Prospettive assistenziali, n. 22, aprile-giugno 1973

 

 

LIBRI

 

 

T. BANDINI E U. GATTI, Dinamica familiare e de­linquenza giovanile, Giuffrè, Milano, 1972, pag. 243, L. 3000.

 

Partendo dal presupposto che la criminalità non può più essere considerata come una «qua­lità» del singolo individuo (studio clinico del soggetto), ma è un problema che investe la strut­tura sociale, senza tuttavia trascurare l'aspetto personalistico, la famiglia viene assunta a sinte­si ideale per affrontare la problematica sociale con l'esame individuale del fenomeno delinquen­ziale, essendo, infatti, da una parte l'espressio­ne di valori e contraddizioni della società e dal­;'altra l'ambiente più importante nel quale si svi­luppa l'individuo.

Ci si aspetterebbe allora una analisi approfon­dita che svisceri le molteplici dinamiche familia­ri mettendo in luce i rapporti fra queste ultime e il sorgere di un atteggiamento delinquenziale in un membro della famiglia.

L'argomento, invece, dopo una interessante il­lustrazione del concetto di comportamento de­viante, si sviluppa attraverso la presentazione delle «cause» della delinquenza che le varie ri­cerche criminologiche sulla famiglia (conferma­te da citazioni di studiosi autorevoli in questo campo) hanno messo in luce quali la disgrega­zione familiare, le carenze di cure materne, la privazione paterna, la disciplina parentale, ecc., confermando la necessità di considerare il fat­tore «famiglia» come strettamente necessario per l'integrazione delle varie teorie criminologi­che. La famiglia, però, non è più una entità iso­lata, ma è strettamente collegata con il resto del tessuto sociale e di questo esprime i conflitti e le contraddizioni. Questo ci pare l'aspetto più interessante della prima parte che, partendo da una indagine individuo-famiglia-società, identifica nella famiglia una struttura specifica attraverso la quale si realizza «in duplice direzione un con­tinuo interscambio tra i suoi membri all'interno e la società all'esterno»; concependola così non più un aggregato di singoli componenti, ma come un insieme di dinamiche e interscambi che scaturiscono sì dall'individuo, ma socializzato. E la famiglia stessa va vista non come un tut­t'uno a sé stante, ma inserita nel tessuto socia­le più ampio e da questo condizionato.

È inevitabile quindi che quando gli autori pas­sano ad analizzare il rapporto fra famiglia e com­portamento deviante, scivolino sui suoi condizio­namenti sociali, i quali assumono sempre più ri­lievo tanto che l'ultimo capitolo, significativa­mente intitolato «la strada verso la delinquen­za», lascia in sordina la famiglia per presentarci le «pressioni sociali», «l'ambiente socio-cultu­rale», la «scuola», il «mondo del lavoro», gli «istituti». Qui la variabile familiare è soltanto introdotta come mediatrice delle tensioni socia­li che tende a scaricarsi sull'elemento più fra­gile. «In alcuni giovani, in alcune classi, in alcu­ni periodi storici la crisi di identità è minima; in altre persone, classi ed epoche essa assume l'a­spetto definito di un periodo critico, di una spe­cie di seconda nascita che può essere aggravata da una nevrosi e da una acuta insicurezza ideo­logica. Alcuni giovani soccomberanno a questa crisi in forme di comportamento nevrotico psi­cotico e delinquenziale, altri la risolveranno gra­zie alla partecipazione ad intensi movimenti ideologici» (Erikson). È logico che questo di­scorso ponga agli autori nuove ipotesi di lavoro che si ripropongono anche nel capitolo sui gio­vani e la droga, dove la devianza ancora una vol­ta non è vista solo come fenomeno personale, ma nella problematica più vasta del dissenso gio­vanile o come scelta di un gruppo che assume valori diametralmente opposti a quelli della so­cietà in cui vive. Questa ipotesi di lavoro, appe­na tratteggiata dagli autori forse perché non so­stenuta da studi esistenti in proposito (le citazioni scompaiono quasi del tutto), conclude la seconda parte del libro ed è la più stimolante, perlomeno a livello di apertura di una nuova vi­suale nel campo della delinquenza giovanile, se si vuole effettuare una rivoluzione copernicana spostando l'attenzione «dall'individuo al tessu­to sociale nel quale egli vive» (Jole Haley).

