Prospettive
assistenziali, n. 24, ottobre-dicembre 1973
ATTUALITÀ
L'OPERATORE
SOCIALE, MEDIATORE IMPOSSIBILE (1)
SERGE GINGER
Avendo avuto la fortuna di essere
invitato in questo paese neutrale con vocazione centenaria di mediatore
internazionale, vorrei approfittarne per intrattenermi con voi sulla funzione di mediazione in generale, ed
in particolare sul ruolo assunto dall'educatore specializzato di giovani disadattati,
intermediario volontario, o meglio, arbitro forzato, «imbrigliato» tra la
società ed il giovane disadattato.
Ben inteso analoghe considerazioni
possono essere fatte sul ruolo svolto dall'assistente sociale o l'operatore sociale in generale, al servizio a volte della società che lo
delega (e che lo paga), altre volte dei clienti
emarginati dalla società stessa.
Prima di analizzare, anche solo
superficialmente, questo ruolo di
mediazione, nel quale ci si vuole rinchiudere o che noi stessi abbiamo a
volte rivendicato certamente in modo imprudente, mediazione reale o mediazione
mitica dove il valore può essere progressista o
conservatore (vedi repressivo) ; non mi sembra quindi inutile fare il punto
della situazione. In effetti, il concetto
di educatore specializzato e più generalmente
quello di operatore sociale si è molto
evoluto da qualche anno. Vorrei quindi tentare di descrivere sommariamente
alcune tappe.
Evoluzione del
concetto di educatore specializzato
1) L'Educatore
«sorvegliante»
In un primo tempo, che possiamo situare grosso modo prima dell'ultima guerra
mondiale, la preoccupazione dominante degli educatori era di proteggere la società, proteggerla
attraverso la repressione degli
emarginati che venivano confinati negli asili o incarcerati negli istituti di rieducazione sotto la
vigilanza dei sorveglianti. Era
dunque il periodo della segregazione
quasi totale.
2) L'Educatore «monitore»
In seguito, progressivamente emerse
il concetto di educatore
specializzato. Questo avvenimento può essere concretizzato, per es. in
Francia (e voi mi vorrete scusare se mi riferirò al mio paese di origine), con l'apertura delle prime scuole di
qualificazione nel
È dello stesso periodo anche
l'apparizione dei primi centri di rieducazione di
nuovo stile con delle attività ispirate chiaramente allo scautismo come il centro di «KER
GOAT» sul quale sono stati scritti molti libri. Qualche anno più tardi, nel
1947, fu creata l'Associazione nazionale degli educatori per giovani
disadattati. In questo secondo periodo,
l'educatore si sviluppa essenzialmente come agente di cambiamento del giovane inteso inizialmente come membro
di una collettività locale: l'istituzione, e dunque trattato come elemento di
un gruppo che deve acquisire le abitudini sociali attraverso un programma di attività
imposte, siano esse domestiche o scolastiche o professionali o di tempo
libero. Era dunque un periodo essenzialmente normativo che mirava all'adattamento di ciascuno a delle norme
morali o sociali, che erano norme comuni e prestabilite.
Il cliente era dunque in una
situazione d'oggetto, a cui si forniva un aiuto e che doveva adattarsi ad una struttura a lui estranea.
Al limite egli era, a volte, un mezzo al
servizio dell'istituzione considerata come un fine, qualunque cosa se ne dica.
Per questo si parlava volentieri in quel tempo di una
istituzione che «funzionava bene» o di un gruppo che «andava bene». Era
un'epoca in cui si era soddisfatti quando
l'istituzione «funzionava», il che lasciava sottintendere che era proprio uno
dei punti principali di preoccupazione da parte dell'educatore e della direzione,
per non arrivare a dire che ne era inconsapevolmente lo scopo.
A questo stadio l'educatore aveva un
ruolo simile a quello dell'animatore
o del monitore di attività
di ricreazione e anche un ruolo comparabile sotto un certo aspetto a quello
dell'insegnante che deve fare
assimilare un certo numero di conoscenze, di abitudini esteriori che si cerca
di trasmettere ai giovani. La differenza essenziale era nel tipo particolare di
clientela, clientela disadattata, che presupponeva alcune tecniche originali di intervento. In questo periodo gli assistenti sociali, a
loro volta, offrivano parallelamente un'«assistenza»
(come il loro nome li definisce anche ai giorni
nostri), assistenza intesa come aiuto esteriore, come consigli: un rattoppo,
insomma. È questa l'epoca in cui vengono realizzati molti affidamenti sanitari o «preventivi»;
detto con altre parole si tentava di integrare gli emarginati in strutture
sociali prestabilite.
