Prospettive assistenziali, n. 24, ottobre-dicembre 1973

 

 

ATTUALITÀ

 

L'OPERATORE SOCIALE, MEDIATORE IMPOSSIBILE (1)

SERGE GINGER

 

 

Avendo avuto la fortuna di essere invitato in questo paese neutrale con vocazione centenaria di mediatore internazionale, vorrei approfittarne per intrattenermi con voi sulla funzione di media­zione in generale, ed in particolare sul ruolo as­sunto dall'educatore specializzato di giovani di­sadattati, intermediario volontario, o meglio, ar­bitro forzato, «imbrigliato» tra la società ed il giovane disadattato.

Ben inteso analoghe considerazioni possono essere fatte sul ruolo svolto dall'assistente so­ciale o l'operatore sociale in generale, al servizio a volte della società che lo delega (e che lo pa­ga), altre volte dei clienti emarginati dalla so­cietà stessa.

Prima di analizzare, anche solo superficialmen­te, questo ruolo di mediazione, nel quale ci si vuole rinchiudere o che noi stessi abbiamo a vol­te rivendicato certamente in modo imprudente, mediazione reale o mediazione mitica dove il va­lore può essere progressista o conservatore (ve­di repressivo) ; non mi sembra quindi inutile fa­re il punto della situazione. In effetti, il concetto di educatore specializzato e più generalmente quello di operatore sociale si è molto evoluto da qualche anno. Vorrei quindi tentare di descrivere sommariamente alcune tappe.

 

Evoluzione del concetto di educatore specializzato

 

1) L'Educatore «sorvegliante»

In un primo tempo, che possiamo situare grosso modo prima dell'ultima guerra mondiale, la preoccupazione dominante degli educatori era di proteggere la società, proteggerla attraverso la repressione degli emarginati che venivano confinati negli asili o incarcerati negli istituti di rieducazione sotto la vigilanza dei sorveglianti. Era dunque il periodo della segregazione quasi totale.

 

2) L'Educatore «monitore»

In seguito, progressivamente emerse il con­cetto di educatore specializzato. Questo avveni­mento può essere concretizzato, per es. in Francia (e voi mi vorrete scusare se mi riferirò al mio paese di origine), con l'apertura delle pri­me scuole di qualificazione nel 1942 in differenti città: Tolosa, Parigi, Montpellier, Lione.

È dello stesso periodo anche l'apparizione dei primi centri di rieducazione di nuovo stile con delle attività ispirate chiaramente allo scautismo come il centro di «KER GOAT» sul quale sono stati scritti molti libri. Qualche anno più tardi, nel 1947, fu creata l'Associazione nazionale de­gli educatori per giovani disadattati. In questo secondo periodo, l'educatore si sviluppa essen­zialmente come agente di cambiamento del gio­vane inteso inizialmente come membro di una collettività locale: l'istituzione, e dunque tratta­to come elemento di un gruppo che deve acquisi­re le abitudini sociali attraverso un programma di attività imposte, siano esse domestiche o scola­stiche o professionali o di tempo libero. Era dun­que un periodo essenzialmente normativo che mirava all'adattamento di ciascuno a delle nor­me morali o sociali, che erano norme comuni e prestabilite.

Il cliente era dunque in una situazione d'ogget­to, a cui si forniva un aiuto e che doveva adattar­si ad una struttura a lui estranea.

Al limite egli era, a volte, un mezzo al servizio dell'istituzione considerata come un fine, qualun­que cosa se ne dica. Per questo si parlava vo­lentieri in quel tempo di una istituzione che «funzionava bene» o di un gruppo che «anda­va bene». Era un'epoca in cui si era soddisfatti quando l'istituzione «funzionava», il che lascia­va sottintendere che era proprio uno dei punti principali di preoccupazione da parte dell'educa­tore e della direzione, per non arrivare a dire che ne era inconsapevolmente lo scopo.

A questo stadio l'educatore aveva un ruolo si­mile a quello dell'animatore o del monitore di at­tività di ricreazione e anche un ruolo compara­bile sotto un certo aspetto a quello dell'insegnan­te che deve fare assimilare un certo numero di conoscenze, di abitudini esteriori che si cerca di trasmettere ai giovani. La differenza essenziale era nel tipo particolare di clientela, clientela di­sadattata, che presupponeva alcune tecniche ori­ginali di intervento. In questo periodo gli assi­stenti sociali, a loro volta, offrivano parallela­mente un'«assistenza» (come il loro nome li de­finisce anche ai giorni nostri), assistenza intesa come aiuto esteriore, come consigli: un rattop­po, insomma. È questa l'epoca in cui vengono realizzati molti affidamenti sanitari o «preventi­vi»; detto con altre parole si tentava di integrare gli emarginati in strutture sociali prestabilite.

