Prospettive
assistenziali, n. 23, luglio-settembre 1973
NOTIZIARIO DEL CENTRO
ITALIANO PER L'ADOZIONE INTERNAZIONALE
ADOZIONE INTERRAZZIALE - PROBLEMI E PROSPETTIVE (1)
Parte prima
La presente conferenza sull'adozione
e l'affidamento familiare si propone di studiare mezzi opportuni a soddisfare
taluni dei bisogni più fondamentali ed urgenti dell'infanzia. Occorre assicurare
ad ogni bambino non solo cibo e alloggio convenienti ma anche il posto che gli
spetta e la consapevolezza del proprio valore e importanza. Ci siamo radunati
qui da molte nazioni diverse per vedere come sia
possibile garantire a tutti i bambini del mondo diritti fondamentali. In tal
modo dimostriamo che ci sentiamo tutti parte della
medesima umanità e del medesimo mondo e che ci sentiamo direttamente
responsabili dei diritti di ciascun bambino.
Per quanto membri della medesima umanità dobbiamo
tuttavia riconoscere, in questa sede, la nostra appartenenza a culture, nazionalità
e razze diverse. Il compito a noi assegnato è di stabilire se tali differenze
contribuiscono di fatto ad arricchire l'intera società
umana o se di fatto non costituiscono un formidabile ostacolo all'unità della
famiglia umana.
Daremo un senso
al nostro dibattito nella misura in cui saremo capaci di affrontare questo problema, ed è proprio per questo che non ci sarà lecito
sfuggire alle difficoltà rifugiandoci nelle consuete discussioni filosofiche
sulla fratellanza umana. Per poter decidere se l'adozione interrazziale
rappresenta semplicemente la soluzione di un problema specifico o se invece non
è la via a più importanti sviluppi dovremo affrontare
direttamente il vecchio problema di chi sono i nostri fratelli.
Se partiamo dalla premessa che il
rapporto familiare debba realizzarsi essenzialmente nell'ambito della
medesima razza, l'adozione interrazziale non potrà che apparirci come una
misura di emergenza da adottarsi solo in assenza di genitori
della stessa razza del bambino, come soluzione a un problema pratico. Se le
nostre idee sulla appartenenza razziale ci portano
invece ad ammettere la possibilità di un vero rapporto di fratellanza con
persone di razza diversa, verremo a considerare l'adozione interrazziale come
un passo verso nuove prospettive.
Per rispondere al quesito che ci sta
innanzi dobbiamo innanzitutto discutere dei concetti e
degli atteggiamenti su cui basiamo la nostra risposta. In caso contrario, le
premesse diverse da cui partiremo ci impediranno di
ottenere risultati positivi. Ciò che appare giusto all'uno in base alle sue premesse potrà sembrare errato all'altro.
Non occorre che siamo tutti
d'accordo, è chiaro. Sarebbe vano attendersi un accordo unanime su qualcosa di
così personale e soggettivo quali sono gli atteggiamenti individuali. Nessuno potrà negare che noi uomini siamo esseri eminentemente
soggettivi, propensi a credere quello a cui vogliamo credere ed a ignorare
quello che è contrario alle nostre idee. Riusciamo di solito a trovare e a
scegliere quei dati che secondo noi confermano le nostre convinzioni. Non
possiamo né dobbiamo dunque fare altro che formulare le premesse da noi scelte
nella consapevolezza che altri possano essere a volte
nel giusto e noi nell'errore. Se sapremo rispettare il punto di vista altrui potremo tutti profittare da questo scambio di vedute.
I concetti da considerarsi in una
discussione sull'adozione interrazziale non richiedono molte spiegazioni.
Dovremo discutere i nostri punti di vista sull'appartenenza razziale e vedere
quali siano gli scopi e la natura dell'adozione. Prima
però occorre formulare un concetto più fondamentale,
quello della famiglia e del come la concepiamo. Le nostre opinioni sulla
famiglia condizionano le nostre opinioni sull'adozione e le nostre opinioni
sull'adozione determinano a loro volta il nostro atteggiamento riguardo
all'adozione interrazziale.
È difficile, in una società
complessa come la nostra, dire che cosa sia la
famiglia. Atteggiamenti ereditari tendono a mescolarsi alla percezione di
nuove realtà sociali, senza contare poi che culture diverse hanno concezioni diverse sulla natura della famiglia.