3) L'educatore
psicologo
In seguito, detto in modo
schematico, ci fu un terzo periodo:
si era stati colpiti dalla diversità dei casi, e dalla diversità
delle cause dei disturbi, il che implicava, ben inteso, una diversità di mezzi
per porvi rimedio. Si cercava pertanto di diminuire gli effetti dei gruppi, e di individualizzare i metodi. Sotto
l'influenza crescente soprattutto della psicologia
e della psicanalisi, si ricercava
l'origine delle difficoltà di ciascuno nella sua
anamnesi personale. Durante questo periodo, i refettori lasciano il posto a
sale da pranzo, i dormitori si trasformano in camere e gli istituti si
equipaggiano per permettere la differenziazione
dei ritmi di vita e per permettere dei rapporti personalizzati. Gli
istituti si suddividono in gruppi, ciascun educatore diventa responsabile di
un numero limitato di giovani, per permettere le
relazioni individuali. Detto in altro modo gli interventi da normativi
divennero a poco a poco «terapeutici».
L'educatore e l'operatore sociale si misero allora a disposizione dei giovani «all'ascolto», attenti alla loro «domanda»,
esplicita o sottintesa che bisognava allora tentare di «decodificare». Si
videro allora fiorire tecniche che si ispiravano sia
all'attitudine fondamentale psicanalitica di «neutralità» benevola, sia
all'attitudine «non direttiva» incentrata sul cliente. Tutto ciò benché
l'educatore fosse situato in effetti in un contesto
sociale, relazionale e tecnico affatto differente, poiché implicato in quanto
persona fisica nella realtà quotidiana partecipata con i giovani. Ci si era
accontentati in effetti di trasporre le tecniche di
ispirazione esteriore, senza averle adattate, senza rendersi conto che la
situazione stessa nella quale si trovava l'educatore di fronte al giovane (o
l'operatore sociale di fronte al suo cliente) era fondamentalmente diversa da
una situazione faccia a faccia in uno studio, limitata nel tempo e nello
spazio. L'educatore non era più colui che parla, ma
colui al quale si parla. E così il lavoro
dell'educatore si avvicinava a quello dello psicologo
e dello psicoterapeuta.
Gli assistenti sociali, da parte loro, seguivano un'evoluzione
parallela e si sviluppavano così le tecniche del case-work, centrate sulla
situazione individuale, sul tentativo di comprensione clinica del cliente,
avendo come corollario l'impiego di ogni tipo di tecnica di controllo, studio del caso, studio delle situazioni,
supervisione individuale o collettiva.
Questo orientamento sottolineava l'importanza fondamentale dell'educatore quale immagine di identificazione, quale supporto delle proiezioni di
transfert del giovane. Egli diventava il personaggio centrale di riferimento e
l'educatore mettendosi in questa terza ottica agiva
meglio perché egli era educatore solo in
relazione a quello che faceva. Egli aveva preso coscienza del fatto che
l'attività ha minore importanza di colui che la
propone, ed aveva pertanto rivolto la sua attenzione non più verso l'oggetto
della propria azione, ma verso il soggetto di tale azione e cioè verso se
stesso, considerando la propria
personalità come lo strumento principale del suo lavoro. Il sapere e il
saper fare non erano più sufficienti, si doveva anche
«saper essere».