 

3) L'educatore psicologo

In seguito, detto in modo schematico, ci fu un terzo periodo: si era stati colpiti dalla diversità dei casi, e dalla diversità delle cause dei distur­bi, il che implicava, ben inteso, una diversità di mezzi per porvi rimedio. Si cercava pertanto di diminuire gli effetti dei gruppi, e di individualiz­zare i metodi. Sotto l'influenza crescente soprat­tutto della psicologia e della psicanalisi, si ri­cercava l'origine delle difficoltà di ciascuno nel­la sua anamnesi personale. Durante questo pe­riodo, i refettori lasciano il posto a sale da pran­zo, i dormitori si trasformano in camere e gli isti­tuti si equipaggiano per permettere la differen­ziazione dei ritmi di vita e per permettere dei rapporti personalizzati. Gli istituti si suddividono in gruppi, ciascun educatore diventa responsabi­le di un numero limitato di giovani, per permette­re le relazioni individuali. Detto in altro modo gli interventi da normativi divennero a poco a poco «terapeutici». L'educatore e l'operatore sociale si misero allora a disposizione dei giovani «all'ascolto», attenti alla loro «domanda», esplici­ta o sottintesa che bisognava allora tentare di «decodificare». Si videro allora fiorire tecniche che si ispiravano sia all'attitudine fondamentale psicanalitica di «neutralità» benevola, sia all'attitudine «non direttiva» incentrata sul clien­te. Tutto ciò benché l'educatore fosse situato in effetti in un contesto sociale, relazionale e tecni­co affatto differente, poiché implicato in quanto persona fisica nella realtà quotidiana partecipata con i giovani. Ci si era accontentati in effetti di trasporre le tecniche di ispirazione esteriore, senza averle adattate, senza rendersi conto che la situazione stessa nella quale si trovava l'edu­catore di fronte al giovane (o l'operatore sociale di fronte al suo cliente) era fondamentalmente diversa da una situazione faccia a faccia in uno studio, limitata nel tempo e nello spazio. L'edu­catore non era più colui che parla, ma colui al quale si parla. E così il lavoro dell'educatore si avvicinava a quello dello psicologo e dello psi­coterapeuta.

Gli assistenti sociali, da parte loro, seguivano un'evoluzione parallela e si sviluppavano così le tecniche del case-work, centrate sulla situazione individuale, sul tentativo di comprensione clini­ca del cliente, avendo come corollario l'impiego di ogni tipo di tecnica di controllo, studio del ca­so, studio delle situazioni, supervisione indivi­duale o collettiva.

Questo orientamento sottolineava l'importanza fondamentale dell'educatore quale immagine di identificazione, quale supporto delle proiezioni di transfert del giovane. Egli diventava il personag­gio centrale di riferimento e l'educatore metten­dosi in questa terza ottica agiva meglio perché egli era educatore solo in relazione a quello che faceva. Egli aveva preso coscienza del fatto che l'attività ha minore importanza di colui che la propone, ed aveva pertanto rivolto la sua atten­zione non più verso l'oggetto della propria azio­ne, ma verso il soggetto di tale azione e cioè ver­so se stesso, considerando la propria personalità come lo strumento principale del suo lavoro. Il sapere e il saper fare non erano più sufficienti, si doveva anche «saper essere».

L'educatore ha intrapreso dunque una lunga ricerca di se stesso, ricerca che è lungi dall'es­sere ancora terminata. D'altronde in questa ri­cerca si confondono la ricerca della propria identità professionale e quella della propria identità personale. Questo periodo fu accompagnato, per quanto concerne il primo punto, da azioni sindaca­li per tentare una differenziazione dalle profes­sioni simili, la conquista di uno statuto sociale e di una identità professionale, e relativamente al secondo punto, dal ricorso, sempre più genera­lizzato (talvolta in maniera alquanto imprudente) ad ogni sorta di tecniche: dalla dinamica di grup­po e dalla supervisione sino alla psicanalisi di­dattica in vista di una migliore presa di coscien­za della propria personalità e identità. Detto per inciso, questo sforzo si basava in parte, mi pare, su un certo numero di presupposti dei quali il più corrente e il più banale è che la conoscenza di sé è sufficiente per modificare se stessi, quasi che il sapere per esempio di essere malati per­mettesse di per sé la guarigione di tale malat­tia. Al contrario molto spesso la presa di co­scienza brutale può provocare uno stato di de­pressione o di scoraggiamento. Non è evidente­mente sufficiente di sapersi aggressivi o di mal sopportare gli omosessuali o i drogati, per su­perare in base a tale semplice fatto i problemi posti da tale situazione. A questo proposito vi esporrei volentieri qualche riflessione e qualche esperienza sulla generalizzazione di psicanalisi personali da parte degli educatori, ma non vor­rei troppo dilungare la discussione, benché for­te sia la tentazione di dirvi che questo orienta­mento decantato talvolta come panacea, appa­re nella pratica parzialmente (e soltanto parzial­mente) un po' illusorio, perché non soltanto la presa di coscienza è insufficiente, ma anche la cura individuale presenta un certo numero di in­convenienti come per esempio una certa compia­cenza narcisistica a contemplare se stessi, di­straendosi dall'azione presso gli altri. Ciò mi fa pensare a quell'automobilista che, per essere si­curo di non avere guasti, si butta allo studio del­la meccanica che insegna a smontare il motore (il che va benissimo), ma che proprio nel mo­mento in cui ha tutti i bulloni sparpagliati un po' dappertutto, e la macchina non è disponibile, viene chiamato d'urgenza.

