Prospettive assistenziali, n. 24, ottobre-dicembre 1973

 

 

NOTIZIARIO DEL CENTRO ITALIANO PER L'ADOZIONE INTERNAZIONALE

 

 

CONVEGNO NAZIONALE DEL C.I.A.I.

 

Sabato 22, domenica 23 e lunedì 24 Settembre si sono riunite a Chiavari 150 famiglie adottive provenienti da tutta Italia per discutere i proble­mi dell'adozione internazionale. I problemi, cioè, che riguardano sia il perfetto inserimento dei bambini di razza diversa, coreani, indiani, filippi­ni, brasiliani e africani, che sino ad oggi hanno trovato genitori italiani (250 soltanto attraverso il Centro italiano per l'adozione internazionale e alcune centinaia per altre vie), sia la situazione dei minori in stato di abbandono che gremiscono i brefotrofi di tutti i paesi in via di sviluppo.

Le famiglie partecipanti al convegno hanno di­battuto a fondo anche i problemi della situazione italiana, poiché non si considerano affatto sepa­rate dalle altre famiglie adottive e affidatarie, ma anzi partecipano attivamente e responsabilmen­te a ogni iniziativa sociale e politica mirante a ri­solvere i problemi dei minori in stato di bisogno e al rinnovamento del sistema assistenziale ita­liano.

Più in particolare il convegno di Chiavari ha de­nunciato il comportamento di alcuni tribunali per i minorenni (clamoroso il caso del tribunale di Brescia) che, nonostante la legge 5 giugno 1967 n. 431, la quale consente alle coppie italiane con o senza figli di adottare bambini di altra naziona­lità, respingono regolarmente tutte le domande inoltrate per l'adozione internazionale.

Il convegno ha poi denunciato con altrettanto vigore la situazione drammatica dei bambini in stato di abbandono del Brasile. Questi bambini, potenzialmente in grado di trovare coppie stra­niere pronte ad accoglierli, dar loro il nome e l'avvenire come loro diritto, sono di fatto costret­ti a morire di fame o, nel caso migliore, a vege­tare nei desolanti brefotrofi brasiliani. Infatti, la giunta militare che domina il Paese ha tassativa­mente quanto incredibilmente bloccato, per ra­gioni di orgoglio nazionalistico qualsiasi iniziati­va internazionale tesa a trovare una casa e una famiglia a questi bambini.

Il convegno si è chiuso con un ordine del gior­no nel quale si fa appello al Governo italiano a chiarire una volta per tutte il proprio atteggia­mento nei confronti dell'adozione internazionale. In questi ultimi anni troppi episodi hanno dimo­strato come da parte della magistratura e delle burocrazie ministeriali i diritti dell'adozione in­ternazionale siano stati e vengano tuttora morti­ficati da inconfessate ma documentabili riserve razziste. In pratica, le coppie che quotidianamen­te si rivolgono, come vuole la legge, ai tribunali per i minorenni e ai Ministeri degli interni e de­gli esteri per concludere le pratiche per l'arrivo in famiglia di un bimbo di razza diversa in stato di abbandono, si trovano di fronte a ostacoli qual­che volta insormontabili e comunque inesorabil­mente e sistematicamente complicati.

Il convegno ha indirizzato un telegramma al Mi­nistro degli esteri, On. Aldo Moro, sollecitando la risposta dell'Italia al questionario inviato nel luglio 1973 dalle Nazioni Unite per conoscere il pensiero del Governo italiano sulla possibilità di varare a livello mondiale un regolamento capace di uniformare le varie e spesso opposte leggi esi­stenti nei vari paesi in materia di adozione.

Il convegno ha inoltre sottolineato la sua di­sapprovazione per qualsiasi iniziativa tendente allo sfruttamento dei popoli economicamente sot­tosviluppati da parte dei Paesi ricchi o da poten­ti istituzioni. A caso segnaliamo tra le mozioni quella presentata affinché non vengano dimenti­cati ma risolti i problemi derivanti dalla presen­za di suore o assimilati in Italia attualmente im­piegati per lavori di basso servizio in cambio di una insignificante rimunerazione e con una «in­dennità di licenziamento» consistente nell'as­sunzione dei voti.

