviluppo della dimensione orizzonta­le nel processo amministrativo.

 

(Dal Seminario della FONDAZIONE ZANCAN, Strumenti operativi del servizio sociale, analisi critica e prospettive, Molosco, settembre 1971).

 

 

UNA SCELTA DI POLITICA ASSISTENZIALE A REGGIO EMILIA

 

Per un modo diverso di intendere l'assistenza psichiatrica

Il primo problema che emerge quasi sempre è quello della richiesta di un intervento prettamente medico, con difficoltà a superare un concetto di «malattia» esclusivamente individuale e di tipo organico. L'intervento del Servizio tende allora a fare riemergere le contraddizioni reali che so­no all'origine dello stato di sofferenza della persona, e a scardinare il con­cetto individualistico della situazione di disagio e di malattia mentale. Di qui la scelta dell'ambulatorio di gruppo e degli interventi a carattere col­lettivo: nell'ambulatorio, tutte le persone che fanno richiesta di interven­to si ritrovano insieme, con la partecipazione di un medico e di un altro membro dell'equipe, e discutono in maniera libera dei problemi che le affliggono. All'interno della discussione di gruppo accade che le persone si rendano conto che la loro sofferenza non è individuale: il marchio deri­vante dai ricoveri subiti, la difficoltà a trovare lavoro e la discriminazione all'interno della famiglia, i sintomi di sofferenza, sono problemi che cerca­no un primo significato nella verifica della loro portata collettiva. La di­scussione di gruppo facilita la presa di coscienza di tutto ciò che sta die­tro l'«esaurimento»: emergono non di rado temi strettamente politici. Al di fuori dell'ambulatorio, quando la discussione di gruppo venga fatta nel­la famiglia e con i vicini, o (in diversi casi) nella fabbrica stessa con il pa­ziente e i suoi compagni di lavoro, la tematica sociale si lega ancora più strettamente alle necessità di aiuto concreto verso chi è sofferente o po­ne agli altri dei problemi.

Più in generale, l'assistenza si pone quindi come superamento del rapporto tradizionale medico-paziente, attraverso una presa di coscienza che colloca in primo piano l'analisi delle contraddizioni vissute dalla per­sona e la ricostruzione della sua storia. Quest'ultima viene vista nel qua­dro del contesto sociale più vasto, secondo modi e metodi che, rifiutando il principale obiettivo «scientifico» della psichiatria tradizionale (che è sostanzialmente quello di definire e catalogare dei sintomi) gli sostitui­scono un rapporto dialettico di comprensione e di confronto, nel quale il malato può al limite conservare il suo carattere contraddittorio come la realtà lo conserva agli occhi del malato.

Obiettivo di questa azione non è quello di recuperare a un livello di apparente razionalità e normalità chi corre il rischio di essere bollato, o è già stato bollato, come anormale; bensì quello di portare a coscienza nell'individuo e nel gruppo le contraddizioni inerenti al contesto sociale in cui il disturbo mentale si sviluppa, in modo che si riesca a individuarle, dialettizzarle e affrontarle, senza essere travolti dall'ansia e dalla soffe­renza, ma dominando il più possibile i sintomi e mettendo in atto una se­rie di difese. In questo senso il momento assistenziale si innesta e si in­terseca con quello preventivo.

Socializzazione dell'assistenza significa dunque in primo luogo coin­volgere il più possibile, e ogni volta che sia possibile, i parenti dell'assi­stito, i vicini, i compagni di lavoro, le strutture politiche e civili di base. Nelle riunioni di caseggiato, di quartiere, di reparto di fabbrica, di vicinato, in cui si discutono, sempre con il consenso dell'interessato e spesso in sua presenza, i problemi sollevati dalla sua sofferenza e dal suo «disa­dattamento», lo scopo che si vuole raggiungere non è quello di chiedere l'aiuto di tutti: è invece quello di capire, insieme, come mai una certa per­sona è stata oppressa ed esclusa, quale tipo di sofferenza può avere, qua­li siano le responsabilità, quali misure si possano mettere in opera per ri­solvere una situazione di crisi non solo individuale, e quali problemi ri­chiedano invece mutamenti sociali più radicali. Non ovunque tali problemi più generali sono gli stessi: in montagna è la situazione economica, lo spo­polamento, la solitudine, la disperazione di chi vive in miseria; altrove po­tranno essere i ritmi nella fabbrica, le contraddizioni portate nelle famiglie dal lavoro a domicilio, e così di seguito. Al di là dell'ovvio rifiuto dell'at­teggiamento più ingenuo, che consiste nel colpevolizzare i parenti e i vi­cini perché si riprendano l'ammalato che sta per uscire dal manicomio, c'è qui il grosso pericolo di un appello coscienzialistico, interclassista e co­munitario alla tolleranza nei confronti del deviante: ma quando il discorso riesce a farsi (senza indottrinamenti) politico, allora anche la solidarietà dei vicini acquista un più maturo significato, e l'atteggiamento verso l'assi­stito diviene più corretto e responsabile nella misura in cui partecipa a un processo di riflessione, di maturazione e di iniziativa del gruppo sulla sua propria collocazione sociale.

 

Le responsabilità degli operatori

Tutto ciò non significa affatto che la responsabilità diretta degli ope­ratori psichiatrici diminuisca, e possa essere delegata quindi alla comu­nità: questa responsabilità in parte anzi aumenta, anche se molto spesso la giusta esigenza di «depsichiatrizzare» il caso dell'assistito si traduce in un aiuto così efficace da parte dei vicini e compagni da non richiedere più un intervento diretto e continuativo da parte degli operatori.

La responsabilità degli operatori aumenta per vari motivi. In primo luogo, è chiaramente non corretto pretendere che i parenti e magari i vi­cini si trasformino in infermieri volontari, che alternando blandizie, sor­veglianza, minacce e iniezioni di sedativi, provvedano a «tener buono» il paziente psicotico; l'emergenza inevitabile di vecchie aggressività contri­buisce a trasformare inevitabilmente questo tentativo in una manicomia­lizzazione di tutto il gruppo. In secondo luogo, gli operatori psichiatrici non possono sottrarsi alla loro responsabilità, e devono sforzarsi di essere i primi a essere disponibili. Questo è un punto a cui si è sempre dato mol­ta importanza: senza un rapporto corretto verso i bisogni della popolazio­ne non è possibile né giusto lavorare: e questo rapporto implica in primo luogo una scelta politico-sociale, e quindi una disponibilità non strumenta­le verso gli assistiti, caratterizzata da una ricerca di quella sollecitudine, serietà e modestia che mancano troppo spesso nelle strutture pubbliche sanitarie e assistenziali. Il fatto che si sia riusciti ad assistere in modo efficace centinaia di pazienti che altrimenti sarebbero stati sicuramente ricoverati, e a ricorrere solo in rarissimi casi al ricovero psichiatrico (in altri casi, è stato invece utile il ricovero in ospedale civile, mutua permet­tendo) dimostra l'operatività di questo atteggiamento. Analoghe conside­razioni varrebbero per i casi in cui si è ritenuto giusto fare (per brevissi­mi periodi) una «ospedalizzazione a domicilio», cioè una assistenza psi­chiatrica intensiva 24 ore su 24.

 

(Da AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI REGGIO EMILIA, Documenti di una espe­rienza psichiatrica, febbraio 1972.

 

 

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