Dato però che dobbiamo considerare la famiglia solo in termini di adozione ci sarà possibile
limitare ha discussione agli atteggiamenti più fondamentali, quali il
significato della famiglia riguardo ai figli. Per quanto vari,
i modi di concepire tale significato comprenderanno sempre due convinzioni
fondamentali, la prima riguardante le attenzioni dovute alla prole, la seconda
l'appartenenza della prole ai genitori di sangue. La prima convinzione
riguarda insomma la famiglia come ambiente in cui i figli crescono, la seconda come fattore di riproduzione biologica. Si tratta
di funzioni separate e distinte, benché sembra che abbiamo perso di vista
questa distinzione nel tentativo, del resto naturale,
di coordinare tali funzioni a vicenda.
Ad un certo punto della storia umana
la convinzione che i bambini hanno bisogno di genitori significò anche che i genitori debbano procreare dei figli. Questa seconda
funzione è stata vista come parallela e in certi casi anche come più importante
di quella dell'educare i propri figli. La società tende a dividersi in due
gruppi, quelli che condannano più severamente la decisione di non procreare e
quelli che riservano gli attacchi più violenti alla mancanza di cure riservate
ai figli già esistenti.
La convinzione che i genitori portano
la responsabilità dei figli è venuta a significare
che i genitori devono aspettarsi il successo dei figli e che un figlio mal
riuscito mette ipso facto i genitori in cattiva luce. L'io dei genitori divenne
coinvolto nel rapporto con i figli. Oggi giorno i genitori pensano di avere
diritto di aspettarsi che i figli accettino i valori familiari, perpetuino le
tradizioni della famiglia, ne onorino il nome e ne
ereditino i beni. Il figlio deve inoltre sposare una ragazza della stessa
classe, religione e razza. L'accento è venuto quindi a spostarsi dalla responsabilità di provvedere all'educazione del figlio
alle speranze riposte nel figlio stesso. Si è arrivati a diseredare i figli che
non si adeguano alle esigenze dei genitori sia nel senso letterale del termine
che in quello simbolico, dell'affettività.
Le speranze riposte nei figli hanno
assunto il ruolo di aspirazione all'immortalità, di
garanzia che la carne dei figli perpetuerà l'esistenza carnale dei genitori.
Leonida ebbe cura di assicurarsi che i suoi 300,
morendo alle Termopili, lasciassero eredi maschi, nella profonda convinzione
che un uomo potesse permettersi di morire volontariamente se la sua
discendenza era assicurata. Abbiamo qui un esempio classico di gente che
preferiva la riproduzione alla cura della prole, ma non
occorre risalire all'antichità per sapere che i nonni si sentono pronti alla
morte solo dopo avere avuto dei nipotini.
Ci si attende che i genitori si
prendano cura dei figli e se ciò non avviene i figli vengono
tolti ai genitori. La convinzione che i figli appartengono
ai genitori di sangue ha però anche portato all'istituzionalizzazione dei
bambini e si è fatta dipendere l'adozione dall'autorizzazione dei genitori di
sangue. Tutto questo non fa che confermare la preferenza accordata dalla
società alla famiglia biologica.
Condizionati dalla propria cultura,
gli individui si sentono obbligati a procreare e soffrono di un senso di
privazione se ciò non è loro possibile. Tanto forti sono i valori biologici che
essi possono persino non sentirsi realizzati come uomo
e come donna.
La prassi tradizionale dell'adozione
mostra che il nostro criterio di valutazione è la procreazione più che la cura
della prole. I coniugi capaci di procreare sono stati incerti circa l'opportunità
di adottare, e sia la prassi adottiva degli enti che le leggi civili riflettono
l'esitazione della società tutta intera ad affidare bambini in adozione a genitori
che, volendo, potrebbero avere figli di sangue. Cercando una famiglia per i
bambini abbandonati ci siamo sforzati di imitare le leggi della genetica e
abbiamo cercato di scegliere bambini che corrispondessero
somaticamente agli adottanti. Abbiamo scelto genitori
che secondo noi avrebbero potuto assicurare agli adottandi il tipo di vita familiare che consideravamo conveniente, vale a
dire genitori che si adeguassero ai criteri di successo da noi ritenuti validi.
