Prospettive
assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972
NOTIZIARIO DEL CENTRO
ITALIANO PER L'ADOZIONE INTERNAZIONALE
Il 19 marzo scorso, a Milano, il
Centro italiano per l'adozione internazionale (CIAI) ha discusso e approvato,
nel corso di un'assemblea, importanti modifiche allo
statuto. L'assemblea era stata preparata con un sondaggio d'opinione non limitato
ai soci ma esteso a tutte le famiglie che hanno
adottato un bambino asiatico con la collaborazione del Centro. Compiuto per
corrispondenza e tramite un questionario, il sondaggio intendeva appuntare
quale fosse l'orientamento delle famiglie sulla base
dell'esperienza compiuta. In sostanza chiedeva loro: 1) se si
ritenessero opportuno un ampliamento delle attività del CIAI; 2) se fossero
favorevoli a un ruolo più attivo del CIAI in direzione politico-sociale.
La grande
maggioranza degli interpellati ha risposto e, sulla base delle proposte
suggerite, un gruppo di soci di Milano ha riformulato gli scopi del Centro, ne
ha spedito il testo a tutti gli interessati e lo ha proposto all'assemblea, cui
hanno presenziato 54 soci effettivi su 78. Dopo un dibattito approfondito e la
votazione di emendamenti intesi a meglio precisare le
finalità del Centro, l'assemblea ha approvato alla quasi unanimità l'articolo
2 del nuovo Statuto, che esprime appunto gli scopi dell'associazione. Ne
riproduciamo il testo, raffrontandolo con quello precedente:
NUOVO STATUTO |
VECCHIO STATUTO |
Il C.I.A.I.,
proponendosi di contribuire con una sua peculiare riflessione e azione al
superamento di realtà discriminatorie ed emarginanti, si impegna a: |
Scopi del C.I.A.I. sono: |
a) sensibilizzare opinione pubblica, operatori sociali e
autorità, in Italia e all'estero, sulla insostituibilità
della famiglia per il bambino e sulle deleterie conseguenze del suo ricovero
in istituto. |
- sensibilizzare opinione pubblica, operatori sociali ed
autorità in Italia e all'estero, sulla insostituibilità
della famiglia per il bambino; |
b) affermare che il fine essenziale dell'adozione è quello
di dare una famiglia ai bambini che ne sono privi,
superando ogni pregiudizio derivante dalla diversità dell'origine etnica e
geografica, dell'aspetto fisico, della religione, della casta o classe
sociale, delle circostanze in cui sono nati, dei costumi e delle tradizioni,
in tal modo sostenendo il valore essenziale della paternità sociale anche nei
confronti della generazione biologica e del vincolo di sangue. |
- affermare che il fine essenziale dell'adozione è quello
di dare una famiglia ai bambini che ne sono privi, in qualsiasi parte del
mondo essi si trovino; |
c) collaborare con quanti si propongono, nei paesi di origine dei bambini, di individuare, denunciare e
rimuovere le cause che sono alla radice del fenomeno dell'abbandono,
considerato come ingiustizia sociale. |
|
d) studiare situazioni di abbandono
di minori nei paesi dove si verificano e promuovere, nei Paesi stessi, ogni
attività diretta all'adozione e ad altre forme di intervento partecipato,
secondo il principio del minimo isolamento e del massimo di socializzazione. |
- studiare situazioni di abbandono di minori nei paesi
dove si verificano e promuovere ogni attività
diretta all'adozione dei bambini nei paesi stessi; |
e) affiancare lo sforzo di quanti si adoperano per
ottenere, mediante una Convenzione mondiale, una legislazione che regoli e tuteli
l'adozione secondo principi uniformi. |
|
f) raccogliere e diffondere documentazioni su esperienze di adozioni internazionali e interrazziali. |
- raccogliere documentazione su esperienze di adozioni internazionali e interrazziali; |
g) promuovere, in Italia, ogni attività diretta a
realizzare e agevolare l'adozione di bambini in stato di abbandono
provenienti da altri paesi. |
|
h) favorire scambi di esperienze
fra le famiglie che hanno adottato bambini di altri Paesi, aiutarle e
sostenerle nel loro compito e stimolare il loro ruolo attivo nell'ambito
della società. |
|
i) svolgere inchieste e incoraggiare studi allo scopo di
abbattere ogni forma di pregiudizio razziale esistente in Italia e in altri
paesi e promuovere ogni iniziativa idonea a prevenire, individuare e
rimuovere tale pregiudizio alle sue origini, che sono principalmente la
famiglia, la scuola, i mezzi di comunicazione di
massa e i modelli culturali di comportamento. |
- promuovere ogni attività diretta a realizzare l'adozione
di bambini stranieri in stato di abbandono da parte
di famiglie italiane. |
Qual è, in
sintesi, il significato di questi mutamenti apportati allo statuto del
Centro? In primo luogo, accogliendo l'orientamento espresso da circa l'80 per
cento delle famiglie interpellate prima dell'assemblea, si è voluto dare un
senso più incisivo ed esplicito agli scopi sociali del Centro che non ha mai
inteso né intende considerarsi o configurarsi come agenzia di
adozioni. Ma uno statuto non rimarrebbe altro che un pezzo di carta se
non rispecchiasse una crescita, nel senso di una maggiore presa di coscienza,
da parte dei soci, i quali si sono resi conto che non basta un attivismo generico ma occorre un'operatività chiaramente finalizzata.