È in qualche modo ciò che accade talvolta quando l'educatore si butta nella «dissezione» - se mi permettete questa espressione - della propria personalità e dei suoi problemi, cosa che potrebbe essere molto utile quando il «rimontaggio» venga completato senza errori, ma che in certi momenti pone un serio handicap alle sue possibilità pratiche di intervento presso i gio­vani.

Ciò detto tengo a precisare, perché non vorrei affatto fosse travisato il mio pensiero, che mal­grado le difficoltà e i rischi una supervisione ap­profondita o un'analisi possono essere di grande utilità nella misura in cui esse vengono condotte con la necessaria prudenza e quando siano rivol­te a persone per le quali ciò sembri essere indi­cato sin dall'inizio. Come dicevo poco fa con l'e­sempio del mio automobilista, colui che ha acqui­sito una buona conoscenza della meccanica è evidentemente più protetto dai guasti e quindi si può lanciare in avventure più pericolose, a condi­zione però che abbia compiuto il suo corso sulla meccanica e che l'abbia fatto bene, e che non sia tentato da spedizioni temerarie.

 

4) L'educatore «sociale»

In un quarto periodo, molto più recente, che potrebbe essere situato per quanto concerne la Francia, per esempio a partire dal maggio 1968, è venuto in evidenza in modo brutale, forse an­che troppo brutale, il fatto che l'azione dell'edu­catore non era semplicemente un'azione indivi­duale su certi ragazzi, ma che tale azione non poteva essere staccata dal contesto sociale e po­litico nel quale viene esercitata e che di conse­guenza l'educatore è direttamente implicato nel­la evoluzione dell'intera società. Questo è stato d'altronde uno dei temi principali del recente congresso internazionale degli educatori conclu­sosi a Versailles l'anno scorso. Parallelamente, anche gli assistenti sociali si aprono alle realtà sociali, economiche e politiche con una rapidità che si differenzia parecchio da una nazione all'altra, in modo forse collegato alla ripartizione dei sessi. Mi è parso così per esempio, che in Svizzera gli assistenti sociali fossero più sensi­bilizzati e più vicini ai problemi politici e sociali (come è d'altronde normale per il ruolo da essi svolto) che gli educatori specializzati, mentre in Francia vanno molto più lentamente, ritardo che può essere spiegato tra l'altro dalla grande maggioranza femminile tra gli assistenti sociali in Francia...

Riassumendo, da questo panorama un po' ra­pido dell'evoluzione della professione, si potreb­be dedurre che la direzione della ricerca si è re­golarmente spostata, localizzandosi successiva­mente, prima sulla società come entità da pro­teggere, poi sull'istituzione o sul gruppo come organismi da far funzionare, in seguito sul ra­gazzo o sul cliente come persona autonoma da rispettare, poi sull'educatore come mediatore principale del rapporto. Ecco che ora il cerchio si è chiuso e di nuovo appare in primo piano la società, ma questa volta non solo come sfondo neutro ma rischiarata lateralmente da una nuova luce, una luce radente che sottolinea la trama in­tima e non più soltanto l'insieme del quadro e mette in rilievo la stretta interdipendenza tra l'opera e la tela.

