Prospettive
assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972
PROPOSTE DI LEGGE
NORME
PER
PROPOSTA DI LEGGE N. 1060 PRESENTATA
ALLA CAMERA DEI DEPUTATI IL 26-10-1972 DALL'ON. SERONI
E DA ALTRI PARLAMENTARI DEL P.C.I.
Relazione
Onorevoli
Colleghi! - Già
nelle precedenti legislature e particolarmente nella IV
e nella V vennero presentate numerose proposte di legge che, con intenti
diversi, secondo angolazioni più generali o parziali, affrontavano il problema
dei minori handicappati.
Tuttavia, la diversità delle
soluzioni suggerite e delle loro premesse culturali e sociali, non le sottraeva
a una sorte comune: nessuna di esse è giunta né alla
discussione, né all'approvazione del Parlamento.
Il fatto è lungi dall'essere
casuale, o tecnico, o «di tempi»: la sorte delle proposte di legge, la mancata risposta a un dramma che assilla tante famiglie (e
che sovente esplode nella sua tragicità fin sulle pagine della cronaca nera)
sembrano di fatto esprimere al massimo grado lo storico e colpevole ritardo
dello Stato italiano sull'intero arco dei problemi assistenziali e sanitari: e
il guasto prodotto da una politica più sensibile alle sollecitazioni della
selva di enti pubblici e privati (di cui troppi impegnati piuttosto per la loro
sopravvivenza che per il bene della collettività) che non alle richieste di
rinnovamento e di riforma che, anche in questi campi, sono venute maturando
nella società italiana.
Ritardo storico: che oggi diviene
sempre più insostenibile, in quanto entra in profondo contrasto col maturare
nel paese di una serie di dati e di consapevolezze nuove: da un lato infatti gruppi sempre più larghi di genitori, di famiglie
di fanciulli handicappati sono andati assumendo nuovi atteggiamenti e
iniziative, costituendo associazioni il cui valore morale e civile è di tutta
evidenza; promuovendo, in carenza di iniziativa pubblica, interventi assistenziali
e sanitari. All'antico accasciamento e persino al pudore della propria
sventura, subentra oggi una volontà nuova di iniziativa,
di lotta per garantire alla propria creatura il diritto alla cura,
all'assistenza, alla riabilitazione, al massimo inserimento nella vita sociale.
E d'altro canto ancora nel corso di questi anni, come testimonia l'amplissima
pubblicistica sulla materia, lo stesso dibattito in campo
medico e scientifico si è andato sviluppando e arricchendo: e ciò non solo in
rapporto alle sperimentazioni, che testimoniano quanto siano ampie, a
condizioni date, le possibilità di riabilitazione del minore ma anche nel
quadro di un più generale dibattito ideale, di una crescita di consapevolezza
del valore rappresentato da ogni essere umano, a prescindere dalle sue capacità
produttive.
È dunque il dramma di tanti fanciulli e giovani e delle loro famiglie, ma è anche questa
crescita di coscienza dell'opinione pubblica; sono gli sviluppi del dibattito e
della ricerca scientifica a rendere oggi inderogabile una politica nuova dello
Stato italiano nei confronti dei minori handicappati: tale per i suoi nuovi
orientamenti, e per i mezzi messi a disposizione, da confrontarsi davvero con
tutte le implicazioni umane e sociali che fanno di questo problema questione
emergente.
L'entità del problema
Ci si è posti da più parti la
domanda su quanti siano in Italia i minori colpiti da handicap: e sono divenute di fatto un
comune punto di riferimento le cifre a suo tempo fornite al 20 Congresso
italiano di medicina forense del 1962. Non vi è dubbio che la messa in evidenza
di quei dati, tesi a testimoniare non l'esiguità, ma l'ampiezza del fenomeno,
abbia in qualche modo contribuito a gettare allarme nell'opinione pubblica, a
sensibilizzarla di fronte a un grave problema sociale.
Ci sia tuttavia consentito rifiutare
in linea di metodo qualsiasi approccio anche statistico al problema che ci interessa, che tenda in qualche modo a unificare, e omogeneizzare
una enorme varietà di condizioni, di esigenze, di cause nel comune termine di handicap. La mancanza delle necessarie
distinzioni fra le cause, e soprattutto fra quelle sociali e le altre:
l'insufficiente apprezzamento delle differenze tra fenomeni di disadattamento
sociale e handicap, e fra i vari
gradi dell'handicap, possono, al limite, al di là di ogni positiva intenzione,
favorire anziché combattere quella linea di intervento che è stata ed è propria
dello Stato italiano, sollecitarne una espansione quantitativa anziché il
necessario mutamento di qualità.