L'educatore ha intrapreso dunque una lunga ricerca di se stesso, ricerca che è lungi dall'essere
ancora terminata. D'altronde in questa ricerca si confondono la ricerca della
propria identità professionale e quella della propria
identità personale. Questo periodo fu accompagnato, per quanto concerne il
primo punto, da azioni sindacali per tentare una
differenziazione dalle professioni simili, la conquista di uno statuto sociale
e di una identità professionale, e relativamente al secondo punto, dal ricorso,
sempre più generalizzato (talvolta in maniera alquanto imprudente) ad ogni
sorta di tecniche: dalla dinamica di gruppo
e dalla supervisione sino alla psicanalisi didattica in vista di una
migliore presa di coscienza della propria personalità e identità. Detto per
inciso, questo sforzo si basava in parte, mi pare, su un certo numero di
presupposti dei quali il più corrente e il più banale è che la conoscenza di sé
è sufficiente per modificare se stessi, quasi che il sapere per esempio di essere malati permettesse di per sé la guarigione di
tale malattia. Al contrario molto spesso la presa di coscienza brutale può
provocare uno stato di depressione o di scoraggiamento. Non è evidentemente
sufficiente di sapersi aggressivi o di mal sopportare gli omosessuali o i
drogati, per superare in base a tale semplice fatto i problemi posti da tale
situazione. A questo proposito vi esporrei volentieri qualche riflessione e
qualche esperienza sulla generalizzazione di psicanalisi personali da parte
degli educatori, ma non vorrei troppo dilungare la discussione, benché forte sia la tentazione di dirvi che questo orientamento
decantato talvolta come panacea, appare nella pratica parzialmente (e soltanto
parzialmente) un po' illusorio, perché non soltanto la presa di coscienza è
insufficiente, ma anche la cura individuale presenta un certo numero di inconvenienti
come per esempio una certa compiacenza narcisistica a contemplare se stessi,
distraendosi dall'azione presso gli altri. Ciò mi fa pensare a
quell'automobilista che, per essere sicuro di non avere guasti, si butta allo
studio della meccanica che insegna a smontare il motore (il che va benissimo),
ma che proprio nel momento in cui ha tutti i bulloni sparpagliati un po'
dappertutto, e la macchina non è disponibile, viene
chiamato d'urgenza.
È in qualche modo ciò che accade talvolta quando l'educatore si butta nella «dissezione» - se
mi permettete questa espressione - della propria personalità e dei suoi
problemi, cosa che potrebbe essere molto utile quando il «rimontaggio»
venga completato senza errori, ma che in certi momenti pone un serio handicap
alle sue possibilità pratiche di intervento presso i giovani.
Ciò detto tengo
a precisare, perché non vorrei affatto fosse travisato il mio pensiero, che malgrado
le difficoltà e i rischi una supervisione
approfondita o un'analisi
possono essere di grande utilità
nella misura in cui esse vengono condotte con la necessaria prudenza e quando
siano rivolte a persone per le quali ciò sembri essere indicato sin
dall'inizio. Come dicevo poco fa con l'esempio del
mio automobilista, colui che ha acquisito una buona conoscenza della meccanica
è evidentemente più protetto dai guasti e quindi si può lanciare in avventure
più pericolose, a condizione però che abbia compiuto il suo corso sulla
meccanica e che l'abbia fatto bene, e che non sia tentato da spedizioni
temerarie.
4) L'educatore «sociale»
In un quarto periodo, molto più recente, che potrebbe essere situato per
quanto concerne
Riassumendo, da questo panorama un
po' rapido dell'evoluzione della professione, si
potrebbe dedurre che la direzione della ricerca si è regolarmente spostata,
localizzandosi successivamente, prima sulla
società come entità da proteggere, poi sull'istituzione
o sul gruppo come organismi da far funzionare, in seguito sul ragazzo o sul cliente come persona
autonoma da rispettare, poi sull'educatore
come mediatore principale del rapporto. Ecco che ora il cerchio si è chiuso e
di nuovo appare in primo piano la società, ma
questa volta non solo come sfondo neutro ma rischiarata lateralmente da una
nuova luce, una luce radente che sottolinea la trama intima e non più soltanto
l'insieme del quadro e mette in rilievo la stretta interdipendenza tra l'opera
e la tela.
Questa società pare allora nelle
differenti nazioni come bisognosa di essere
trasformata e non semplicemente di essere protetta. E l'educatore certamente si interroga
sulle proprie responsabilità a tale riguardo. Egli deve assolutamente trovare
una configurazione adatta, un quadro conveniente alla propria azione, o
altrimenti dovrà cambiare lo stesso supporto invece di imbrattarlo
incessantemente con strati successivi di pittura che celano la tela, ma si
screpolano progressivamente. Questi orientamenti dominanti sul lavoro
dell'educatore si traducono d'altronde curiosamente nella successione dei temi
che sono stati svolti dal Congresso generale dell'Associazione internazionale
degli educatori, temi posti in rilievo di anno in
anno: i primi tre sono stati consacrati essenzialmente allo studio degli aspetti tecnici, vale a dire
sull'intervento degli educatori; i tre seguenti (dal 1958 al 1963) sono stati
consacrati all'educatore stesso, al
suo perfezionamento, alla sua formazione, alla sua igiene mentale; l'ultimo è
stato dedicato al suo ruolo sociale.