La mancanza di proposte alternative è spiega­bile con l'intento del libro che si pone più come lavoro di ricerca e di documentazione che come critica costruttiva a livello politico-sociale.

 

 

ANGELO FRANZA, Uno stigma e forse una nor­ma: i ciechi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1973, pag. 106, L. 1200.

 

Rivista Italiana di Tiflologia, L'educazione dei mi­norati della vista, a cura dell'Istituto Statale A. Romagnoli, n. 1 e 2 del 1972.

 

Da circa un anno esce una nuova rivista che affronta il problema educativo dei non vedenti, quasi contemporaneamente nella collana Deho­niana «Gli esclusi» è uscito un libro di Angelo Franza che affronta la problematica dei ciechi non solo da un punto di vista pedagogico, ma so­prattutto da un punto di vista sociale cioè di co­me vivono e come sono percepiti dalla società i ciechi.

In questo libro «Uno stigma e forse una nor­ma: i ciechi» l'autore si è servito di testimo­nianze autentiche di vedenti e non vedenti per verificare i motivi psicologici, culturali, sociali che hanno reso possibile il rifiuto e la conse­guente esclusione dal contesto sociale dei cie­chi. Questo discorso che riguarda tutti gli han­dicappati con sfumature più o meno diverse ri­conduce ad un comune denominatore: rifiuto da parte di ognuno del «limite umano», «cioè di tutto ciò che può costituire angoscia».

... «L'uomo ha sempre preferito evadere più che affrontare ciò che per lui è fonte d'angoscia e i modelli gli forniscono forme di superamento sul piano dell'evasione, in nome di una norma ipotetica di cui essi sono elementi costitutivi. I modelli socio-politici si pongano come fattori di conservazione del rifiuto e nel loro generarsi e stratificarsi lo perpetuano storicamente (...) si sono così determinati storicamente vari tipi di norma e con ognuno di essi l'uomo ha continua­to a rifiutare evadendoli, i suoi problemi più gravi»...

«La norma altro non è che un insieme di miti deteriori, perché nascondono un arretrare incon­scio di fronte alla realtà»...

Questo atteggiamento ha avuto la sua razio­nalizzazione, al sorgere di una civiltà industriale produttivistica, in soluzioni di esclusione. Ha preso così corpo una struttura assistenziale con­fusa, categoriale, settoriale che col tempo ha acquistato una fisionomia politica ben precisa, rivolta alla conservazione dello status quo, ri­spondente alla funzionalità dei vari enti piutto­sto che ai bisogni del singolo. Ogni minorazione, ogni limite è stato stigmatizzato e per ogni stig­matizzato è stato inevitabile l'ingresso in un isti­tuto «specializzato», con relativo allontanamen­to dalla famiglia, dall'ambiente sociale di prove­nienza. Lo si è preso a carico per filantropia ver­so l'uomo stigmatizzato riconoscendogli con be­nevolenza i segni della sua malattia, ma in real­tà con la preoccupazione di non turbare l'ordine di una società tesa a valorizzare il denaro, il profitto, il successo. Ecco perché ogni attenzione sarà poi posta a migliorare sempre più le strut­ture esistenti senza risolvere il problema della socializzazione dell'handicappato. Nessuna nuo­va azione pedagogica sarà valida, quando è pro­prio l'istituto, con la mancanza di rapporti mol­teplici e reali, ad essere la causa dell'interioriz­zazione dell'identità di minorato e quindi la cau­sa dell'impossibilità di essere uomo tra gli uo­mini. «In istituto la prima cosa che mi ha colpi­to è stato il trovare riunite tutte insieme solo persone cieche...».