Ma di che linea si tratta? Nulla crediamo può testimoniarlo meglio della politica scolastica
sin qui seguita. Il passato decennio, come testimoniano le cifre in nota (1),
si caratterizza per una moltiplicazione delle classi differenziali e delle
scuole speciali e degli alunni in esse ospitati. Di
fronte a un rapporto del fanciullo con la scuola
fattosi in generale più complesso; di fronte a giganteschi fenomeni che hanno
sconvolto il paese (si pensi all'urbanesimo e alla migrazione interna) e che
hanno avuto ripercussioni indubbie anche sulla psiche dei fanciulli, sul loro
rapporto con l'ambiente e la società, si è risposto con una operazione
massiccia di emarginazione, di segregazione, spesso basata su selezioni
arbitrarie e infondate: gli stessi meccanismi di intervento sul piano psicopedagogico, funzionalizzati
alla apertura di nuove classi differenziali, hanno finito di fatto col
moltiplicare queste tendenze.
Non meno gravi e indicativi sono i
dati emergenti dagli interventi a carattere assistenziale
e sanitario: la miriade di enti anarchicamente
operanti in questo campo, e fortemente finalizzati alla propria sopravvivenza,
secondo una logica incrementata dai sistema delle «rette»: il vuoto politico e
legislativo dello Stato di fronte alla domanda di soluzioni nuove lasciano in
vigore in questo campo meccanismi su cui vale la pena di compiere una seria
riflessione. La famiglia di fatto viene posta di
fronte a una drastica scelta: o accollarsi pressoché totalmente l'onere, col
suo pesantissimo costo, umano, sociale, economico dell'assistenza, della
riabilitazione del minore handicappato: o accedere alla sua
«istituzionalizzazione»: quella istituzionalizzazione che troppo spesso
aggrava l'handicap, accentua tutto quello
che rende il fanciullo «diverso» e lo condanna alla irrecuperabilità.
La realtà quotidiana testimonia ogni
giorno la drammaticità di questa scelta. Da un lato
troppe famiglie sono nella impossibilità materiale di
fornire al proprio bambino l'assistenza necessaria e le necessarie cure di
riabilitazione, e vengono condannate a vederlo vegetare, a saperlo privo di un
intervento che potrebbe riavvicinarlo alla normalità. Dall'altro sta la realtà
spesso tragica che nel corso di questi anni è venuta, nel corso di traumatici
scandali, largamente in luce: quella dello stato di abbandono,
di incuria, e persino i maltrattamenti e le sevizie cui sono sottoposti i
bambini in troppi istituti.
È singolare che in un paese come il
nostro, ove da parte del partito di maggioranza relativa si è andati nel corso
degli anni spendendo tante parole circa il valore della famiglia,
della sua unità, dei rapporti che in essa si stabiliscono, viga di fatto in
questo, come in altri campi, una politica (si pensi al problema in esame, e si
pensi a quello degli anziani) che continuamente impone una alternativa: o la
soluzione meramente privatistica, nella famiglia, di
gravissimi problemi sociali: o un intervento che divide l'individuo dalla
famiglia, istituzionalizzandolo, ed isolandolo dal contesto sociale.
Questa politica
non solo
profondamente contrasta con i più generali punti di approdo del pensiero medico
e scientifico moderno: ma anche con gli orientamenti ideali che in varie sedi
e momenti sono stati affermati dallo stesso pensiero cattolico su tale ordine
di problemi. Ci riferiamo in tal senso alle
conclusioni cui giungeva nel 1963 il Congresso mondiale sui diritti del
fanciullo e a quelle della Conferenza di esperti su «La integrazione
sociale, professionale, ecclesiale dell'insufficiente mentale» del 1965 ambedue
promossi dall'Ufficio internazionale cattolico per l'infanzia. Nessuno
d'altronde può pensare che gli interventi previsti dalla legge n. 118 per
alcune categorie di handicappati, a parte il loro grado di applicazione,
siano valsi a cambiare le connotazioni di un meccanismo che resta quello sopra
indicato.