Il prossimo tema non è ancora stato definitivamente fissato, ma tra i progetti
che sembrano attrarre l'attenzione attualmente, appare
come ci si poteva attendere un tema di tipo sociale, le forme nuove del
disadattamento (la droga, ecc...).
Ciascuna di queste tendenze si è
d'altronde aggiunta alle precedenti,
senza tuttavia soppiantarle ed è così che attualmente
si ritiene l'educatore nello stesso
tempo responsabile del giovane
disadattato, responsabile di se
stesso, e responsabile della società
nella quale essi si evolvono. Con un tale programma, la
disoccupazione è ben lungi dal nostro lavoro.
Tentativi di
definizione
Che cosa è dunque in definitiva questo
«educatore specializzato» che non si vuole né consigliere, né animatore, né
insegnante, né psicologo, né terapeuta, né assistente sociale? Chi è questo
nuovo venuto che non molti anni fa veniva negativamente definito come «colui che ha la responsabilità dei giovani al di fuori delle
ore di studio e di laboratorio» e che ora rivendica responsabilità via via crescenti in un campo sempre più largo?
Non è d'altronde per caso se da
venticinque anni l'educatore non ha mai potuto o mai voluto definirsi con
precisione temendo senza dubbio di rinchiudersi troppo presto in concetti rapidamente superati, preferendo adattare la
propria azione ai bisogni in movimento di una gioventù e di una società in
continua evoluzione. Non vorrei tentare la ricerca di una definizione, tanto
più che un umorista inglese ha detto che «definire è
circondare di un muro di parole un terreno vuoto di idee». Tuttavia mi pare
interessante tentare una rapida analisi
critica delle diverse definizioni avanzate qua e là. Quanto
meno delle definizioni in lingua francese delle quali nessuna ha riportato
l'unanimità. Noi potremmo tuttavia cercare d'essere un denominatore
comune, e tentare di seguire la traccia di una certa
evoluzione della professione. Una delle prime definizioni non negative che ho
potuto ritrovare viene proprio di qui, da Losanna
nel 1954, dove il Centro di formazione degli educatori definiva l'educatore
specializzato come « una persona incaricata dell'educazione dei ragazzi
disadattati affidati ai centri specializzati per il riadattamento ». Definizione
che ha sì il vantaggio di essere semplice, ma che non
apporta ancora evidentemente elementi molto precisi, e che si limita a delle
misure di collocamento in un'istituzione.
Otto anni più tardi noi ritroviamo al Congresso
dell'U.N.A.R. a Lione nel 1962 un tentativo di
definizione che presenta tutti gli inconvenienti di cui la prima è priva, vale
a dire che è complessa e troppo precisa. Vi si dice che l'educatore specializzato dei giovani disadattati
è un operatore sociale, un tecnico delle relazioni umane che contribuisce, in
collaborazione costante con gli altri tecnici del servizio o dell'istituzione,
sia all'aiuto, alla ristrutturazione e alla evoluzione della personalità, sia
alla normalizzazione dei rapporti sociali dei giovani che gli sono stati affi-dati,
utilizzando soprattutto la relazione individuale e le interrelazioni di gruppo
attraverso gli atti della vita quotidiana e altre attività dirette e spontanee.
Fortunatamente il programma di esami non impone di imparare questa definizione a memoria!
Era tutta una sintesi delle proposte
di ottocento congressisti e si era voluto soddisfare
tutti quanti. In questa definizione tuttavia si rileva un certo numero di
nozioni relativamente nuove e importanti e che ben inteso sono state poi contestate.