Una soluzione al problema è intravista dall'au­tore nella creazione di servizi sociali aperti, cioè d'appoggio per le normali funzioni sociali dell'individuo; e inoltre nella possibilità di inse­rimento dei non vedenti nella scuola pubblica. L'autore è pessimista circa le possibilità di ri­forma della scuola, che dovrebbe poter rispon­dere alle necessità di tutti gli handicappati con didattica e strumenti specializzati, per consenti­re una autentica vita di relazione: essa è però l'unica struttura capace di favorire un processo formativo con conseguente apprendimento ed as­similazione. Mentre auspica una modifica della struttura assistenziale e scolastica, l'autore in­siste nel ritenere necessario un servizio sociale che faccia prendere coscienza della problemati­ca degli handicappati e aiuti a superare ogni pre­giudizio.

Da questa impostazione derivano quindi ri­flessi politici, e l'urgenza di una spinta innovati­va che deve trovare consenzienti le forze politi­che esistenti, le sole capaci di mutare le attua­li istituzioni.

Un taglio diverso al problema dei non vedenti viene dato dalla Rivista di Tiflologia il cui Diret­tore, Enrico Ceppi, mette a fuoco la differenzia­zione della problematica dei ciechi puntando alla ricerca di metodologie tecniche specifiche per il superamento dell'handicap e facendo leva sulla formazione dell'educatore che consentirebbe un reale inserimento dei ciechi nella società dopo il soggiorno in istituto. Ci si preoccupa cioè di sanare gli effetti disadattanti dell'emarginazione senza incidere sulle cause reali che la generano. Si cerca una struttura educativa adeguata attra­verso la partecipazione umana degli educatori senza un esame psico-sociale dell'istituto che è per se stesso causa prima di una emarginazione irreversibile dei suoi ospiti.

L'istituzione infatti ponendosi tra l'uomo e il suo limite, crea una situazione di vita rappresen­tata e non reale, mediata dalla disciplina, dall'or­ganizzazione, dallo stigma, dagli interessi. Pri­vare l'uomo della molteplicità dei rapporti signi­fica aggiungere una minorazione in più a quella preesistente e non c'è insegnamento differen­ziale ottimale che possa coprire questo bisogno essenziale dell'uomo. Bisogno che esiste per l'handicappato ma anche per il normale: un biso­gno di misurarsi ogni giorno con i propri limiti per poterli superare ed accettare. Non basta per­ciò avvicinare il non vedente con un intervento educativo che lo porti all'accettazione della «mi­norazione» o affiancarlo ad «educatori veri che lo portino ad un incontro di amore tra adulti», si tratta di permettergli di frequentare i suoi compagni, tutti.

Quando si dice che il cieco, ed ogni altro handicappato, deve poter andare nella scuola di tutti, si dice che la scuola deve avere nel suo ambito lo specialista che aiuti quel cieco a leg­gere con il metodo appropriato, perché non è pos­sibile togliere un cieco dal suo contesto sociale e poi pretendere di reinserirlo se non gli sarà data la possibilità di imparare la dialettica del vivere comune nel mondo di tutti.

Consentiamo allora a quel cieco una prepara­zione professionale fatta insieme agli altri con l'aiuto particolare per il suo handicap, ma con la possibilità di misurarsi con la realtà di tutti e, in questa, realizzarsi secondo le proprie attitu­dini.

Non ci saranno allora solo ciechi telefonisti o insegnanti, ma ciascuno sarà se stesso con la sua inventiva, le sue capacità manuali, il suo co­raggio, il suo talento di realizzarsi veramente nonostante il proprio handicap.

Ecco perché bisogna battersi, più che per mi­gliorare istituti ed introdurre nuove didattiche, perché la scuola, il mondo di lavoro si aprano a questi problemi ed accettino nel proprio ambito tutti gli handicappati predisponendo strumenti e specialisti nelle strutture comuni.

Si eviterà il moltiplicarsi di strutture «specia­lizzate» che costano alla società un patrimonio economico e all'uomo handicappato una soffe­renza infinita, strutture dove tornerà ad essere prigioniero due volte: per il proprio handicap e per le istituzioni che lo emarginano e non lo aiu­tano a svilupparsi. L'attenzione va posta all'uomo nella sua interezza e non al suo handicap, allo­ra non sarà consentito ad alcuno di avere una parola in più per «costringere» né un mezzo in più per «possedere», ma solo «un'attenzione» capace di costruire rapporti di liberazione e non strumenti di schiavitù.

JOLE MEO SOSSO

 

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