 

 

ADOZIONE INTERRAZZIALE: PROBLEMI E PROSPETTIVE (1)

 

Parte seconda

L'opposizione all'adozione interrazziale non è in fondo che un riflesso della convinzione che le razze devono rimanere separate. Gli istinti più radicali in fatto di razza derivano proprio dal ti­more o dall'estinzione di fronte a possibili «mi­sure razziali». Un esempio caratteristico lo si ha nel campo dei matrimoni misti: viene quasi da pensare che i pregiudizi e i tabù che hanno pro­vocato tanti conflitti razziali siano da attribuirsi agli sforzi a persone di razza diverse di sposarsi tra di loro e di avere bambini, perché ciò è con­trario alla nostra definizione biologica dell'uomo. I dubbi concernenti l'adozione interrazziale hanno la medesima origine.

Non si intende con questo negare che conside­razioni razziali e genetiche contribuiscano al pro­cesso di identità, dato che noi siamo grazie al contributo dei diversi gruppi ai quali apparteniamo. L'errore sta piuttosto nel fatto di voler tro­vare la nostra identità in un gruppo specifico. Nel­la sua essenza, l'identità altro non è che l'idea di noi stessi quali individui unici diversi da tutti gli altri, cosicché se occorre che ci separiamo dal­le nostre radici biologiche per trovare la nostra autonomia occorre anche che ci separiamo dai gruppi di cui facciamo parte al fine di affermare la nostra individualità.

Concepire se stessi in questo modo non signi­fica affatto minimizzare l'influsso della razza o di qualsiasi altro fattore che ci definisce. Più consci siamo della nostra individualità, più ci renderemo pienamente conto dei vari fattori che hanno contribuito a costituirla.

Sulla base di questo concetto di identità pos­siamo ora procedere a discutere l'adozione in­terrazziale per quello che è. Esso infatti influisce in modo determinante sulle nostre decisioni e può anche portarci a cambiare radicalmente le posizioni su cui ci troviamo attualmente. Invece di basarci sull'ipotesi che il bambino può trovare la propria identità personale, meglio o solamen­te se si trova con genitori della stessa razza po­tremmo asserire il contrario e considerare que­sta teoria come prettamente razzista, in quanto definisce l'individuo sulla base della razza. In­vece di partire dal presupposto che per evitare problemi di identità occorre riprodurre nell'ado­zione la famiglia di sangue, potremmo affermare che i genitori di sangue dovrebbero anche aiuta­re il bambino nato da loro a considerarsi come un individuo prescindendo dalla sua razza. È possi­bile che bambini allevati da genitori di razza di­versa dalla loro sviluppino atteggiamenti più aperti al rapporto con altri individui che non bam­bini allevati da genitori della loro razza. Ne con­segue che dovremmo studiare il modo di prepa­rare i bambini di una data razza al confronto sem­pre più necessario con gruppi etnici differenti con altrettanto impegno quanto ne poniamo nel­lo studio dell'adozione interrazziale.

Esiste inoltre il problema sollevato da un tipo di cultura che tende a separare gli individui in gruppi razziali. Siamo di fronte a tradizioni raz­ziste così profondamente radicate che, nonostan­te le nostre convinzioni personali, possono indur­ci a rimandare l'adozione di un bambino di altra razza al giorno in cui il contesto sociale si sarà modificato. Tutto questo evidentemente anche te­nendo conto che il tempo passa e i bambini at­tendono.

La questione non deve essere posta nei se­guenti termini: se aspettare che la società cam­bi prima di adottare un bambino, o adottare un bambino prima che la società sia cambiata. Dob­biamo prendere le nostre decisioni in un altro modo.

