Prospettive
assistenziali, n. 21, gennaio-marzo 1973
ATTUALITÀ
NATALE 1972:
REPRESSIONE E LIBERAZIONE OMELIA DEL CARDINALE MICHELE PELLEGRINO
Col
titolo «Natale 1972: repressione e liberazione» sono stati pubblicati i testi
degli interventi all'assemblea ecclesiale promossa dal Gruppo
preti torinesi e tenuta a Torino nel salone S. Donato il 16 dicembre
1972. È una rassegna di testimonianze dirette della pesante repressione attuale
in vari settori, che vanno dal sindacalista allo studente, dall'obiettore di coscienza
ad alcuni militari, dallo spastico a giovani impegnati verso i disadattati
sociali e le prostitute, dai baraccati a un
magistrato. Repressione, emarginazione, sofferenza accomunano
queste testimonianze e altri interventi, che cercano di indicare anche le vie
della liberazione: nelle parole della Bibbia, nella preghiera, nell'impegno
comunitario e politico.
Negli
stessi giorni un'altra forma di repressione collettiva veniva compiuta da
parte de «
Una
parola di liberazione, chiara e ferma, troviamo invece
nell'omelia pronunciata dal cardinale Michele Pellegrino nel giorno di Natale
nel duomo di Torino. Forse mai prima d'ora avevamo sentito richiami così nuovi,
aperti, moderni nelle parole ufficiali della Chiesa nel settore
dell'assistenza. Per questo pubblichiamo il testo dell'omelia con vivo piacere
e pieno consenso.
OMELIA DEL CARDINALE MICHELE PELLEGRINO NATALE 1972
«Venne ad abitare in
mezzo a noi»
Carissimi,
nella prima lettura il Profeta ci presenta
come una visione. Un messaggero che corre veloce salendo e scendendo le
montagne per portare ai popoli la notizia che la pace è conclusa ed esce in questa esclamazione che ha qualche cosa di ingenuo, ma che è
tanto significativa: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di
lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di
bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “regna il tuo Dio”». Queste
parole ci introducono nel senso del mistero natalizio
che noi ora celebriamo. Anche noi abbiamo ascoltato un
lieto annunzio che è annunzio di pace e di bene: «gloria a Dio, pace agli
uomini». Siamo invitati a meditare il significato di questo mistero del Natale,
a non fermarci a quella esteriorità folcloristica, o
a quel vago sentimento che prende un po' tutti di nostalgia. Mi diceva proprio
ieri una Suora che assiste le donne carcerate: «Che tristezza questa vigilia di Natale per queste creature che
oggi più che mai sentono la nostalgia della casa, della famiglia». Sì, perché il Natale è anche questo. Ma
cerchiamo di capirne il significato profondo. Che cosa
vuol dire Natale?
1. Il
dono che ci ha fatto
È un richiamo al dono che ci ha
fatto il Padre mandandoci Gesù suo Figlio come nostro Salvatore, al dono che
ci ha fatto Gesù nascendo da Maria a Betlemme.
Dio ci ha parlato. Nella seconda lettura, l'inizio della lettera agli Ebrei
ci ricorda che Dio, per mezzo dei profeti, ha parlato molte volte, in molte
occasioni e in molti modi nell'Antico Testamento. E negli ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio,
di quel Figlio che, come ha dichiarato S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo,
nella terza lettura, è il Verbo, è
Ci ha recato la luce. Ecco il dono che ci ha fatto il Signore
nel Natale: ci ha recato la luce. Ascoltiamo ancora il Vangelo di
Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che
illumina ogni uomo». Ci ha rivelato il senso vero della vita e da allora, da
quando è venuto Gesù a parlare agli uomini, noi abbiamo capito cos'è e cosa
vale la nostra vita, la vita di creature di Dio, di
figli di Dio.