Questa società pare allora nelle differenti na­zioni come bisognosa di essere trasformata e non semplicemente di essere protetta. E l'educa­tore certamente si interroga sulle proprie re­sponsabilità a tale riguardo. Egli deve assoluta­mente trovare una configurazione adatta, un qua­dro conveniente alla propria azione, o altrimenti dovrà cambiare lo stesso supporto invece di im­brattarlo incessantemente con strati successivi di pittura che celano la tela, ma si screpolano progressivamente. Questi orientamenti dominan­ti sul lavoro dell'educatore si traducono d'altron­de curiosamente nella successione dei temi che sono stati svolti dal Congresso generale dell'As­sociazione internazionale degli educatori, temi posti in rilievo di anno in anno: i primi tre sono stati consacrati essenzialmente allo studio de­gli aspetti tecnici, vale a dire sull'intervento de­gli educatori; i tre seguenti (dal 1958 al 1963) sono stati consacrati all'educatore stesso, al suo perfezionamento, alla sua formazione, alla sua igiene mentale; l'ultimo è stato dedicato al suo ruolo sociale. Il prossimo tema non è ancora sta­to definitivamente fissato, ma tra i progetti che sembrano attrarre l'attenzione attualmente, ap­pare come ci si poteva attendere un tema di ti­po sociale, le forme nuove del disadattamento (la droga, ecc...).

Ciascuna di queste tendenze si è d'altronde aggiunta alle precedenti, senza tuttavia soppian­tarle ed è così che attualmente si ritiene l'educa­tore nello stesso tempo responsabile del giovane disadattato, responsabile di se stesso, e respon­sabile della società nella quale essi si evolvono. Con un tale programma, la disoccupazione è ben lungi dal nostro lavoro.

 

Tentativi di definizione

Che cosa è dunque in definitiva questo «edu­catore specializzato» che non si vuole né consi­gliere, né animatore, né insegnante, né psicolo­go, né terapeuta, né assistente sociale? Chi è questo nuovo venuto che non molti anni fa veni­va negativamente definito come «colui che ha la responsabilità dei giovani al di fuori delle ore di studio e di laboratorio» e che ora rivendica re­sponsabilità via via crescenti in un campo sem­pre più largo?

Non è d'altronde per caso se da venticinque anni l'educatore non ha mai potuto o mai voluto definirsi con precisione temendo senza dubbio di rinchiudersi troppo presto in concetti rapida­mente superati, preferendo adattare la propria azione ai bisogni in movimento di una gioventù e di una società in continua evoluzione. Non vorrei tentare la ricerca di una definizione, tanto più che un umorista inglese ha detto che «definire è circondare di un muro di parole un terreno vuo­to di idee». Tuttavia mi pare interessante tenta­re una rapida analisi critica delle diverse defini­zioni avanzate qua e là. Quanto meno delle defi­nizioni in lingua francese delle quali nessuna ha riportato l'unanimità. Noi potremmo tuttavia cer­care d'essere un denominatore comune, e tenta­re di seguire la traccia di una certa evoluzione della professione. Una delle prime definizioni non negative che ho potuto ritrovare viene pro­prio di qui, da Losanna nel 1954, dove il Centro di formazione degli educatori definiva l'educato­re specializzato come « una persona incaricata dell'educazione dei ragazzi disadattati affidati ai centri specializzati per il riadattamento ». Defini­zione che ha sì il vantaggio di essere semplice, ma che non apporta ancora evidentemente ele­menti molto precisi, e che si limita a delle mi­sure di collocamento in un'istituzione. Otto an­ni più tardi noi ritroviamo al Congresso dell'U.N.A.R. a Lione nel 1962 un tentativo di defini­zione che presenta tutti gli inconvenienti di cui la prima è priva, vale a dire che è complessa e troppo precisa. Vi si dice che l'educatore specia­lizzato dei giovani disadattati è un operatore sociale, un tecnico delle relazioni umane che contribuisce, in collaborazione costante con gli altri tecnici del servizio o dell'istituzione, sia all'aiuto, alla ristrutturazione e alla evoluzione della personalità, sia alla normalizzazione dei rapporti sociali dei giovani che gli sono stati af­fi-dati, utilizzando soprattutto la relazione indivi­duale e le interrelazioni di gruppo attraverso gli atti della vita quotidiana e altre attività dirette e spontanee.

Fortunatamente il programma di esami non impone di imparare questa definizione a me­moria!