Il problema è dunque da affrontare in toto, ed
esige un confronto fecondo di quanto, pur partendo da diverse motivazioni
ideali, si è venuto elaborando nel corso di questi anni, sia in Italia sia in
sedi internazionali. Tanto più ci sembra perciò necessario porsi
pregiudizialmente un interrogativo circa la sua reale consistenza e natura.
Sarebbe del tutto illusorio, ci
sembra, sfuggire l'estrema ampiezza della sua
dimensione umana e sociale, e l'impossibilità di una sua totale soluzione
mediante politiche puramente settoriali.
Rimuovere le cause sociali degli handicap (intendendo con esse quelle di natura prettamente economica e quelle,
complesse, derivanti dagli sviluppi contraddittori della nostra società) già
sposta il discorso oltre i limiti di qualsiasi politica di settore: e
d'altronde anche per quanto riguarda gli handicap
di origine più propriamente biologica il vasto tema della prevenzione induce
esigenze del tutto nuove per ciò che riguarda la salute dei genitori, la
maternità, il loro rapporto con la società, il lavoro, l'ambiente: d'altro
canto è nostra convinzione che un impegno pieno per il massimo di
riabilitazione e di recupero del minore handicappato trovi il suo quadro
logico e necessario solo in una politica che abbia al suo centro l'uomo, indipendentemente
dalle sue maggiori o minori capacità di produrre: postula una società dunque
che abbia una scala di valori e di punti di riferimento profondamente diversa
rispetto a quella attuale.
Di qui, dalla coscienza di queste
interrelazioni fra il problema che ci sta di fronte e l'affermarsi in generale
di nuovi indirizzi e valori, viene suggerito a noi, e
ci auguriamo sia stimolato in altri gruppi, il massimo apprezzamento del
valore «generale» di una politica che si avvii in questo campo: giacché operando
per dare risposte valide ai problemi dei minori handicappati, si fornisce di
fatto un contributo alla più generale riforma della società: si opera non solo
per rispondere al dramma e alle difficoltà di alcuni, ma anche per imprimere un
segno nuovo, nei fatti e nelle idee, all'intero corpo sociale.
Sembra a noi del resto che un simile
ordine di riflessioni, e di conseguenti decisioni pratiche, derivi nettamente
dalla stessa norma costituzionale. Se è vero che quanto in essa
è previsto dagli articoli 4, 31, 32, 38, indica precisi doveri dello Stato
anche per quanto attiene al problema che abbiamo di fronte: particolarmente
significativo ci sembra l'articolo 3: là dove si indica come compito della
Repubblica «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando
di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
alla organizzazione politica, economica e sociale del paese».
È chiaro che ogni tentativo di
meccanica e formale trasposizione della norma sopra indicata al campo che ci interessa sarebbe in qualche modo artificioso: e
tuttavia in quella norma è implicito un rifiuto al cristallizzarsi di ogni
categoria di esclusi, un impegno a continuamente attivare meccanismi di reale
eguaglianza e partecipazione, che in qualche modo illuminano anche il nostro
discorso.
Anche di qui dunque noi deriviamo
l'esigenza di fondo che è al centro della nostra
proposta: da un lato il rifiuto netto di ogni politica che tenda a emarginare
dalla società, dalla famiglia, dalla scuola il minore handicappato: dall'altro
il massimo dell'impegno per garantirgli il massimo di riabilitazione, di
capacità di miglioramento e di sviluppo, di partecipazione sociale. Conseguono
da questo orientamento, e dalle stesse esperienze compiute nel nostro paese,
alcune derivazioni di fondo di natura pratica. Di
fatto tutte le tesi secondo cui la «istituzionalizzazione»,
la «segregazione» del fanciullo serviva a garantirgli nel lungo periodo un
inserimento sociale in condizioni più vantaggiose sono miseramente fallite: di
fatto le iniziative segreganti, la pratica degli istituti si è manifestata lo
strumento più acconcio per consolidare una condizione di «subnormale», e non
di rado per aggravarla: per questo ci sembra che il problema della
«partecipazione» del fanciullo handicappato alla normale vita sociale debba
essere inteso non solo come un obbiettivo, ma come un mezzo della sua stessa
riabilitazione e recupero. Affermiamo questo
d'altronde con una precisa avvertenza. Ci sembrano da respingere quelle tesi per cui la fine della istituzionalizzazione, e la
partecipazione alla vita sociale (scuola, famiglia, ecc.) sarebbero di per sé
sufficienti a risolvere l'arduo problema che ci sta di fronte: se ciò può
essere vero in alcuni casi, non lo è certo per altri. In realtà il compito che
sta di fronte allo Stato, il più impegnativo sotto il profilo politico e
sociale è quello di garantire gli interventi che mettano in grado la scuola, la
famiglia, la società di accogliere il bambino e di aiutarlo a superare il suo handicap; è di concretamente operare,
perché qualunque sia il suo punto di partenza, esso possa affermare ogni sua
possibilità di sviluppo.