Ci ha fatti figli di Dio. Il Verbo fatto uomo, ci dice ancora Giovanni, è venuto per
farci figli di Dio, per stabilire tra noi e Dio non
soltanto il rapporto che c'è fra la creatura e il Creatore, fra l'Essere
supremo infinito e noi poveri esseri che un momento ci affacciamo alla porta
della vita e dopo un momento scompariamo, ma è venuto a stabilire fra noi e Dio
un rapporto filiale. Siamo figli di Dio. Dio è nostro padre. Quindi siamo fratelli
fra noi, membri dell'unica grande famiglia umana dei
figli di Dio.
Ci ha dato pace e bene. È venuto a portarci la pace. L'abbiamo
ascoltato nella prima lettura, l'abbiamo ascoltato dal canto degli
Angeli: «gloria a Dio, pace in terra». Pace nel senso biblico della parola non
è soltanto assenza di guerra - e sarebbe già molto se così fosse nel Vietnam,
se fosse così nell'Irlanda del Nord, fosse così nel Medio Oriente -, ma pace
che è concordia, amore fraterno, che è benedizione di Dio, per
cui l'uomo cammina nella serenità e nella gioia. Soprattutto: «Venne ad abitare in mezzo a noi». Non
abbiamo ancora detto tutto, non abbiamo ancora sottolineato
il significato più profondo del Natale, che è racchiuso in quella parola di S.
Giovanni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi». Perché Dio non ci ha soltanto aiutati
da lontano come fa per esempio chi in questa occasione del Natale manda un'oblazione,
una somma di denaro per dei poveri che non vedrà mai. Dio ha fatto ben più. Il
Figlio di Dio facendosi uomo è venuto ad abitare in mezzo a noi, si è fatto uno
di noi e rimane con noi, cioè con tutti noi, divenuti
suoi fratelli, figli del Padre Celeste e, in particolare, l'ha detto Lui, con i
poveri, con i bisognosi, con i sofferenti. Ecco il dono che ci ha fatto il
Signore nel Natale.
Col dono ci ha dato l'esempio e ci
chiede un impegno. Riflettiamoci su, se vogliamo che il nostro sia veramente
un Natale cristiano. Il Signore ci ha dato un esempio. Perché questi doni del Natale che abbiamo rapidamente rievocati? C'è una spiegazione sola, quella che troviamo ancora nel Vangelo di Giovanni: «Dio ha tanto amato
il mondo che ha dato per esso il suo Figlio Unigenito».
Quella che ci dà S. Paolo: «Mi ha amato e si è sacrificato per me». L'unica
spiegazione è l'amore. Questa è la lezione essenziale che ci viene dal
Natale. Se noi non impariamo questa lezione, il Natale
servirà ben poco. Se non impariamo questa lezione non
possiamo dirci cristiani, anche se una volta tanto, a Natale, o magari tutte
le domeniche si va a Messa. (Perché, permettete che
ve lo ricordi, qualcuno è persuaso che quando un cristiano va a Messa a Natale
e a Pasqua, ha fatto tutto il suo dovere, ha pagato tutto il suo debito con
Dio. Un vero cristiano sente il bisogno dell'incontro con
Dio Padre, con Gesù Cristo, con i fratelli, sempre, nell'assemblea domenicale,
nella Messa, per ascoltare la parola di Dio, per pregare insieme, per
partecipare all'Eucarestia).
Dunque, la grande
lezione che Gesù ci dà del Natale è una lezione di amore. Dobbiamo amare.
Chi amare?
Gesù ama tutti, non esclude
assolutamente nessuno dal suo amore e dal suo disegno
di salvezza, ma ha delle preferenze, indubbiamente. Lo ha detto all'inizio
della sua missione richiamando la parola del profeta: «Lo Spirito mi ha mandato
a portare la buona novella ai poveri». Difatti vediamo Gesù di preferenza
vicino ai malati, ai sofferenti, sollecito di quelli
che il mondo emargina dalla vita sociale: i pubblicani, le prostitute, di
quelli che sono qualificati con disprezzo come «peccatori».