«Fare» non è importante, è importante «che cosa fare»
e «perché fare».
Adottare un bambino di altro Paese è stato, per coloro che hanno compiuto questa
scelta, prima di tutto una rigenerazione responsabile in cui si è manifestata,
come in ogni atto procreativo, la comunione della coppia, (quindi un'esperienza
di valore incalcolabile a livello psicologico), ma per la maggioranza
l'adozione è stata anche l'occasione per riscoprire ruoli e responsabilità non
solo nei confronti del proprio nucleo familiare ma anche nell'ambito più vasto
della comunità di cui la famiglia è solo una cellula e della comunità
d'origine del bambino.
Siamo soliti dire
che, dal punto di vista psicologico, l'adozione non può mai essere a senso
unico. L'adulto accoglie il bambino che non ha procreato e lo fa suo figlio, ma
il bambino che entra nella vita di chi non lo ha
concepito ha, a sua volta, il diritto di accettare o respingere l'adulto che
gli si propone come padre o come madre. Se ciò è vero, se è vero che, a livello
psicologico, non basta adottare ma occorre altresì
farsi adottare, la reciprocità si propone anche a livello sociologico.
Quando uno di questi «cuccioli di
sciacallo» come li chiamano in India, diventa parte
della nostra famiglia - generalmente borghese e benestante - non possiamo
dire «Un bambino ieri sfortunato oggi è diventato un bambino fortunato»,
perché l'adozione è il coinvolgimento di due vite, anzi di due
condizioni di vita. Se non siamo superficiali, non possiamo nasconderci che il
mondo e l'ambiente ai quali apparteniamo e quelli dai
quali provengono i nostri figli asiatici si collocano oggi frontalmente, come
su lati opposti di una barricata: di qui l'area del benessere e dello
sfruttamento, di là il mondo degli affamati e degli spogliati. Fatta questa
constatazione, l'adozione di un bambino «diverso» per l'aspetto fisico e il
gruppo etnico, non deve assumere il significato di un involontario rito
cannibalesco, nel senso di catturare vivo un avversario, appropriarsene, farne
un prigioniero di lusso e sacrificarlo spogliandolo di ogni
identità. Inconscia eliminazione di un avversario e
inconscia affermazione di superiorità razziale e culturale.
Molti di noi si sono chiesti se
l'iniziativa del CIAI, pur strappando alcune creature da una condizione di
semplice sopravvivenza in istituto non rischi di ridursi a
un'attività assistenziale, costituendo così un alibi sia per chi adotta, sia
per a società opulenta che accoglie questi bambini. Molti di noi si sono
chiesti se l'adozione interrazziale non rischi di
allontanare nel tempo soluzioni politiche più radicati ma in definitiva migliori.
La risposta è che un reale inserimento vitale di molti bambini nel loro Paese
d'origine verrebbe dopo evoluzioni sociali talmente lente che, nel frattempo,
intere generazioni sarebbero generazioni di sradicati
all'interno della loro stessa famiglia umana più naturale. L'iniziativa tuttavia
è valida nella misura in cui diventa, qui e là, anche una provocazione
politica. La presenza di figli così «diversi» che domani potrebbero essere i
nostri accusatori è forse la premessa a quel
contributo rivoluzionario - una diversa divisione dei pesi, dei beni, del
potere - che l'umanità si attende da ciascuno di noi.
ENRICO FORNI
www.fondazionepromozionesociale.it