Vi si trova il termine «operatore sociale» che è stato rapidamente discusso
perché, dopo tutto, ci si domanda perché l'educatore
sarebbe un operatore sociale e perché l'assistente sociale non potrebbe essere
un «operatore educativo» per esempio. Altri dicono ancora che dopo tutto
l'operatore sociale è anche «un operatore psicologico»,
«sanitario» e che, in fondo, è già un orientamento il privilegiare un
intervento di tipo sociale. Tornerò d'altronde su questo argomento
ben presto. Si dice poi in questa definizione che
egli è un «tecnico delle relazioni umane»,
ma molti hanno subito protestato contro la nozione di «tecnico» preferendo
quella di «esperto» nel timore di un tecnico «in camice bianco» che consideri
il giovane come una cavia da sezionare. Appare anche in questa definizione del
1962, la nozione di équipe
in costante collaborazione con gli altri tecnici. Appare ancora il doppio ruolo del quale non riusciamo a disfarci e sul quale rifletteremo soprattutto oggi, evoluzione
della personalità da una parte e normalizzazione dei rapporti sociali
dall'altra. Infine interviene ancora la nozione di «terapia attraverso la vita di tutti i giorni» che è senza dubbio
l'aspetto più specifico dell'educatore specializzato. lo
salto poi ad una definizione canadese del
1969, che descrive «lo psico-educatore» come una
persona che fornisce al pubblico servizi professionali nei quali applica i
principi e le tecniche della psico-pedagogia in vista della rieducazione delle
persone disadattate, facendo loro vivere gli atti ordinari della vita in un
ambiente idoneo e facendole partecipare ad attività psico-educative.
Ci ricorda talvolta la definizione
di Binet e Simon dell'intelligenza: «l'intelligenza è
ciò che viene misurato dai nostri test»; insomma
quando si rilegge più volte la definizione canadese, si vede che lo psico-educatore è colui che fa dell'educazione «psico-educativa». Una definizione unica dovrebbe
raccogliere le differenti categorie di educatori, e
ricordo che ad un Congresso di educatori francesi a Tolosa nel 1964 sono state
enumerate più di trecento differenti
situazioni nelle quali si trovavano gli educatori specializzati secondo il
tipo dei giovani dei quali si
occupavano (deboli, caratteriali, delinquenti, ecc...), secondo l'ambiente nel
quale lavoravano (focolari, internati, semiconvitti, ospedali, prigioni, e
così via) e secondo le funzioni
specifiche dell'educatore (educatore di gruppo, educatore scolastico, tecnico,
incaricato di direzione, e così via) .
Raccogliendo tutte queste categorie,
una definizione dovrebbe permettere di differenziare il mestiere di educatore dalle professioni parallele, come le altre
categorie di operatori sociali dei terapeuti o dagli insegnanti.
Se si ricercano i temi comuni di
differenti tentativi di proposta di definizioni, si rileva in ciò che concerne
gli obiettivi, da una parte un'azione
sulla persona e dall'altra parte un'azione che
tiene conto di un ambiente sociale (aiutare insomma
ciascuno a diventare «se stesso» restando tuttavia «con gli altri», con gli
altri, ma non necessariamente in piena conformità con gli altri) .
Sembrerebbe questo il denominatore
comune in quanto agli obiettivi. Per ciò che concerne i mezzi, si nota un po' dovunque la nozione di intervento globale, attraverso una relazione costante e a
partire da una partecipazione più o meno intensa della vita quotidiana. È la
nozione di esperto
della relazione costante o di terapeuta
della vita di tutti i giorni. Tutto ciò ha indotto il comitato tecnico
dell'associazione internazionale a formulare una definizione, alla quale io mi
permetterei di proporre un ritocco, in seguito al Congresso di Versailles, che
darebbe la formulazione provvisoria che segue:
«L'educatore specializzato ha
per funzione di favorire lo sviluppo della personalità e la maturazione
sociale dei giovani disadattati mediante diverse attività o situazioni che egli
divide con essi sia in un'istituzione o in un
servizio, sia nel loro ambiente naturale di vita e tutto questo con un'azione congiunta sul giovane e sull'ambiente».
Secondo i casi, l'accento potrà
essere messo più su un aspetto o più sull'altro, come per esempio sullo sviluppo
della personalità o piuttosto sull'adattamento sociale, o ancora sull'azione da
intraprendere sulla società stessa per renderla più tollerabile o più
tollerante nei confronti degli emarginati.