Era tutta una sintesi delle proposte di ottocen­to congressisti e si era voluto soddisfare tutti quanti. In questa definizione tuttavia si rileva un certo numero di nozioni relativamente nuove e importanti e che ben inteso sono state poi con­testate. Vi si trova il termine «operatore socia­le» che è stato rapidamente discusso perché, do­po tutto, ci si domanda perché l'educatore sareb­be un operatore sociale e perché l'assistente so­ciale non potrebbe essere un «operatore educa­tivo» per esempio. Altri dicono ancora che dopo tutto l'operatore sociale è anche «un operatore psicologico», «sanitario» e che, in fondo, è già un orientamento il privilegiare un intervento di tipo sociale. Tornerò d'altronde su questo argo­mento ben presto. Si dice poi in questa definizio­ne che egli è un «tecnico delle relazioni uma­ne», ma molti hanno subito protestato contro la nozione di «tecnico» preferendo quella di «esperto» nel timore di un tecnico «in camice bianco» che consideri il giovane come una cavia da sezionare. Appare anche in questa definizione del 1962, la nozione di équipe in costante colla­borazione con gli altri tecnici. Appare ancora il doppio ruolo del quale non riusciamo a disfarci e sul quale rifletteremo soprattutto oggi, evolu­zione della personalità da una parte e normaliz­zazione dei rapporti sociali dall'altra. Infine in­terviene ancora la nozione di «terapia attraverso la vita di tutti i giorni» che è senza dubbio l'a­spetto più specifico dell'educatore specializzato. lo salto poi ad una definizione canadese del 1969, che descrive «lo psico-educatore» come una persona che fornisce al pubblico servizi profes­sionali nei quali applica i principi e le tecniche della psico-pedagogia in vista della rieducazione delle persone disadattate, facendo loro vivere gli atti ordinari della vita in un ambiente idoneo e facendole partecipare ad attività psico-educa­tive.

Ci ricorda talvolta la definizione di Binet e Simon dell'intelligenza: «l'intelligenza è ciò che viene misurato dai nostri test»; insomma quando si rilegge più volte la definizione canadese, si ve­de che lo psico-educatore è colui che fa dell'edu­cazione «psico-educativa». Una definizione uni­ca dovrebbe raccogliere le differenti categorie di educatori, e ricordo che ad un Congresso di edu­catori francesi a Tolosa nel 1964 sono state enu­merate più di trecento differenti situazioni nelle quali si trovavano gli educatori specializzati se­condo il tipo dei giovani dei quali si occupavano (deboli, caratteriali, delinquenti, ecc...), secondo l'ambiente nel quale lavoravano (focolari, inter­nati, semiconvitti, ospedali, prigioni, e così via) e secondo le funzioni specifiche dell'educatore (educatore di gruppo, educatore scolastico, tec­nico, incaricato di direzione, e così via) .

Raccogliendo tutte queste categorie, una defi­nizione dovrebbe permettere di differenziare il mestiere di educatore dalle professioni paralle­le, come le altre categorie di operatori sociali dei terapeuti o dagli insegnanti.

Se si ricercano i temi comuni di differenti ten­tativi di proposta di definizioni, si rileva in ciò che concerne gli obiettivi, da una parte un'azione sulla persona e dall'altra parte un'azione che tie­ne conto di un ambiente sociale (aiutare insom­ma ciascuno a diventare «se stesso» restando tuttavia «con gli altri», con gli altri, ma non ne­cessariamente in piena conformità con gli altri) .

Sembrerebbe questo il denominatore comune in quanto agli obiettivi. Per ciò che concerne i mezzi, si nota un po' dovunque la nozione di in­tervento globale, attraverso una relazione co­stante e a partire da una partecipazione più o meno intensa della vita quotidiana. È la nozione di esperto della relazione costante o di terapeu­ta della vita di tutti i giorni. Tutto ciò ha indotto il comitato tecnico dell'associazione internazio­nale a formulare una definizione, alla quale io mi permetterei di proporre un ritocco, in seguito al Congresso di Versailles, che darebbe la formu­lazione provvisoria che segue:

«L'educatore specializzato ha per funzione di favorire lo sviluppo della personalità e la matu­razione sociale dei giovani disadattati mediante diverse attività o situazioni che egli divide con essi sia in un'istituzione o in un servizio, sia nel loro ambiente naturale di vita e tutto questo con un'azione congiunta sul giovane e sull'am­biente».

Secondo i casi, l'accento potrà essere messo più su un aspetto o più sull'altro, come per esem­pio sullo sviluppo della personalità o piuttosto sull'adattamento sociale, o ancora sull'azione da intraprendere sulla società stessa per renderla più tollerabile o più tollerante nei confronti degli emarginati.

