Prospettive assistenziali, n. 22, aprile-giugno 1973

 

 

LA VOCE DEI GIOVANI

 

UNA PROPOSTA ALTERNATIVA: IL GRUPPO ABELE (1)

 

 

DOCUMENTO BASE

 

Il gruppo «Abele» nacque alcuni anni fa come gruppo di giovani che intendevano vivere il cri­stianesimo in modo autentico.

Dalla riflessione comune sorse ben presto la consapevolezza che realizzare il vangelo impe­gnava il gruppo ad immergersi nella realtà per svolgere un'azione coerente verso i più «po­veri».

Il contatto con l'ambiente scoperse sempre più chiaramente la drammatica situazione di mol­ti giovani e spinse il gruppo ad interessarsi dei socialmente disadattati.

Sentendosi vivamente coinvolto nella respon­sabilità verso tali fratelli emarginati il gruppo propose di capovolgere l'atteggiamento indiffe­rente ed egoista di Caino per mettersi decisa­mente dalla parte di Abele.

L'esperienza compiuta maturò infine la convin­zione che i problemi di tali giovani avevano la lo­ro radice oltre che nella difficile situazione fami­liare ed ambientale anche nella struttura stessa della società. Il gruppo giunse perciò a scoprire la dimensione «politica» del suo impegno, in vi­sta di un mutamento sociale più vasto.

L'analisi delle cause del disadattamento non vuole essere uno studio teorico, che altri potreb­bero fare in maniera migliore, ma un'espressione di esperienza vissuta e un tentativo di puntualiz­zare alcuni aspetti negativi della società che con­dizionano profondamente la formazione dell'indi­viduo e ché il gruppo vuole contribuire a risol­vere.

 

Alcuni dati

- Molti ragazzi sono obbligati a lavorare nell'età della scuola dell'obbligo.

- Moltissimi minorenni vivono abbandonati o in uno stato di semi abbandono (circa 800.000 in Italia)

- Migliaia di ragazzi ogni anno fuggono di casa.

- Decine di migliaia di ragazzi si drogano. - Parecchi sono i suicidi.

- Molti sono coinvolti nel giro della prosti­tuzione, dell'omosessualità, dei travestiti.

- Circa 8.000 ragazzi sono esaminati ogni an­no dai Tribunali per assumere provvedimenti rie­ducativi a causa del loro comportamento tenden­zialmente asociale.

- Più di 5.000 ragazzi sono «chiusi» dentro gli istituti di rieducazione oggi esistenti in Italia.

- Circa 25.000 sono imputati per delitti, di questi 7.000 vanno ad affollare ogni anno le car­ceri minorili.

- Altri 7.000 e più sono dichiarati non impu­tabili solo perché di età inferiore ai 14 anni.

 

Quali le cause?

Secondo la nostra esperienza le cause dell'o­dierna forma di disadattamento vanno anche ri­cercate nelle strutture e nel costume della so­cietà.

La complessità del sistema sociale, incom­prensibile e spersonalizzante, e del lavoro, in genere alienante e di scarsa soddisfazione per­sonale, rendono il mondo adulto estraneo al gio­vane, togliendogli lo spazio per realizzarsi come persona e come membro attivo della società.

La logica dei consumi, i miti della produzione, del successo, dell'erotismo sottopongono il ra­gazzo ad una grande quantità di sollecitazioni (necessarie al sistema per automantenersi) nei confronti delle quali il giovane non è preparato ad orientarsi e ad operare delle scelte. Certi interessi economici gli inculcano modelli di vita, tendenze e bisogni che non sono affatto autenti­camente suoi, da cui non può liberarsi e che gli impediscono di maturare.

È da notare come i mezzi di queste sollecita­zioni siano spesso subdoli e poco appariscenti, ma efficacissimi: notizie di giornali, manifesti, film apparentemente «neutri», discorsi captati casualmente, comportamenti della «gente»...

In generale si può dire che il giovane per lo più è sottoposto ad una prova troppo ardua per le sue forze, e molti sono spinti a rifiutare, più o meno coscientemente, la società o a diventare incapaci di rapporti umani gratificanti.

Noi che viviamo in una grande metropoli indu­striale verifichiamo quotidianamente che una delle cause fondamentali di questi fenomeni è l'immigrazione di massa, legata a squilibri eco­nomici nazionali ed a interessi palesi, causa a sua volta di difficoltà sociali e personali senza prospettive di soluzione.