Gli adottanti, d'altra parte, ci hanno chiesto bambini che potessero
assomigliare loro cioè sani, della loro stessa origine e capaci di frequentare
un giorno l'Università. Per quanto il nostro fine precipuo rimanesse la cura
degli adottandi, il sistema su cui ci siamo basati ci ha portati
a lasciare da parte proprio quei bambini che, dati gli handicap fisici, le
limitazioni mentali, le malattie, i disturbi emotivi, l'incerta o ignota
origine genetica più avrebbero avuto bisogno di cure amorose. È così che
questi bambini sono rimasti negli Istituti o presso genitori affidatari.
Un'altra conseguenza del nostro sistema sociale è stata che, nonostante il
numero di adottanti potenziali di una data razza,
molti bambini di un'altra razza restavano senza famiglia. Se
questo si è verificato, lo dobbiamo proprio alla nostra tendenza a far sì che
l'adozione segua le leggi della genetica. E quando anche venivano
fatti tali abbinamenti i bambini non venivano considerati figli allo stesso
modo dei bambini della stessa razza.
Fino a quando gli adottanti e gli
enti continueranno a considerare l'adozione un surrogato della nascita
naturale e di conseguenza ad imitare le leggi della genetica, l'adozione
interrazziale rimarrà un rimedio di emergenza, un
ripiego, in poche parale la soluzione di un problema.
Per vedere l'adozione nella
prospettiva giusta, dobbiamo riscoprire qualcosa che ci è
sfuggito in passato e separare il fine riproduttivo da quello della cura della
prole. Non si tratta semplicemente di punti di vista differenti. Le differenze
devono essere discusse e deve prevalere il punto di
vista che ci sembra più giusto. Il vero problema sta nel fatto che noi
tentiamo di vivere con due atteggiamenti diversi e che sono in
conflitto tra di loro. Le difficoltà non derivano soltanto dalle
nostre differenze di opinione, dato che tutti siamo
più o meno influenzati dalla cultura a cui apparteniamo e, come individui,
possiamo avere convinzioni contraddittorie. È possibilissimo che qualcuno abbia l'intenzione di adottare un bambino e di prendersene
cura, ma dubiti alla stesso tempo di voler fare la scelta giusta, come è anche
possibile voler adottare un bambino di razza diversa e non riuscirci a causa
della più forte tendenza a concepire la famiglia in termini biologici. Tale
conflitto di valori ci rende incerti, divisi tra tendenze contrastanti e
fondamentalmente incapaci di vivere in base alle nostre vere convinzioni.
È chiaro che esiste una distinzione
di fatto tra riproduzione e cura della prole, e che, anche concettualmente, le
due funzioni non si identificano né si condizionano a
vicenda. Procreare significa dare la vita ad un
bambino; allevare significa invece occuparsi di un bambino. Si tratta di una
distinzione che vale sia per la famiglia di sangue che per quella
adottiva. Sia i genitori di adozione che quelli
di sangue devono di necessità considerare la loro funzione parentale
come cura del figlio, accettando il figlio come essere autonomo, che si tratti
di un bambino nato da loro o nato da altri, e devono concepire la propria
funzione come un aiuto affinché il figlio trovi il suo posto nel mondo. I
genitori di sangue potrebbero essere avvantaggiati da questa
distinzione altrettanto quanto i genitori adottivi. Molti dei conflitti
tra genitori e figli devono essere imputati al fatto che il genitore coinvolge
il suo io con l'io del figlio come un prolungamento di sé. È difficile crescere
il bambino come estensione di sé. Il compito dei
genitori adottivi potrà semmai essere più semplice in quanto essi potranno più
facilmente accettare che l'adottato si affermi come essere umano autonomo.
Bisogna sottolineare
che la separazione delle due funzioni non implica minimamente un giudizio
negativo nei riguardi dell'una o dell'altra. In questo caso sarà possibile
considerare l'esperienza e i valori della riproduzione come importanti di per se stessi. Non dobbiamo lasciarci ingannare dall'idea
che la paternità o maternità sia vincolata
indissolubilmente alla generazione. Deve invece essere possibile arrivare a
considerare l'esperienza generativa e di cura della prole come indipendenti
l'una dall'altra.
Non sarà, si intende,
una cosa facile. I due fini sono per tradizione talmente
intrecciati tra di loro che non disponiamo neppure del linguaggio
adeguato a discuterne. La parola «madre» ad esempio descrive sia la donna che dà alla luce il figlio che quella che se ne prende cura.