L'educatore e la
società
L'ultimo Congresso internazionale e
gli avvenimenti mondiali attuali sottolineano una
volta di più a qual punto l'educatore del 1971 non può più accontentarsi di far
adattare questi giovani disadattati alle norme di una società ammalata, (a meno
che essa non sia al contrario - come è il caso ancora di qualche nazione
rimasta isolata - un po' «surgelata»), società alla quale l'educatore
rimprovera sovente certe strutture se non addirittura i fondamenti, e che egli
ritiene a volte responsabile in parte degli stessi disadattamenti. Penso per
esempio ai fenomeni sociali quali la droga, la droga chimica propriamente
detta, o la «droga mentale» attraverso la televisione, i mass media, la
pubblicità, ecc., l'educatore del giorno d'oggi non
vuole più essere la buona coscienza di
una società miope. Non vuole più essere quello che ripara provvisoriamente
ciò che essa stessa ha contribuito a demolire. Tanto meno richiede la
riconoscenza ambigua di questa società, la valorizzazione superficiale e
discolpante del lavoro di coloro che sottolineandone le carenze
ricordano, per il semplice fatto della loro esistenza, la presenza di tutti
gli emarginati. In effetti, la semplice presenza degli educatori, è un po' come
quella degli operai venuti a riparare una casa e che, per la loro attività, sottolineano che l'edificio è in cattivo stato: si è
riconoscenti agli operai di impedirne il crollo, ma nello stesso tempo si è
seccati di vedere tanti operai sul posto testimoni del cattivo stato della
struttura. E infine l'educatore si riconosce anche lui sempre più spesso come
un «emarginato», contaminato dal contatto permanente di una frangia sociale e
da una implicazione profonda indispensabile alle sue
funzioni. A forza di prendere le parti del proprio cliente l'avvocato finisce di sentirsi giudicato come lui, dando ragione
al grande pubblico che in un settore parallelo
identifica sovente lo psichiatra con il pazzo da lui curato.
Dopo aver tentato di essere per il
giovane disadattato un'immagine di identificazione,
l'educatore non sarà forse a sua volta
in via di identificazione con il
giovane disadattato? A forza di temere un conformismo passivo e complice,
l'educatore non si sarà suo malgrado alienato in una rivolta permanente e
insolubile?
L'educatore, mediatore
impossibile
Come meravigliarsi allora del
disagio sempre più profondo dell'educatore? Situato come è
al centro dei conflitti, nel luogo
geometrico delle contraddizioni, contraddizioni del disadattato con se
stesso, della società con se stessa come anche dell'uno di fronte all'altra,
egli è un mediatore impossibile tra
il gruppo e l'individuo, condannato al perpetuo
compromesso tra la normalità fatiscente e la marginalità inquietante.
Deve egli accettare il compromesso e
tentare di conciliare disperatamente l'inconciliabile, diviso
egli stesso nel conflitto, essendo egli stesso in qualche modo un collante
problematico, assumendo interiormente le contraddizioni, divenute
inevitabili, per confortare farse per qualche tempo ancora i meno adatti a
sormontarle?
Questo ruolo sconfortante di arbitro tra la
società e l'individuo è stato da lui scelto, ma come esplicarlo ora?
L'arbitro ha per funzione il
regolamento dei conflitti oppure deve organizzare
il confronto? L'arbitro del calcio o del rugby per esempio deve conciliare gli avversari oppure fischiare i falli
dei giocatori delle due parti?
Il ruolo dell'educatore
specializzato è forse di adattare a qualunque costo ciascun individuo alla
società? Come diceva Bernard Shaw,
«l'uomo ragionevole si adatta all'ambiente, soltanto l'uomo irragionevole
tenta di adattare l'ambiente a se stesso; è perciò che ogni progresso è opera di imbecilli».
Non è affatto evidente che si debba sempre
conciliare, consolare, rassicurare, curare le piaghe... Forse è venuto il suo
momento se non di condannare, quanto meno di prendere partito senza posizioni
aprioristiche. Si può essere allo stesso tempo neutri e attivi. L'arbitro, sul terreno non rimane inerte: corre avanti la mischia, è testimone e giudice, è un terzo, che si
pone al di fuori, più maturo, a uguale distanza tra la società e il suo
sistema da una parte, gli emarginati e la loro contestazione dall'altra,
contestazione talvolta cieca nella sua collera. Il suo ruolo è forse quello
di permettere loro di confrontarsi lealmente e di non confondersi in una simbiosi regressiva, in una fusione
rassicurante, ma primitiva. La società che partorisce l'individuo e che poi
tenta disperatamente di trattenerlo nel suo seno, non è forse come la madre che
non vuole separarsi dal suo bambino e che gli impedisce di crescere? La
conquista della propria identità passa obbligatoriamente attraverso il
confronto, attraverso un confronto cosciente e volontario nel quale ciascuno precisa le proprie posizioni, non attraverso un'anarchia
esasperata e demolitrice e tanto meno attraverso un conformismo superficiale e
sterile. In questo caso il ruolo dell'educatore o dell'operatore sociale che
incarna in se stesso i conflitti fondamentali, non dovrebbe essere forse al giorno d'oggi quello di un fermento sociale, un fermento di risveglio e di vigilanza? Non è
forse la sua vocazione quella di mobilitare
invece di anestetizzare o di insterilire? Non di scatenare la conflittualità
né di alimentarla, ma almeno di permetterla
invece di mascherarla. «Un po’ di crisi vale più di molta organizzazione»
dice Nourissier.
