Prospettive
assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972
NOTIZIARIO DEL CENTRO
ITALIANO PER L'ADOZIONE INTERNAZIONALE
Tratte
da due noti settimanali pubblichiamo due lettere
riguardanti l'adozione internazionale e la risposta del dottor Enrico Forni ad
una di esse apparsa su
Epoca.
I
«Negli otto anni di matrimonio ed
anche prima, negli altri otto anni di vita comune, abbiamo vagliato spesso la
possibilità di iniziare le pratiche dell'adozione, ma
ci siamo sempre fermati di fronte all'incognita di avere un bambino che non ci
fosse congeniale; un bambino che, sia pur allevato con amore, con tutto il
nostro affetto, potesse un giorno darci delle brutte sorprese dovute a
fattori ereditari. Abbiamo pensato anche di adottare un bambino indiano,
coreano, o vietnamita, ma anche qui ci sono degli ostacoli insormontabili:
come l'accoglierebbe la società? Sarebbe in grado di accettarlo? Forse no. Ed è per tutti questi dubbi e perplessità che non ci siamo mai decisi a realizzare i nostri progetti».
II
«In molte famiglie italiane oggi ci sono figli di colore, negri, coreani, cinesi, adottati con la nuova
legge sull'adozione speciale. Che cosa sarà di loro
tra qualche anno, quando saranno uomini? La società italiana riuscirà ad
assorbirli e a farli “suoi”? Uno di questi bambini potrà diventare manager, direttore d'azienda, giudice di tribunale?».
Risponde
Enrico Forni, vice direttore del Corriere d'Informazione
Come qualche centinaio di famiglie
italiane, mia moglie ed io siamo quotidianamente di fronte a questa domanda. Infatti, tre dei nostri sei figli non sono nati da noi;
sono stati da noi ri-generati. Sara, 5 anni, la più piccina, è arrivata da
Seul (Corea), mentre Moses e Bernardo,
rispettivamente di 6 e 8 anni, sono giunti da Bombay (India). I due
maschietti, soprattutto Moses, sono
di pelle scura, due bei cioccolatini. Nell'ambito della famiglia non esiste alcun problema serio, il rapporto con i genitori e con i
fratelli è spontaneo e naturale. Non sempre è la stessa cosa nel
rapporto con l'ambiente esterno. Fin dai primi giorni l'eccessiva curiosità
della gente e un certo stupido pietismo sono stati elementi di disturbo. «Papà, perché mi dicono negretto?», è stata una delle prime domande
di Bernardo. «Mamma, hai visto? Sto diventando
bianco!», ha esclamato una volta Moses in piscina,
mentre si guardava la pianta dei piedi, molto più chiara del resto del corpo.
«Perché quel signore mi ha detto: povera stella?» ha
voluto sapere un giorno Sara sulla metropolitana.
Circa l'atteggiamento della società nei confronti di questi bambini non ci siamo mai fatti illusioni.
Semmai ne avessimo avute, ce le tolse il giorno stesso
dell'arrivo di Sara - quel 23 maggio 1969 che ricordiamo sempre come il primo
vero Natale della nostra vita - un vicino di casa, «Non vi pare di aver fatto
un grosso torto ai vostri figli?» ci disse. In quelle
parole c'era già tutto, riassumevano l'orientamento di buona
parte della nostra società nei confronti del bambino senza famiglia.
Per il nostro vicino Sara non poteva essere
considerata nostra figlia, ma un corpo aggiunto e doppiamente estraneo dato
che non sussistono fra noi e lei né vincoli di sangue né vincoli di razza, cioè
legami biologici e comune origine etnica. Il presunto «torto» che avremmo
fatto ai figli procreati era poi una chiara allusione a
ipotetici diritti ereditari, a una futura spartizione di beni. «Di questo»,
risposi sorridendo al mio vicino, «non è il caso di preoccuparsi. È probabile
che lascerò ai miei figli solo debiti, per cui si
rallegreranno di essere in molti a dividerseli».
Il razzismo è sicuramente presente
nella nostra società, anche se è una macchia meno evidente di altre. Lo si scopre a tutti i livelli, non solo a quello
psicologico, individuale. Lo si ritrova anche
nell'ambito delle istituzioni, a cominciare dalla scuola, nei messaggi dei mass-media, nelle argomentazioni di
appartenenti all'élite culturale, di personalità con
responsabilità di guida morale.
Gli esempi si sprecano. Ho sott'occhio una pagina di pubblicità che propaganda un
rossetto: al volto di un negro si sovrappone il profilo di una ragazza dalla
pelle chiarissima e dalle labbra di perla: labbra «senza frontiere», dice lo slogan che spiega l'immagine fotografica.
Dal rossetto immunizzatore passiamo al detersivo che
libera il pulcino Calimero dal suo senso di colpa: credeva di
essere nero, poverino, e invece era «soltanto sporco». Le avventure
televisive di «Calimero pulcino nero» sono una lezione di razzismo impartita
da anni a milioni di italiani, piccoli e grandi. Ma quanti se ne sono resi conto?
Non più di un mese fa un preside di liceo, incontrando il maggiore dei miei
figli (suo ex allievo) in compagnia di una delle sorelline gli ha chiesto: «E questa è una sorella vera o avventizia?». «In casa nostra» è stata la risposta glaciale «non ci sono
figli avventizi e figli in pianta stabile, ci sono
figli e basta». Quel preside si è allontanato scrollando deluso la testa: «Sei
il solito contestatore. Adesso mi vuoi negare perfino il gruppo sanguigno!».
Si dà il caso che quel preside sia anche giudice onorario del Tribunale per i
minori di Milano.
Che cosa dire a questo punto al lettore
che chiede se una società così fatta saprà accogliere senza discriminazioni i
bambini giunti in Italia dalle aree geografiche della fame e della guerra,
bambini «diversi» dagli altri solo per la quantità di pigmento della pelle o
per la forma degli occhi e del naso? Viviamo in un periodo in cui la storia
precipita e pochi anni possono, quanto alle mutazioni
dei costumi e degli atteggiamenti, valere come decenni. Inoltre
ho fiducia nel ricambio delle generazioni: l'uva acerba dei padri non lega
più, come un tempo, i denti dei figli. La radicale trasformazione del sistema,
la rivoluzione che i giovani chiedono è, in sostanza,
la riscoperta di valori umani antichi e fondamentali dei quali troppi di noi
hanno perso il senso autentico.
«Il colore della pelle non ha nessuna importanza» ci ricorda Reginald,
ragazzetto americano di 12 anni. «Certi sono fatti di cacca più chiara, altri
di cacca più scura...». Ho trovato questa felice annotazione,
piena di inconsapevole humour, in un libro scritto
dai piccoli per gli adulti, Come i
bambini vedono il mondo. Non mi sembra un sogno vedere i
miei figli asiatici, gialli e neri, in una società più aperta e giusta.
E il fatto che centinaia di famiglie abbiano trovato normale far posto nella
loro casa a bambini di altri Paesi è un segno dei
tempi. L'utopia ha già cominciato a ritirare i suoi confini lasciando spazio
alla realtà desiderata dalla parte migliore di ciascuno di noi.
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