Guardiamoci intorno, fratelli:
quante sofferenze! Ce n'è per tutti. Ma c'è chi si trova in una
situazione permanente di indigenza, di sofferenza. Bambini
senza famiglia o con famiglie incapaci di dare loro il necessario per lo
sviluppo fisico, affettivo, intellettuale. Ragazzi e giovani soli, esposti
a ogni pericolo. Anziani, malati cronici, isolati e abbandonati. Immigrati che non
trovano appoggio e lavoro. Disoccupati e sottoccupati. Handicappati e disadattati fisici e mentali. Ebbene, è a questi fratelli più bisognosi che deve andare in
primo luogo il nostro amore. Non considerandoli come gente che sta ai margini,
a cui si dà un boccone di pane per tenerli in vita, ma guardando a loro con
senso di solidarietà, come a fratelli, come a figli di Dio come me, come a
quelli che primi hanno diritto al mio amore.
Come amare i fratelli?
Come li ha amati Gesù. Abbiamo ascoltato
la parola del Vangelo: «Veniva nel
mondo... era nel mondo... viene fra
la sua gente... si fece
carne e venne ad abitare in mezzo
a noi». Così egli ha fatto nell'incarnazione, nel Natale che oggi rievochiamo. Così per i 33 anni che passò
visibilmente in mezzo a noi. Così ora e fino alla fine del mondo egli
abita e abiterà fra noi, nella sua Parola, nella sua Chiesa, nella sua Eucarestia, nei fratelli sofferenti che siamo
chiamati a capire, amare, aiutare.
Dunque, fratelli, è necessario che facciamo un esame di coscienza, una revisione radicale della
nostra mentalità e del nostro comportamento.
C'è chi non si cura affatto dei
bisognosi: gli e basta guadagnare e guadagnare, spendere e divertirsi.
C'è chi dà qualche aiuto da lontano. I bisognosi,
i sofferenti, gli emarginati sono piaghe della nostra società che bisogna
dimenticare, o, al più, coprire perché disturbano; sono, come si può leggere
anche in un documento ufficiale, «elementi passivi e parassitari». Si tratterà
di persone anziane che pesano e perciò, se non si abbandonano del tutto, si
cerca loro un posto in un ricovero, in un pensionato, anche quando la famiglia
potrebbe tenerli in casa e continuare ad assisterli e dare loro qualche cosa
che solo nel focolare familiare possono trovare.
C'è chi si preoccupa di liberare il
pubblico dal disturbo che dànno certe piaghe sociali,
come la prostituzione, senza interrogarsi sul significato umano
e morale di questo flagello e sui primi responsabili, che continuano ad
alimentarlo, ritenendo che quando hanno pagato, hanno acquisito il diritto di
difendersi dalle conseguenze del loro comportamento che in linguaggio cristiano
si chiama peccato. È vero che anche l'Arcivescovo di
Torino, come è stato pubblicato, ha a suo tempo invocato «nuovi strumenti idonei
a tutelare il rispetto di tutti i cittadini»; ma è anche vero che, nella
medesima lettera, ha richiamato l'attenzione sulle responsabilità che stanno a
monte di questo tristissimo fenomeno, e in particolare su quelle - parliamoci
chiaro - dei «clienti» di quelle creature su cui si vuole scaricare tutta la
colpa. E questo non è stato pubblicato.
Ci sono i bambini che sono
d'ingombro e perciò si «chiudono», come dice
qualcuno, mentre altri, un po' più pulitamente dice che si mettono «in collegio»,
anche quando potrebbero crescere nel clima familiare. Talvolta i responsabili sono i genitori, forse del tutto impreparati alla loro
missione. Spesso è la società che trova più comodo intruppare questi bambini e
lasciare che se ne curi chi vuole, anziché rivolgersi loro con vero affetto.