L'immigrazione determina spesso il prematuro avviamento al lavoro dei ragazzi, la sotto-occu­pazione e sfruttamento della donna, la vita in ambienti malsani, in quartieri «ghetto» e la malnutrizione: è noto come i ragazzi in queste situazioni siano sovente allontanati dalla fami­glia per essere ospitati in istituti appositi (ed è purtroppo anche noto che più del 60% dei ra­gazzi «sistemati» in riformatorio proviene da ta­li istituti).

La famiglia, naturale ambiente educativo, ri­specchia essa stessa le inadeguatezze e i limiti della società e diviene a sua volta causa prossi­ma di disadattamento. Verifichiamo che spesso il ragazzo emarginato ha sofferto profondamen­te, direttamente e coscientemente situazioni fa­miliari del genere.

La scuola che rappresenta per il bambino la prima intensa esperienza di socializzazione ex­tra-familiare, in realtà, mette in evidenza i disli­velli socio-culturali degli alunni ed è un fattore di differenziazione sociale anziché di fusione. La nostra scuola tende a respingere da sé i sogget­ti che non si adeguano a determinati canoni e favorisce nell'alunno sottoprivilegiato l'acquisi­zione di una identità negativa, cioè lo classifica negativamente agli occhi propri ed altrui. Il di­sadattamento scolastico finisce con l'essere una anticipazione del successivo disadattamento so­ciale e della asocialità. Esemplificando vogliamo mettere in evidenza un fatto: la scuola è porta­trice di valori in buona parte caratteristici di una classe sociale, che spessa non sono riconosciuti o che sono vissuti in modo diverso da chi appar­tiene ai ceti inferiori della popolazione e a mo­delli culturali che da questa classe non sono condivisi.

Il lavoro, per esempio, è presentato come mez­zo nobilitante che, se svolto con competenza, è anche fonte di successo e di soddisfazione. Ma in certi contesti sociali il lavoro è alienante e solo una necessità per sopravvivere. Così per altri valori e modelli di comportamento come la democrazia, la eguaglianza di tutti gli uomini, la libertà...

La scuola è quindi «socializzante», ma nel senso che inquadra in questa società e prepara ad inserirvisi oppure respinge ed emargina.

Circa il comportamento da noi registrato nei nostri contatti con l'ambiente, in particolare quello cristiano, ci pare di dover rilevare quanto segue:

- manca una autentica coscienza sociale tra coloro che per la loro posizione economica o per la loro formazione umana hanno maggiore possi­bilità e responsabilità;

- sono ancora molti coloro che credono pos­sibile salvare la propria religiosità pur facendosi volontariamente sordi alle ingiustizie, per poter restare ancorati a situazioni di privilegio o a strutture sociali che contrastano con i principi elementari insegnati dal vangelo;

- molti sono tuttora legati a forme di assi­stenza puramente economica, paternalistica e distaccata, che in realtà non coinvolgono chi dà nella situazione di chi riceve e che convalidano la diversità di condizione anziché contribuire a superarla.

È disonesto, secondo un preconcetto assai diffuso, voler segregare il mondo dei disadattati per una loro rieducazione: prima di tutto è la so­cietà intera che deve essere rieducata.

Posto che nella grande maggioranza dei casi i giovani emarginati che troviamo negli istituti so­no il frutto e la vittima inconsapevole del nostro stesso modo di concepire la società, dobbiamo, noi stessi che siamo la società, assumerci il compito di aiutarli a recuperare se stessi, anzi­ché delegarlo comodamente allo stato. Da parte sua lo stato deve assumere il ruolo di tutore del diritto di ogni giovane ad un crescita umana con­forme alle sue possibilità e di promotore delle forze atte a favorirla.

Si deve indubbiamente lavorare anche su un piano politico se si vuole raggiungere una socie­tà con meno disadattati e con meno individui asociali. Il discorso e l'azione sociale-politica ri­schiano di restare sterili se il problema non vie­ne affrontato anche sul piano personale: mutan­do atteggiamento ciascuno verso chi è in situa­zioni difficili o anormali o è semplicemente di­verso; diventando tutti corresponsabili, senten­dosi ognuno personalmente implicato nell'emar­ginazione di un ragazzo o di un uomo. Creando cioè nei rapporti interpersonali nuovi fatti di comprensione, di rispetto e di stima reciproca. Un tale rinnovamento delle coscienze se non porta però a interventi risolutivi, anche se par­ziali, rischia di essere una utopia e una autogiu­stificazione.

I ragazzi emarginati o soli o «delinquenti» chiedono giustizia, un posto nella società (il loro «posto»), oggi subito.