Anche la difficoltà di trovare una parola che distingua
adeguatamente le due funzioni non fa che confermare tale difficoltà
linguistica: infatti siamo costretti a dire «madre vera» per descrivere colei
che dà la vita e «madre adottiva» o «madre affidataria»
per indicare colei che si occupa di bambini non nati da lei. Parimenti,
chiamiamo «figlio vero» o «figlio proprio» il bambino
nato nella famiglia e «adottivo» o «affidato» quello che vi giunge dopo la
nascita.
Per separare la procreazione dalla
cura del bambino dobbiamo trovare i modi per poterlo fare.
In tal modo il nostro primo compito è quello di descrivere questi due concetti
in modo che la gente possa capirli e possa fare
riferimento alla propria esperienza personale. Sembra infatti
che l'unico modo per poter capire dei concetti sia quello di riportarli ad
esperienze personali. Quando si tratta di una domanda o di un problema dobbiamo
riportare l'equazione ai suoi termini base. Nel caso dell'adozione basta porsi
una semplice domanda «cosa rende possibile per te chiamare un ragazzo figlio?».
Per rispondere si deve prima di
tutto venire a termini con il nostro atteggiamento riguardo alla
procreazione. «Il bambino deve essere nato da me perché lo possa chiamare
figlio?» sarà la mia prima domanda, seguita poi da un'altra intimamente
collegata: «Il bambino dovrà assomigliarmi fisicamente?», «dovrà
essere della mia razza e della mia nazionalità?». Si dovrà considerare ciò che
ci si aspetta da un figlio, se dovrà essere in buona salute, libero da handicap fisici, capace di realizzazioni che lo mettano
al medesimo livello del padre, si dovrà inoltre considerare il proprio
atteggiamento riguardo la cura dei figli e chiedersi se ci si può sentire padri
e chiamare il bambino nostro figlio per il fatto che ci si occupa di lui.
Il vero problema non è di conseguenza stabilire se la persona in questione
considera il bambino figlio ma piuttosto se considera se stesso un padre vero.
Tutto dipenderà dai termini in cui uno definisce se stesso. Questo è l'aspetto
che viene più spesso lasciato nell'ombra quando si
discute dei rapporti tra gruppi razziali o di altro genere. È possibile concludere che si ama il prossimo senza ricordare che le
parole che seguono l'espressione «amerai il tuo prossimo» sono veramente le
più importanti, la frase completa è «Ama il tuo prossimo come te stesso». È il
modo in cui concepiamo noi stessi che determina il
modo in cui pensiamo agli altri. Se l'idea che ci facciamo di noi stessi è
basata sul concetto di nazionalità, vedremo anche gli
altri in termini di nazionalità; se puntiamo sulla razza, vedremo innanzitutto
gli altri come membri di una razza; se puntiamo invece sul fatto che siamo
uomini, vedremo gli altri prima di tutto come uomini uguali a noi.
Il problema del concetto di sé si identifica evidentemente al problema dell'identità
personale. È possibile vedere se stessi sotto
angolazioni diverse e spesso contraddittorie. Mentre ci proclamiamo esseri
umani cerchiamo di identificarci ad un gruppo o ad un altro e sono proprio
queste diverse angolazioni che rendono problematici i
rapporti fra di noi. Possiamo benissimo voler comunicare con l'altra sulla
base della nostra umanità comune e non riuscirci proprio perché lo vediamo
nella luce di un gruppo umano diverso dal nostro.
Appare anche che i nostri concetti di identità abbiano subìto
l'influenza della tradizionale definizione biologica della famiglia, perché
non esiste dubbio che le nostre distinzioni usuali tendono a classificare la
gente in base alla razza, alla somiglianza fisica e all'ereditarietà. Si
arriva anche a pensare che i figli ereditano dai genitori di sangue
nazionalità, classe socio-economica, e religione,
tanto è vero che non consideriamo un bambino di classe inferiore adatto per
l'adozione da genitori delle classi più alte. Anche se
usiamo la consueta fraseologia - bambino da situare in ambiente atto a
sviluppare a pieno le sue capacità - in fondo quello che vogliamo dire è che
questo bambino deve avere genitori «come lui» (2).
(1) Relazione tenuta
da CLAYTON H. HAGEN, Sovraintendente
della Sezione Adozioni dei Servizi Sociali della Chiesa luterana del Minnesota
- U.S.A., alla Conferenza mondiale sull'adozione e
l'affidamento familiare (Milano, 16-19 settembre 1971).
(2) La seconda parte
dell'articolo verrà pubblicata nel prossimo numero.
www.fondazionepromozionesociale.it