 

L'educatore e la società

L'ultimo Congresso internazionale e gli avve­nimenti mondiali attuali sottolineano una volta di più a qual punto l'educatore del 1971 non può più accontentarsi di far adattare questi giovani disadattati alle norme di una società ammalata, (a meno che essa non sia al contrario - come è il caso ancora di qualche nazione rimasta iso­lata - un po' «surgelata»), società alla quale l'educatore rimprovera sovente certe strutture se non addirittura i fondamenti, e che egli ritie­ne a volte responsabile in parte degli stessi di­sadattamenti. Penso per esempio ai fenomeni sociali quali la droga, la droga chimica propria­mente detta, o la «droga mentale» attraverso la televisione, i mass media, la pubblicità, ecc., l'educatore del giorno d'oggi non vuole più es­sere la buona coscienza di una società miope. Non vuole più essere quello che ripara provviso­riamente ciò che essa stessa ha contribuito a de­molire. Tanto meno richiede la riconoscenza am­bigua di questa società, la valorizzazione super­ficiale e discolpante del lavoro di coloro che sot­tolineandone le carenze ricordano, per il sempli­ce fatto della loro esistenza, la presenza di tutti gli emarginati. In effetti, la semplice presenza degli educatori, è un po' come quella degli ope­rai venuti a riparare una casa e che, per la loro attività, sottolineano che l'edificio è in cattivo stato: si è riconoscenti agli operai di impedirne il crollo, ma nello stesso tempo si è seccati di vedere tanti operai sul posto testimoni del catti­vo stato della struttura. E infine l'educatore si riconosce anche lui sempre più spesso come un «emarginato», contaminato dal contatto perma­nente di una frangia sociale e da una implicazio­ne profonda indispensabile alle sue funzioni. A forza di prendere le parti del proprio cliente l'av­vocato finisce di sentirsi giudicato come lui, dando ragione al grande pubblico che in un set­tore parallelo identifica sovente lo psichiatra con il pazzo da lui curato.

Dopo aver tentato di essere per il giovane di­sadattato un'immagine di identificazione, l'educa­tore non sarà forse a sua volta in via di identifi­cazione con il giovane disadattato? A forza di te­mere un conformismo passivo e complice, l'e­ducatore non si sarà suo malgrado alienato in una rivolta permanente e insolubile?

 

L'educatore, mediatore impossibile

Come meravigliarsi allora del disagio sempre più profondo dell'educatore? Situato come è al centro dei conflitti, nel luogo geometrico delle contraddizioni, contraddizioni del disadattato con se stesso, della società con se stessa come an­che dell'uno di fronte all'altra, egli è un mediato­re impossibile tra il gruppo e l'individuo, con­dannato al perpetuo compromesso tra la normali­tà fatiscente e la marginalità inquietante.

Deve egli accettare il compromesso e tentare di conciliare disperatamente l'inconciliabile, divi­so egli stesso nel conflitto, essendo egli stesso in qualche modo un collante problematico, as­sumendo interiormente le contraddizioni, divenu­te inevitabili, per confortare farse per qualche tempo ancora i meno adatti a sormontarle?

Questo ruolo sconfortante di arbitro tra la so­cietà e l'individuo è stato da lui scelto, ma come esplicarlo ora?

L'arbitro ha per funzione il regolamento dei conflitti oppure deve organizzare il confronto? L'arbitro del calcio o del rugby per esempio de­ve conciliare gli avversari oppure fischiare i fal­li dei giocatori delle due parti?

Il ruolo dell'educatore specializzato è forse di adattare a qualunque costo ciascun individuo alla società? Come diceva Bernard Shaw, «l'uo­mo ragionevole si adatta all'ambiente, soltanto l'uomo irragionevole tenta di adattare l'ambiente a se stesso; è perciò che ogni progresso è opera di imbecilli».

Non è affatto evidente che si debba sempre conciliare, consolare, rassicurare, curare le pia­ghe... Forse è venuto il suo momento se non di condannare, quanto meno di prendere partito senza posizioni aprioristiche. Si può essere allo stesso tempo neutri e attivi. L'arbitro, sul terre­no non rimane inerte: corre avanti la mischia, è testimone e giudice, è un terzo, che si pone al di fuori, più maturo, a uguale distanza tra la so­cietà e il suo sistema da una parte, gli emargi­nati e la loro contestazione dall'altra, contesta­zione talvolta cieca nella sua collera. Il suo ruo­lo è forse quello di permettere loro di confrontar­si lealmente e di non confondersi in una simbiosi regressiva, in una fusione rassicurante, ma pri­mitiva. La società che partorisce l'individuo e che poi tenta disperatamente di trattenerlo nel suo seno, non è forse come la madre che non vuole separarsi dal suo bambino e che gli impe­disce di crescere? La conquista della propria identità passa obbligatoriamente attraverso il confronto, attraverso un confronto cosciente e volontario nel quale ciascuno precisa le proprie posizioni, non attraverso un'anarchia esasperata e demolitrice e tanto meno attraverso un confor­mismo superficiale e sterile. In questo caso il ruolo dell'educatore o dell'operatore sociale che incarna in se stesso i conflitti fondamentali, non dovrebbe essere forse al giorno d'oggi quello di un fermento sociale, un fermento di risveglio e di vigilanza? Non è forse la sua vocazione quel­la di mobilitare invece di anestetizzare o di in­sterilire? Non di scatenare la conflittualità né di alimentarla, ma almeno di permetterla invece di mascherarla. «Un po’ di crisi vale più di molta organizzazione» dice Nourissier.