L'educatore e i nuovi
valori
Una mutazione dolorosa è sovente
necessaria alla crescita. Non si può più vivere chiusi in una vecchia pelle
disseccata, entro valori decaduti, con la testa sotterrata nella sabbia e senza
vedere che il numero
degli analfabeti nel mondo cresce di anno in anno, come anche quello degli
affamati perché il numero delle nascite è largamente eccedente rispetto ai
servizi e alle strutture sociali e culturali del mondo. In questo mondo in rapido cambiamento o addirittura in
«esplosione» non si può dimenticare che se l'incremento demografico continuasse con il ritmo attuale, entro appena trecento
anni la densità della popolazione sull'insieme delle superfici emerse sarà pari
a quella che si ritrova sul metrò di New York nelle ore di punta; vale a dire
che noi saremo morti prima, se non verranno prese delle misure radicali. Mentre questo mondo è in drammatica progressione geometrica,
noi chiudiamo gli occhi e ci attacchiamo disperatamente a valori di ieri
scaduti, mentre la messa in causa diventa un antidoto necessario.
L'educatore deve trovare dei nuovi valori di riferimento. Nel
momento in cui il risparmio è cattiva gestione, il rispetto dei più vecchi
diventa conservatorismo, nel momento in cui il nuovo mito dell'eterna gioventù
esautora quello del saggio, nel momento in cui l'autorità è screditata, e
l'obbedienza è identificata alla sottomissione
passiva, nel momento in cui la patria cede il posto all'internazionalismo in
cui la stessa libertà s'inchina davanti alla solidarietà, quali dei valori
fondamentali sopravvivono nella nostra epoca? Che cosa resta
di un sapere costantemente superato e costantemente contestato? Vi
ricordo che viene ammesso oggi che il volume totale
delle conoscenze umane raddoppia ogni quattro anni. Diciamo cioè che nel 2007 il volume delle conoscenze sarebbe mille
volte superiore a quello d'oggi e tutta la scienza attuale parrà ridicolmente
trascurabile.
La nostra sola certezza è che domani sarà molto differente da oggi.
Educare i giovani a diventare uomini
dell'anno 2000, è tentare di prepararli ad un adattamento sempre più rapido, a
delle situazioni sempre nuove. Paradossalmente il solo valore fondamentale diviene oggi quello del cambiamento. Ed è per
questo che l'educazione si oppone sempre più all'istruzione perché nel termine
stesso di educazione
si trova la nozione etimologica di creatività, «exducere», portare fuori, far
uscire dal bambino ciò che ha in se stesso, al contrario di quello che era la nozione di istruzione, cioè mettere all'interno di
strutture date, strutture attualmente decadute. Ciò non vuole dire dunque che
l'educatore non è più che un rivelatore (nel senso fotografico del termine) o
un catalizzatore neutro che
semplicemente favorisce certe reazioni? O vuol dire che egli deve essere un semplice specchio del quale
l'unico ruolo sarebbe quello di permettere ai giovani di meglio conoscere se
stessi e di seguire la propria via anche se essa fosse esplicitamente
patologica o antisociale? lo personalmente non lo
penso. lo penso che l'educatore ha scelto una
posizione esposta, ma privilegiata: quella di vivere con il giovane e non quella di pensare stando di fronte a lui o vicino a lui.
Non direttività e impegno
L'educatore è un uomo d'azione impegnato, e non solo un
uomo di pensiero, che si droga con l'analisi, la critica o l'autocritica, che
gli servono da paravento confortevole, ma
paralizzante, per una prudente ritirata.