Si tende di solito a definire la realtà sulla ba­se delle esperienze del passato, e questo porta a considerare realistiche le decisioni che si ade­guano ai fatti quali li osserviamo e idealistica­mente o poco pratiche quelle decisioni che non si adeguano alle necessità immediate. È questo il criterio che mantiene in vita istituzioni e si­stemi totalmente inefficienti finché si sfasciano sotto i nostri occhi in un clima spesso violento. L'unica alternativa è quindi di scegliere coscien­temente quei valori che riteniamo importanti o anche essenziali in futuro piuttosto che conti­nuare ad imitare il passato e adattarsi al presen­te. È venuto probabilmente il tempo di adottare una nuova definizione di quello che è realistico e di quello che non lo è. Gli ideali che da lunga da­ta i profeti dell'epoca moderna ci hanno propo­sti, cessando di essere ideali si sono trasformati in impellenti realtà. Se ci ostiniamo a vivere di­visi in gruppi razziali, religiosi o nazionali non potremo sopravvivere a lungo in un mondo così affollato coi-ne il nostro, un mondo dove la lotta per le scarse risorse disponibili si fa sempre più aspra. A mio parere è follia ostinarsi a vivere nel presente stato di divisione. I documenti sto­rici e le informazioni che continuano a pervenir­ci dalla stampa sono prova sufficiente della fero­cia che caratterizza i conflitti fra gruppi diversi e non c'è del resto da farsi illusioni quanto alle prospettive future. Per quanto consci della si­tuazione, siamo incerti circa le soluzioni da adot­tare, dato che ci rifiutiamo di scegliere sia l'ano­nimato di una società che soffoca ogni forma di individualismo sia l'anarchia dell'individualismo eretto a sistema. Non resta dunque che dedicar­si a sviluppare una società che fondi la conviven­za umana sul mutuo rispetto degli individui che la compongono. Piuttosto che minimizzare le dif­ferenze razziali, culturali e tradizionali in nome dell'armonia umana si potrà allora servirsene per arricchire la vita della collettività.

Il nostro problema avrà una soluzione solo se riusciremo ad accordarci sul significato della co­munità umana e a sviluppare metodi operativi appropriati. Per il momento invece le difficoltà sussistono: i cristiani trovano difficoltà a dialo­gare con gli ebrei, i russi con gli americani, i ne­ri coi bianchi. Russo, americano, cristiano, ebreo sono semplici aggettivi che descrivono talune ca­ratteristiche degli individui ma finché continue­remo a pensare e a concepire noi stessi sulla base di queste descrizioni non riusciremo mai a comprenderci. Se invece arriviamo a vederci in­nanzitutto come uomini allora sarà possibile per un cristiano parlare con un uomo che è ebreo: non c'è ragione perché un uomo cristiano non possa parlare a un uomo ebreo, o un uomo russo a un uomo americano, come non c'è ragione per­ché un uomo di razza bianca non possa adottare un ragazzo di razza nera.

La complessità delle nostre strutture sociali e le profonde radici delle nostre tradizioni costi­tuiscono senza dubbio degli ostacoli formidabili ma questo significa soltanto che occorrerà ope­rare con perseveranza e che i metodi impiegati dovranno essere molto efficaci.

Non mancano pertanto elementi incoraggianti. Molta gente appartenente a gruppi differenti si oppone al conflitto sociale e, lasciando da parte i problemi della produzione di automobili, acciaio e materie plastiche, a cui si è data una importan­za esagerata nel mondo attuale, esige che si co­minci a parlare di più di cose essenziali quali l'avvenire dell'infanzia.

Se affermiamo che esistono persone desidero­se di stabilire un dialogo vicendevole non pre­tendiamo per questo ignorare o negare che altri vi si oppongono. Ci rendiamo dolorosamente con­to che molti agiscono con crudeltà verso gli al­tri ma ci preme sottolineare il fatto che in una società pluralistica l'interesse per gli altri ha il diritto di coesistere a fianco degli interessi pri­vati o di gruppo.

Persone che si schierano in difesa sia di una posizione che di un'altra sono sempre esistite ed esisteranno sempre. Il realismo ci impone di riconoscere che ambedue le tesi continueranno ad essere sostenute non solo da gruppi contra­stanti ma talvolta anche da un medesimo indivi­duo. L'estrema crudeltà e l'amore più sublime, l'accettazione più totale e il rifiuto più accanito continueranno a sussistere nello stesso momen­to e nelle più svariate combinazioni.