 

L'educatore e i nuovi valori

Una mutazione dolorosa è sovente necessaria alla crescita. Non si può più vivere chiusi in una vecchia pelle disseccata, entro valori decaduti, con la testa sotterrata nella sabbia e senza ve­dere che il numero degli analfabeti nel mondo cresce di anno in anno, come anche quello degli affamati perché il numero delle nascite è larga­mente eccedente rispetto ai servizi e alle strut­ture sociali e culturali del mondo. In questo mon­do in rapido cambiamento o addirittura in «esplosione» non si può dimenticare che se l'incremento demografico continuasse con il rit­mo attuale, entro appena trecento anni la densità della popolazione sull'insieme delle superfici emerse sarà pari a quella che si ritrova sul me­trò di New York nelle ore di punta; vale a dire che noi saremo morti prima, se non verranno pre­se delle misure radicali. Mentre questo mondo è in drammatica progressione geometrica, noi chiudiamo gli occhi e ci attacchiamo disperata­mente a valori di ieri scaduti, mentre la messa in causa diventa un antidoto necessario.

L'educatore deve trovare dei nuovi valori di ri­ferimento. Nel momento in cui il risparmio è cat­tiva gestione, il rispetto dei più vecchi diventa conservatorismo, nel momento in cui il nuovo mito dell'eterna gioventù esautora quello del saggio, nel momento in cui l'autorità è scredita­ta, e l'obbedienza è identificata alla sottomissio­ne passiva, nel momento in cui la patria cede il posto all'internazionalismo in cui la stessa liber­tà s'inchina davanti alla solidarietà, quali dei va­lori fondamentali sopravvivono nella nostra epo­ca? Che cosa resta di un sapere costantemente superato e costantemente contestato? Vi ricordo che viene ammesso oggi che il volume totale del­le conoscenze umane raddoppia ogni quattro an­ni. Diciamo cioè che nel 2007 il volume delle co­noscenze sarebbe mille volte superiore a quel­lo d'oggi e tutta la scienza attuale parrà ridi­colmente trascurabile.

La nostra sola certezza è che domani sarà mol­to differente da oggi.

Educare i giovani a diventare uomini dell'anno 2000, è tentare di prepararli ad un adattamento sempre più rapido, a delle situazioni sempre nuove. Paradossalmente il solo valore fondamen­tale diviene oggi quello del cambiamento. Ed è per questo che l'educazione si oppone sempre più all'istruzione perché nel termine stesso di educazione si trova la nozione etimologica di creatività, «exducere», portare fuori, far uscire dal bambino ciò che ha in se stesso, al contrario di quello che era la nozione di istruzione, cioè mettere all'interno di strutture date, strutture attualmente decadute. Ciò non vuole dire dunque che l'educatore non è più che un rivelatore (nel senso fotografico del termine) o un catalizzatore neutro che semplicemente favorisce certe rea­zioni? O vuol dire che egli deve essere un sem­plice specchio del quale l'unico ruolo sarebbe quello di permettere ai giovani di meglio cono­scere se stessi e di seguire la propria via anche se essa fosse esplicitamente patologica o anti­sociale? lo personalmente non lo penso. lo penso che l'educatore ha scelto una posizione esposta, ma privilegiata: quella di vivere con il giovane e non quella di pensare stando di fronte a lui o vi­cino a lui.

 

Non direttività e impegno

L'educatore è un uomo d'azione impegnato, e non solo un uomo di pensiero, che si droga con l'analisi, la critica o l'autocritica, che gli servono da paravento confortevole, ma paralizzante, per una prudente ritirata.

Una concezione stretta della non direttività per un certo «rispetto dell'altro», ci sembra in realtà che sovente copra un non rispetto dell'altro che viene considerato in anticipo come incapace di resistere da sé, all'occorrenza, alla nostra presa di posizione. Effettivamente, se io non oso dare il mio parere al cliente che è di fronte a me, è perché immagino in anticipo che egli vi si conformerà; io lo considero dunque a priori un debole, un suggestionabile e ciò è ap­punto «il non rispetto degli altri». Il giovane di­sadattato è troppo immaturo o troppo handicap­pato per poter decidere da solo (per esempio se è un insufficiente mentale); allora ha bisogno del mio appoggio attivo, oppure egli è suscetti­bile di adottare un punto di vista autonomo e in questo caso ha il diritto di conoscere la mia po­sizione anche se non la farà propria.