Non voglio certamente contestare la
validità e la necessità di istituti di vario genere
che cercano in qualche modo di rimediare alla insensibilità di un sistema che
considera membri di pieno diritto della società solo quelli che producono.
Non si tratta solamente di dare
all'uomo, alla donna, al bambino, al ragazzo, al giovane un tetto, un letto e
un pezzo di pane; l'essere umano ha altrettanto bisogno di comprensione e di affetto. Gli psicologi sanno dirci come la mancanza di affetto fin dai primi passi della vita incida negativamente
sullo sviluppo, preparando gli infelici e talvolta i delinquenti di domani.
Così si dica per ciò che riguarda
quanti sono minorati nel fisico e nell'intelligenza, dagli spastici ai poliomielitici,
dagli handicappati ai disadattati.
La constatazione delle gravissime carenze della nostra società non deve tuttavia farci
dimenticare gli esempi mirabili che sono sotto i nostri occhi, di uomini e di
donne, di coppie e di famiglie che si prodigano con affetto operoso e del
tutto disinteressato per i fratelli bisognosi. Penso alle famiglie che
adottano o richiedono l'affidamento di bambini abbandonati, penso ai genitori
che mettono al centro delle loro preoccupazioni e del loro affetto i figli in
qualsiasi modo minorati. Quante volte ho potuto rendermene conto di persona,
incontrando i malati nelle visite pastorali! Ma dobbiamo esserne tutti
persuasi: non sarà la legge, soprattutto la legge penale e la polizia, anche se
si tratta di interventi necessari, che rimedierà alle
piaghe sociali, se i cittadini - e chi parla si rivolge in primo luogo ai cristiani
-, non sentono il sacro dovere dell'impegno.
Impegno
personale nel
contatto con i singoli, con le famiglie, nella costituzione di piccole comunità
in cui gli emarginati possano crescere come uomini e come fratelli.
Impegno
della comunità: non
si creda che la società abbia fatto tutto delegando questa cura a istituzioni, nelle quali spesso si fanno sforzi lodevoli
e sacrifici ammirabili, ma troppe volte con risorse insufficienti di persone e
di mezzi e con insufficiente appoggio di chi potrebbe o dovrebbe darlo. Deve
dunque intervenire la comunità a tutti i livelli, dalla parrocchia al comitato
di quartiere, dal Comune alla Provincia, dalla Regione
allo Stato.
È
necessario aprire gli occhi, denunciare le situazioni
intollerabili, stimolare coloro che ne portano la maggiore responsabilità,
incoraggiare e aiutare chi si prodiga per venire incontro da uomo e da
cristiano ai fratelli che soffrono.
«Venne
fra fa sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto».
Chi s'è accorto, allora, che era
venuto il Salvatore del mondo? Prima un gruppetto di pastori, di gente umile e
povera; più tardi un pugno di sapienti e ricchi venuti da lontano, ma il grosso
della città di Gerusalemme non si è mosso. Un bambino di più o di meno chi
poteva interessare?
E adesso chi è che accoglie Gesù? C'è
chi rifiuta di accoglierlo, gli rifiuta la fede, non crede in Lui. Gli rifiuta
l’amore, rifiuta i valori che egli propone, cedendo
all'egoismo, alla ricerca del guadagno e del benessere divenuto scopo supremo
della vita.
C'è chi non accoglie Gesù nei
fratelli. Eppure egli ha detto: «Ero forestiero e mi avete accolto. Ero forestiero e non mi avete accolto... Ciò che avete o non avete fatto, al più piccolo tra i miei
fratelli, non l'avete fatto a me».
Cristo viene fra noi anche oggi,
nella celebrazione eucaristica: mentre Lo accogliamo
con fede e amore, chiediamogli di saperlo riconoscere Presente nella persona
dei fratelli e impegniamoci ad aprirci a quanti hanno bisogno nell'amore
sincero, nella solidarietà operosa.
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