Sulla base di tali premesse la presente proposta
di legge ha caratteristiche e mira a obbiettivi che intendiamo rapidamente
illustrare.
È fuori di dubbio che la soluzione ottimale ed organica del problema che ci interessa
abbia il suo quadro necessario in una compiuta riforma dell'intero sistema
assistenziale e sanitario: di qui la stretta connessione fra quanto qui
veniamo proponendo e le linee di riforma da noi più generalmente formulate e
sul terreno legislativo e su quello politico.
È d'altronde evidente che le stesse
implicazioni di riforma che scaturiscono dagli
aspetti scolastici del problema in oggetto (abolizione delle classi
differenziali; superamento delle scuole speciali per dare luogo, ove necessario,
a classi speciali nell'ambito della scuola normale e per assicurare comunque ai
fanciulli la massima partecipazione alla vita della normale comunità
scolastica) comportano iniziative anche legislative i cui tempi e modi di
determinazione abbiamo voluto precisare nell'articolo 6.
La presente proposta di legge è
guidata da un intendimento di fondo: stimolare
l'avvio di una politica nuova, alla cui determinazione, nel quadro di alcuni
comuni orientamenti di fondo, si impegnino al massimo le energie delle
Regioni, gli enti locali, le forze operanti nel campo sanitario,
assistenziale, scolastico, le popolazioni interessate. In questa direzione due
cose ci sono parse essenziali. Anzitutto fissare alcuni orientamenti
generalissimi secondo cui deve svilupparsi l'iniziativa delle Regioni, cui con
i recenti decreti (pure con le gravi limitazioni più volte denunciate e che debbono rapidamente essere superate) sono state trasferite
le funzioni statali in materia assistenziale e sanitaria: il carattere «di
principio» che questa parte della proposta assume muove non solo da considerazioni
più generali di carattere istituzionale, dal fermo rispetto dell'autonomia
delle Regioni: ma si fonda anche sulla consapevolezza che in una materia così
delicata e complessa come quella in oggetto, così gravata dalle pesanti
ipoteche del passato, solo il più largo, democratico e articolato impegno di
confronto, di ricerca, di impegnata e attenta sperimentazione possa davvero
determinare la svolta necessaria sul piano delle cose e su quello degli
orientamenti.
Ci è parso dunque giusto limitarci a
fissare oltre che il carattere di servizio sociale di interesse pubblico che la
prevenzione, la cura e la riabilitazione rivestono, a indicare sia le finalità
e gli orientamenti generali da perseguire, sia alcuni indirizzi fondamentali
della attività regionale e degli enti locali precisando anche qui la esigenza
di una iniziativa tesa a mobilitare e coinvolgere il massimo di energie.
La seconda esigenza che abbiamo
avvertito è quella di assicurare alle regioni e ai comuni mezzi adeguati a
garantire l'avvio di interventi pubblici, tali da
rispondere alle più urgenti necessità.
In tal senso la proposta prevede la istituzione nel corso di un triennio e il finanziamento
statale di 300 unità di riabilitazione, con le caratteristiche e finalità
indicate all'articolo 3. Nel formulare questa proposta abbiamo tenuto conto
di molteplici esigenze. Anzitutto abbiamo voluto configurare le unità di
riabilitazione come un servizio aperto, capace di prestazioni ambulatoriali e extrambulatoriali, nella
scuola, nella famiglia, nella società che abbia capacità per livello
assistenziale e sanitario, per preparazione e competenza del personale, per
adeguatezza delle attrezzature, per carattere democratico, di esercitare non
solo un prezioso intervento diretto, ma una funzione di stimolo e di promozione
qualitativa nell'intero settore.