Le osservazioni che seguono presentano la no­stra risposta e le nostre realizzazioni nella con­sapevolezza che si tratta pur sempre di un con­tributo parziale. È tuttavia la proposta di un in­tervento concreto.

 

Il nostro tentativo di risposta

Il gruppo «Abele» è presente ed operante in alcune città italiane.

In altri centri sono nati o stanno per nascere dei «gruppi di appoggio»: amici cioè che han­no conosciuto il gruppo, ne sono diventati sim­patizzanti e lo aiutano nelle sue attività.

L'attività del gruppo impegna giovani che si sentono coinvolti dal problema di altri giovani meno fortunati e desiderano condividere le loro difficoltà in un piano di amicizia e di rispetto, pa­gando di persona.

Essi avvicinano ragazzi e ragazze, «ospiti» di case di rieducazione, offrendo loro anche quan­do ne escono, una amicizia concreta, spesso al­ternativa a quelle amicizie alle quali erano lega­ti in precedenza, convinti che ciò favorisca una loro presa di coscienza nei confronti della so­cietà. Una amicizia attiva che condivide il ri­schio delle situazioni concrete, che inventa so­luzioni a problemi personali, che si propone non come modello astratto ma come dialogo di fat­to. Un'amicizia che superando certi schemi con­venzionali intenda farsi una ricerca comune del proprio modo d'essere, e delle molteplici rela­zioni richieste dal contesto sociale.

Incontrano i giovani sbandati che «vivono» nei quartieri miseri e malfamati della città; le adolescenti irretite nel giro vizioso, difficile da rompere, della prostituzione; i giovani dediti alla droga; insomma tutta quella gente che la società ha già «bollato» ed escluso - emargi­nandola - senza alcuna possibilità di appello.

 

Più concretamente il gruppo

cerca di formare dei gruppi di amicizia insie­me a ragazze e ragazzi privi di rapporti umani validi e disinteressati: ragazzi particolarmente soli o travolti da situazioni familiari insosteni­bili, ragazzi «rinchiusi» negli istituti di rieduca­zione.

Offre aiuto concreto a ragazzi soli che tentano di costruire la loro vita, continuando un rappor­to di amicizia nato in un istituto.

Ha creato ed intende creare «comunità» ma­schili e femminili. In esse vivono ragazzi o ra­gazze del gruppo in comunione umana di beni, di interessi e di lavoro con ragazzi e ragazze privi di appoggio e di famiglia, ricreandone un'altra, per quanto è possibile, ricca di valori da scopri­re, di modelli ed anche di tensioni da superare. È una esperienza comune valida di coeducazione per la crescita di tutti i membri della comunità, nella misura in cui ciascuno sia disposto a met­tersi in discussione ed a imparare dagli altri.

Punta anche sulla vita sportiva: nascono così squadre di calcio, di pallavolo e di atletica leg­gera. Non mancano le gite ed i campeggi, mo­menti forti della vita di gruppo dove ognuno può responsabilizzarsi.

Tale modo di vivere viene riproposto nei circo­li ricreativi, intesi come alternativa agli ambien­ti negativi solitamente frequentati.

Nel gruppo operano coppie di sposi volte ad offrire la loro collaborazione, prima di tutto cer­cando di risolvere i problemi della propria fami­glia nella società di oggi ed eventualmente an­che proponendosi di realizzare una unità recipro­ca molto più stretta in forma di comunità di fa­miglie. Gli scopi immediati nel gruppo potrebbe­ro essere quelli di portare una maggiore sensibilizzazione alla fori-nazione affettiva, prematri­moniale nei ragazzi; ma intendono soprattutto essere disponibili alle possibilità di intervento suggerite dal gruppo stesso.

È evidente che le iniziative del gruppo esigo­no sempre di più una copertura finanziaria non indifferente, non basta il contributo che dà cia­scun membro, anche se alcuni pongono a com­pleta disposizione tutto il loro stipendio e tutta la loro persona. Da altre fonti si devono richiede­re ulteriori contribuiti.

 

Principi ed obiettivi

Il gruppo non si sostituisce agli enti pubblici nelle soluzioni parziali di loro competenza, ma intende modificarle non accettandole nell'attua­le struttura.

L'opera del gruppo è opera politica in quanto intervento di gruppo socialmente cosciente in un problema che investe la collettività.

In questo senso concretamente il gruppo:

- sensibilizza al problema il maggior numero di persone affinché ciascuno si senta correspon­sabile dell'emarginazione;

- propone a gruppi che agiscono nelle par­rocchie e nei quartieri di collaborare ad una effi­cace opera di prevenzione e di avvicinamento di ragazzi finora emarginati;

- cerca con altri gruppi che si occupano del problema linee e soluzioni comuni e contempo­raneamente le propone agli organi direttamente responsabili. Ma soprattutto ne esperimenta in proprio.