Una
concezione stretta della non direttività per un certo «rispetto dell'altro»,
ci sembra in realtà che sovente copra un non rispetto
dell'altro che viene considerato in anticipo come incapace di resistere da sé,
all'occorrenza, alla nostra presa di posizione. Effettivamente, se io non oso
dare il mio parere al cliente che è di fronte a me, è perché immagino in
anticipo che egli vi si conformerà; io lo considero dunque a priori un debole,
un suggestionabile e ciò è appunto «il non rispetto
degli altri». Il giovane disadattato è troppo immaturo o troppo handicappato
per poter decidere da solo (per esempio se è un insufficiente mentale); allora
ha bisogno del mio appoggio attivo, oppure egli è suscettibile di adottare un
punto di vista autonomo e in questo caso ha il diritto di conoscere la mia posizione anche se non la farà propria.
E così la norma rimane necessaria sia che venga
seguita o trasgredita. Essa d'altronde deve essere sovente trasgredita, ma
perché la trasgressione sia possibile, è necessario che le prese di posizione
siano sufficientemente nette, il che porrà in evidenza, soprattutto per quanto
concerne gli educatori, i guasti e le devastazioni attuali di una falsa
concezione della «non direttività». In quanto
educatori noi abbiamo, io credo, non solo il «diritto» di intervento
ma un «dovere» di intervento, che implica ben inteso la reciprocità, vale a
dire che il giovane (o più generalmente il cliente) ha anch'egli il diritto e il
dovere di affermarsi. Uscendo allora da un'attitudine
di aiuto paternalistico o superprotettivo, l'educatore diviene colui che cerca
e che partecipa e non colui che guida o che vieta. Questo «dovere» di intervento viene esercitato dall'educatore non soltanto
sul ragazzo isolato, ma anche nella
società e sulla società. Alla segregazione rassicurante dei
disadattati nel ghetto degli istituti specializzati, sarebbe ora di sostituire
progressivamente la loro integrazione
prudente nella collettività che vive normalmente.
«L'educatore specializzato» non vuole più essere «specializzato»,
ma al contrario polivalente,
largamente aperto ai diversi disadattamenti così come all'ambiente al quale si
vorrebbe adattare. La sua specializzazione sarebbe di non averne
affatto. Egli sarebbe insomma il «generalizzatore della rieducazione», l'esperto di una relazione globale di fronte agli altri tecnici dell'équipe di psicopedagogia medico-sociale maggiormente
specializzati ciascuno nel suo proprio settore. L'educatore non può più
limitare la sua azione ai giovani disadattati situati in istituti, ma si vede
spinto a intervenire fuori degli istituti, sugli
adulti come sui giovani, su tutti quelli che sono già disadattati, o in via di
diventarlo... oppure ancora non coscienti di esserlo. Egli non è un educatore
specializzato (mi domando d'altronde in che cosa sia specializzato)
ma è bensì uno specialista
dell'educazione, senza dubbio il solo professionista che si sia formato
lungamente sull'educazione, perché gli insegnanti hanno ancora, nella maggior
parte dei paesi, una formazione più centrata sul dovere che sulla relazione,
più preoccupata delle tecniche che della persona dei loro allievi. Quanto agli assistenti sociali rimane aperto il problema di sapere
se non siano essi in realtà degli educatori che non si riconoscono. Al
termine di queste poche riflessioni non ho affatto la
pretesa di avere chiarito il problema; ne sono ugualmente lieto. Perché noi non
ricerchiamo la vana soddisfazione narcisistica di aver intravisto delle
soluzioni semplici, al contrario la nostra sola ambizione è di sottolineare i problemi.
Credo che il clima di «compromesso
elvetico» mi permetta di farlo qui senza passare tuttavia per un «agitatore
rivoluzionario». La vostra società tollerante può senza dubbio, o quanto meno lo spero, ammettere di essere un po' «scossa»,
senza reagire con una alzata di spalle ansiosa o repressiva, come si è visto
altrove.
Io rivendico per l'educatore una posizione di arbitro
implacabile, attento ai problemi
sociali come ai problemi individuali, sottolineandoli senza debolezze né compromessi, assumendo deliberatamente il
proprio ruolo di «disturbatore», di colui che impedisce di «girare in tondo»,
perché girare in tondo non è un mezzo per avanzare, ma piuttosto per stordirsi
e cadere un giorno inanimati dopo aver troppo lungamente tenuto gli occhi
chiusi.
(1) Conferenza tenuta
da Serge Ginger, Presidente del Comitato tecnico
dell'Associazione internazionale educatori per giovani disadattati, il 16-2-
La relazione può
costituire un utile punto di riferimento e di discussione sulla figura
dell'educatore specializzato, anche se soprattutto nelle conclusioni alcune
affermazioni possono suscitare delle giustificate riserve.
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