E così la norma rimane necessaria sia che ven­ga seguita o trasgredita. Essa d'altronde deve essere sovente trasgredita, ma perché la tra­sgressione sia possibile, è necessario che le prese di posizione siano sufficientemente nette, il che porrà in evidenza, soprattutto per quanto concerne gli educatori, i guasti e le devastazioni attuali di una falsa concezione della «non diret­tività». In quanto educatori noi abbiamo, io cre­do, non solo il «diritto» di intervento ma un «dovere» di intervento, che implica ben inteso la reciprocità, vale a dire che il giovane (o più generalmente il cliente) ha anch'egli il diritto e il dovere di affermarsi. Uscendo allora da un'atti­tudine di aiuto paternalistico o superprotettivo, l'educatore diviene colui che cerca e che parteci­pa e non colui che guida o che vieta. Questo «do­vere» di intervento viene esercitato dall'educa­tore non soltanto sul ragazzo isolato, ma anche nella società e sulla società. Alla segregazione rassicurante dei disadattati nel ghetto degli isti­tuti specializzati, sarebbe ora di sostituire pro­gressivamente la loro integrazione prudente nel­la collettività che vive normalmente. «L'educato­re specializzato» non vuole più essere «specia­lizzato», ma al contrario polivalente, largamente aperto ai diversi disadattamenti così come all'ambiente al quale si vorrebbe adattare. La sua specializzazione sarebbe di non averne affatto. Egli sarebbe insomma il «generalizzatore della rieducazione», l'esperto di una relazione globale di fronte agli altri tecnici dell'équipe di psicope­dagogia medico-sociale maggiormente specializ­zati ciascuno nel suo proprio settore. L'educato­re non può più limitare la sua azione ai giovani disadattati situati in istituti, ma si vede spinto a intervenire fuori degli istituti, sugli adulti come sui giovani, su tutti quelli che sono già disadatta­ti, o in via di diventarlo... oppure ancora non co­scienti di esserlo. Egli non è un educatore spe­cializzato (mi domando d'altronde in che cosa sia specializzato) ma è bensì uno specialista dell'educazione, senza dubbio il solo professionista che si sia formato lungamente sull'educazione, perché gli insegnanti hanno ancora, nella mag­gior parte dei paesi, una formazione più centrata sul dovere che sulla relazione, più preoccupata delle tecniche che della persona dei loro allievi. Quanto agli assistenti sociali rimane aperto il problema di sapere se non siano essi in realtà degli educatori che non si riconoscono. Al termi­ne di queste poche riflessioni non ho affatto la pretesa di avere chiarito il problema; ne sono ugualmente lieto. Perché noi non ricerchiamo la vana soddisfazione narcisistica di aver intravi­sto delle soluzioni semplici, al contrario la nostra sola ambizione è di sottolineare i problemi.

Credo che il clima di «compromesso elveti­co» mi permetta di farlo qui senza passare tut­tavia per un «agitatore rivoluzionario». La vostra società tollerante può senza dubbio, o quanto meno lo spero, ammettere di essere un po' «scossa», senza reagire con una alzata di spalle ansiosa o repressiva, come si è visto altrove.

Io rivendico per l'educatore una posizione di arbitro implacabile, attento ai problemi sociali come ai problemi individuali, sottolineandoli sen­za debolezze né compromessi, assumendo deli­beratamente il proprio ruolo di «disturbatore», di colui che impedisce di «girare in tondo», perché girare in tondo non è un mezzo per avan­zare, ma piuttosto per stordirsi e cadere un gior­no inanimati dopo aver troppo lungamente tenu­to gli occhi chiusi.

 

 

 

(1) Conferenza tenuta da Serge Ginger, Presidente del Comitato tecnico dell'Associazione internazionale educatori per giovani disadattati, il 16-2-1971 in occasione dell'Assemblea generale dell'Associazione romanda degli educatori spe­cializzati svoltasi a Losanna (Svizzera). Traduzione di Anna Carlucci e Giuliana Lattes.

La relazione può costituire un utile punto di riferimento e di discussione sulla figura dell'educatore specializzato, anche se soprattutto nelle conclusioni alcune affermazioni possono suscitare delle giustificate riserve.

 

www.fondazionepromozionesociale.it