Non accetta di essere in alcun modo strumen­talizzato o di essere corresponsabile nello sfrut­tamento dei ragazzi sia pure in modo indiretto.

Pur chiamandosi gruppo «Abele», poiché un nome è necessario per indispensabili riferimen­ti, il gruppo non intende «etichettare» le pro­prie attività per non creare pregiudizi nei con­fronti e da parte dei ragazzi.

Non intende affatto legare a sé in alcun modo i ragazzi di cui si interessa, ma mira a stabilire un ponte fra il ragazzo e le persone che fino ad ora l'hanno rifiutato, rendendolo consapevole dei diritti e dei doveri che comporta una vita col­lettiva.

Offre ai ragazzi spersonalizzati dall'ambiente la possibilità di esprimere se stessi ed eventual­mente di essere parte responsabile ed attiva del­la vita del gruppo.

La maggioranza del gruppo riconosce in ciò che Cristo ha detto e fatto per l'uomo in genere e per i poveri in particolare il criterio valido ed efficace per la soluzione radicale dei problemi della nostra società.

Ritiene che la sostanza di questo messaggio esiga più persone che forme cristiane, più testi­monianze autenticamente vissute che esteriori­tà. Fa parte di questa sostanza il bisogno e la ricerca della collaborazione di chiunque condivi­da gli scopi dell'attività.

 

Stile di «vita» del gruppo

Il disadattato è una «persona in costruzio­ne», come chiunque ed è per ciò stesso con­dizionato dalle caratteristiche del rapporto di amicizia che si riesce a stabilire con lui. Egli ha assoluto bisogno della presenza di un amico col quale scoprire i veri valori della vita; che ne stimoli una presa di coscienza, altrimenti assai difficile; che lo aiuti ad «andare contro cor­rente» quanto necessario: in una parola che lo renda capace di scelte coscienti ed autonome di fronte ai fatti di ogni giorno.

Si rifiuta decisamente ogni forma di pietismo e paternalismo. Non si fa l'elemosina a nessuno, neppure di una buona parola. Riteniamo infatti che nessuno debba sentirsi o farsi sentire supe­riore. Chi ha ricevuto di più nella vita è debitore e responsabile sia verso se stesso che verso gli altri. Si tratta di amare, di collaborare con gli al­tri affinché i valori di tutti siano riconosciuti e si sviluppino rifiutando ogni calcolo di tornacon­to sia materiale che spirituale.

Non si può onestamente svolgere una tale at­tività portando con sé l'animo del «colono», del «crociato», per studio, per curiosità, per solo e generico bisogno sociale o, peggio, per fare ma nuova esperienza: sarebbe infatti un «gesto» mistificatore del bisogno di amicizia e fiducia che l'ambiente disadattato facilmente ac­corda.

È indispensabile uno stile di vita povero e coe­rente «vicina» cioè alla vita dei ragazzi. Ciò si­gnifica povertà di beni, di espressione, di atteg­giamento: la povertà. è mettersi realmente dalla parte del povero.

È importante «credere» veramente ed avere fiducia nello spirito e negli obiettivi del gruppo in quanto non si può essere se stessi di fronte agli altri portando avanti un discorso di cui non si è convinti.

Il gruppo, proprio per il genere di lavoro che svolge, ritiene indispensabile, per i suoi membri, una preparazione che non si esaurisce in un li­mitato periodo di tempo dal momento che cia­scuno deve essere sempre in atto di apprendere.

 

Perché questo documento?

Innanzi tutto per noi.

Questa non è che una delle nostre tappe di ri­pensamento: molte l'hanno preceduta e sarem­mo incoscienti se prevedessimo di non dover ri­toccare anche a fondo le linee di questo scritto. Indubbiamente le motivazioni dovranno essere approfondite e chiarite meglio, con ciò non pen­siamo di rinnegare lo spirito di partenza.

Anzi, esso sarebbe stato scarso e paco con­vincente se non si fosse rinnovato e se non fos­se oggi disponibile a fare altrettanto.

Questo documento è, in secondo luogo, diret­to a chiunque condivida anche in parte le nostre idee. Il suo contributo renderà noi e lui meno ir­responsabili di fronte ai problemi di tutti.

 

 

(1) Gruppo Abele, Via Santa Teresa 23, Torino.

 

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