Abbiamo d'altronde avvertita l'esigenza di fornire adeguate cure e assistenza
ai soggetti particolarmente gravi, cui, per le loro condizioni, non siano
sufficienti né interventi ambulatoriali né extrambulatoriali,
e che hanno necessità di terapie e assistenza del tutto particolari: per essi
è previsto che la unità di riabilitazione possa fornire una ospitalità a
carattere diurno in servizi riabilitativi e educativi che siano il più possibile
immessi in contesti di collettività infantili (asili nido, scuole materne,
scuole dell'obbligo) .
Non può sfuggire tuttavia la
necessità della massima vigilanza perché tale tipo di assistenza
intervenga solo in casi rigorosamente circoscritti: per questo abbiamo voluto
precisare le caratteristiche dei fanciulli che in quanto tali possono essere
anche in questa forma assistiti, escludendone invece tutti gli altri; e
comunque garantendo anche in questo caso il massimo possibile di rapporto con
le famiglie, la società, le normali collettività infantili.
Il carattere comunale della gestione
(affidata ai comuni singoli o associati) vuole d'altronde garantire non solo
il carattere democratico della istituzione, ma al
tempo stesso le condizioni ottimali anche per il loro necessario coordinamento
nelle future strutture di base democratiche del sistema sanitario e
assistenziale.
Il complesso della proposta si
configura dunque, tenendo fortemente conto delle novità introdotte nel sistema
statale italiano dalle regioni, nonché dell'esigenza
di una sperimentazione che mobiliti al massimo le stesse forze culturali, non
come programma massimo, ma come avvio delle condizioni indispensabili a far sì
che possa in questo campo aversi un sistema di intervento pubblico nuovo per
qualità e indirizzi: e tale al tempo stesso da stimolare vastamente sia la
ricerca sia la partecipazione di tutti gli interessati, verso la realizzazione
di un obbiettivo, il cui valore umano e sociale non può essere ulteriormente disatteso.
Testo della proposta
di legge
Art. 1.
La prevenzione delle minorazioni
fisiche, psichiche e sensoriali dei soggetti in età evolutiva, e la loro cura e
riabilitazione costituiscono servizi sociali di
interesse pubblico. Mediante essi deve essere
combattuto lo stato di abbandono, di segregazione e di emarginazione cui sono
sottoposti i minori handicappati: e perseguito l'obiettivo del loro massimo
inserimento nella vita scolastica, familiare e sociale.
Art. 2.
La legislazione regionale, nella
materia di cui all'articolo 1, deve attenersi ai seguenti indirizzi:
1) promuovere interventi di natura
medica, sociale e pedagogica da realizzarsi ad opera
dei comuni singoli o associati per superare qualsiasi forma di organizzazione
separata nelle scuole di ogni ordine e grado, consentire l'inserimento del
minore nella vita scolastica normale e complessiva, e garantirne il diritto di
partecipazione ai servizi sociali per la prima infanzia;
2) programmare, d'intesa con i
comuni, gli interventi economici e finanziari e
promuovere, secondo un piano triennale, l'istituzione ad opera dei comuni
singoli o associati di unità di riabilitazione con le finalità e le caratteristiche
indicate negli articoli 3 e 4;
3) provvedere alla qualificazione,
riqualificazione e aggiornamento, in collaborazione con i comuni, le
università, gli ospedali e le cliniche universitarie del personale da impegnare
nelle attività previste ai punti 1) e 2) del presente articolo, nonché per compiti di prevenzione; ivi compreso il personale
medico e sanitario dipendente dagli enti locali, i medici e le ostetriche
condotte, il personale dei consultori pediatrici;
4) ristrutturare e adeguare ai fini
indicati nel precedente articolo 1 i servizi di
medicina scolastica;
5) favorire il massimo di collaborazione
delle autorità scolastiche e di partecipazione delle
famiglie interessate ad ogni iniziativa ed attività in materia.
Art. 3.
Le unità di riabilitazione, di cui
al precedente articolo 2, hanno il compito di provvedere alla cura e alla
riabilitazione dei soggetti handicappati nell'età evolutiva, favorendo il
massimo di recupero e di partecipazione dei soggetti alla vita sociale; e ciò
sia fornendo servizi curativi e riabilitativi
ambulatoriali; sia effettuando prestazioni extrambulatoriali
nella scuola, nelle istituzioni educative per la infanzia, nella famiglia; sia
ospitando i minori, nei soli casi indicati all'articolo
Le unità di riabilitazione debbono possedere tutti i requisiti tecnici e organizzativi
atti a garantire il massimo di riabilitazione del minore ed il suo permanente
rapporto con la vita delle collettività.