Se vogliamo essere realisti, dobbiamo fornire alla gente la possibilità di esprimere pratica­mente i loro istinti positivi non soltanto in seno alla famiglia o gruppo sociale ma fra gruppi di­versi.

Molta gente vorrebbe preoccuparsi di persone appartenenti ad altri gruppi ma ha bisogno di sa­pere come e quando agire.

Se la società ha fornito ampie possibilità a chi vuole fomentare la ostilità tra i gruppi diversi, dovrà essere capace di fornire possibilità a per­sone di gruppi diversi di esprimere sentimenti amichevoli e di preoccuparsi della sorte del pros­simo.

Se accettiamo quindi la realtà di un mondo in cui valori opposti vengono costantemente in con­flitto, possiamo anche passare immediatamente all'azione in favore di programmi costruttivi. Non occorre aspettare fino a che il mondo sia prepa­rato: bisogna saper scegliere fin da ora le oc­casioni di azioni costruttive.

L'azione di per se stessa modifica il contesto in cui essa si esplica come lo dimostra ampia­mente l'adozione interrazziale. Il fatto che bam­bini di una data razza siano stati adottati da ge­nitori di razza diversa ha prodotto un cambiamen­to non solo nei genitori ma anche nei nuovi fra­telli, cugini, amici, compagni di scuola e vicini dell'adottato. La presenza in mezzo a loro di una persona di un'altra razza li ha letteralmente tra­sformati. L'esperienza dell'adozione interrazziale ci dice che la decisione di due coniugi influenza gli atteggiamenti di molti altri. E grazie all'ado­zione interrazziale riusciremo a scoprire la stra­da, che per tanto tempo ci è rimasta oscura, per arrivare alla fratellanza tra gli uomini. Quello che né le esortazioni dei santi né il timore del casti­go hanno potuto realizzare, lo realizzerà forse l'azione sistematica basata su un saggio equili­brio fra preparazione e interventi. Ad ogni azio­ne in questo campo corrisponde automaticamen­te una trasformazione. Agendo entriamo in con­tatto personale con altri esseri umani che sco­priamo essere simili a noi. Occorre apprendere ad agire selettivamente: l'adozione interrazziale ci permette di scegliere le motivazioni adatte a ogni singolo caso e a sviluppare nella direzione giusta. È proprio in quanto strumento di selezio­ne e di sviluppo che essa può rappresentare un passo verso una più grande fratellanza umana.

Credere che esistono persone che si interes­sano agli altri significa soltanto che noi ricono­sciamo che in una società pluralista che dà valo­re sia all'attenzione agli altri che all'interesse in se stessi ed al proprio gruppo, entrambi i va­lori verranno tenuti in considerazione.

Ci sono e ci saranno sempre persone che met­teranno l'enfasi su un valore e altre che la met­teranno su un altro. Se siamo realisti dobbiamo riconoscere che entrambi questi valori saranno espressi allo stesso tempo da gruppi diversi ed a volte dal medesimo gruppo.

In tal modo grazie all'adozione interrazziale riusciremo a scoprire la strada che per tanto tempo ci è rimasta oscura per arrivare alla fra­tellanza tra gli uomini. Non abbiamo reagito alle preghiere dei nostri santi, di considerare l'altro come un fratello, né alle minacce di quello che sarebbe successo se non avessimo fatto così! I nostri atteggiamenti e le nostre idee ci rendono immuni da tali tentativi esterni di cambiarci. Co­munque noi cambiamo in quanto agiamo. Non c'è bisogno che ci sia preparazione prima che agia­mo, e neppure noi agiamo senza tentare di cam­biare: trasformazione ed azione avvengono con­temporaneamente. La nostra azione ci porta in contatto con un altro essere umano ed il fatto che noi consideriamo le altre persone come uguali a noi porta già a dei risultati. Dobbiamo imparare ad agire diversamente in tutti i campi del contatto umano. L'adozione interrazziale è decisiva.

 

 

(1) Relazione tenuta da CLAYTON H. HAGEN alla Conferenza mondiale sull'adozione e sull'affidamento familiare (Mi­lano, 16-19 settembre 1971). La prima parte è stata pubblicata sul n. 23 di Prospettive assistenziali.

 

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