Le unità di riabilitazione dovranno
essere fornite di personale adeguato per numero e
competenza alla realizzazione degli stessi obbiettivi.
Art. 4.
Sono ammessi ai servizi in seminternato dell'unità di riabilitazione, di cui al
precedente articolo, solo i minori handicappati in conseguenza di danni
cerebrali estesi e permanenti.
La decisione sull'ammissibilità dei
minori ai servizi in seminternato e ambulatoriali, nonché quella relativa alla prestazione di servizi extrambulatoriali, spetta al comune su parere di una
commissione speciale, istituita presso ogni comune, sulla base dei criteri di
composizione indicati nella legge regionale; i comuni hanno facoltà di
istituire più di una commissione qualora la loro popolazione superi i 200.000
abitanti, o vi siano in atto forme di decentramento.
Art. 5.
Spetta ai comuni, singoli o
associati, con il concorso delle province:
1) l'attività di prevenzione,
diagnosi, cura, riabilitazione dei minori handicappati dell'età evolutiva;
2) l'istituzione
delle unità di riabilitazione di cui all'articolo 2;
3) la gestione delle unità di
riabilitazione che sulla base del programma regionale avranno sede nel
territorio, assicurandone il pieno collegamento, in
attesa della riforma sanitaria e assistenziale, con gli altri servizi
socio-sanitari, e la massima partecipazione delle famiglie e delle rappresentanze
delle formazioni sociali organizzate nel territorio.
Art. 6.
È istituita una commissione composta
da 10 deputati e 10 senatori con il compito di
studiare e proporre al Parlamento, entro 6 mesi dall'entrata in vigore della
presente legge, i provvedimenti ritenuti necessari per garantire ai soggetti in
età evolutiva minorati fisici, psichici e sensoriali la partecipazione ai
corsi ordinari, e la loro piena integrazione nella vita scolastica normale,
così da consentire l'abolizione delle classi differenziali e il superamento di
ogni forma di organizzazione scolastica separata e segregante.
Art. 7.
Lo Stato assegna alle Regioni lire
45 miliardi per la realizzazione del triennio 1973-1976 di almeno 300 unità di
riabilitazione. Tali contributi possono essere integrati dalle Regioni e dai
comuni direttamente o attraverso altre forme di finanziamento da essi stabilite.
Art. 8.
All'onere di 15 miliardi derivante
dall'attuazione della presente legge per l'anno 1973 si provvede mediante riduzione
di pari importo del capitolo 3523 dello stato di previsione
della spesa del Ministero del tesoro per l'anno finanziario medesimo.
Il Ministro del tesoro è autorizzato
ad apportare le occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 9.
Il finanziamento di cui all'articolo
8 viene ripartito tra le Regioni sulla base dei
criteri stabiliti dalla legge 16 maggio 1970, n. 281.
Art. 10.
Dopo sei mesi dall'entrata in vigore
della presente legge tutte le convenzioni con terzi già stipulate relative alla
materia in oggetto, sono risolte di diritto qualora non siano state adeguate
ai fini della presente legge.
In ogni caso trascorso il termine di
cui al primo comma i comuni e le province non possono disporre erogazioni e
prestazioni economiche a qualsiasi titolo, a favore di terzi, per le
prestazioni relative alla materia in oggetto, qualora
queste non siano conformi ai princìpi e ai fini della
presente legge.
(1) Limitando le
considerazioni al solo settore della scuola elementare statale vi sono i
seguenti dati (dagli Annuari statistici dell'istruzione italiana - ISTAT):
Classi
differenziali presso scuole statali: Scuole
per anormali e minorati:
Annuario Classi Alunni Annuario Classi Alunni
1961 967 13.768 1961 271 24.151
1970 6.626 60.670 1970 880 66.404
di cui per
ritardatari:
4.824 43.732
Per quanto riguarda
il numero degli alunni delle classi differenziali è
sintomatico che oltre la metà del totale (31.552) appartenga al Mezzogiorno.
www.fondazionepromozionesociale.it