Prospettive assistenziali, n. 25, gennaio-marzo
1974
LIBRI
GABRIELLA PARCA, Voci dal carcere femminile, Editori Riuniti, Roma,
1973, pag.
Mentre il sistema carcerario è
scosso da rivolte e da una serie di «casi» gravissimi, un'opinione pubblica
sempre più avvertita da manifestazioni, rivolte, violenze subite da detenuti,
fatti drammatici come i numerosi suicidi in carcere, si chiede cosa succede al di là delle mura degli istituti di prevenzione e di pena.
Dopo le indagini di Ricci e Salierno e la
documentazione del
«Secondo i dati forniti dal
Ministero di giustizia è, dal 5 al 10 per cento della
popolazione carceraria, e la media delle loro presenze mensili negli ultimi
anni è stata la seguente 1.562 nel '69, 1.051 nel '70, 1.175 nel '72.
Al 31 dicembre u.s. c'erano 1.047
detenute di cui
Ma secondo i dati riportati da Ricci
e Salierno le presenze registrate tra il gennaio e il
31 dicembre '69 sono di 18.755... Questo vuol dire
che molte restano in carcere pochissimo tempo, lasciando il posto
ad altre, in continuo ricambio, ma significa anche che in Italia si può essere
incarcerati con estrema facilità».
E quali sono i reati commessi dalle
donne? Riferisce l'autrice: «Secondo i dati Istat
nella misura del 9% contro le persone (omicidio, infanticidio), 13% contro lo
Stato e le istituzioni (resistenza e oltraggio alla forza pubblica, contrabbando),
per il 17% contro la famiglia, la moralità ed il buon costume (aborto, atti
osceni in luogo pubblico, sfruttamento, incitamento alla prostituzione), 22%
contro il patrimonio (furto e truffa), 23% riguardano le contravvenzioni (ubriachezza,
accattonaggio), infine il 6% altri delitti»...
Per quanto concerne l'età si può dire che la maggior parte delle donne che vanno in prigione
sono giovani, il 37% hanno dai 18 ai 30 mentre il 46% sono fra i 31 e i 50. Ma
il dato più interessante per capire chi è, in definitiva, che va in carcere è quello riguardante il grado d'istruzione: secondo l'Istat il 22% delle detenute sono analfabete, il 68% hanno
una istruzione a livello elementare, il 9% hanno frequentato la scuola media,
l'1%, hanno una cultura universitaria».
È chiaro quindi quale sia la classe sociale che abitualmente abiti il carcere e
non si può non riconoscere un'esplicita finalità discriminante nei confronti di
una classe ben determinata. Per la classe dominante è possibile sottrarsi alle
istituzioni repressivo-punitive non perché non ci
siano donne «delinquenti» fra i suoi membri, ma per la possibilità di poter
inserire nell'istituzione carceraria dove talvolta qualcuna di esse finisce, il privilegio fondato sul potere di cui
dispongono.
Il carcere è
l'istituzione punitiva dei carcerati poveri così come le case di correzione,
gli istituti per minorenni, i brefotrofi sono l'asilo per i minori
poveri.
Se poi si guarda la qualifica di
queste donne molte sono le prostitute, molte le
girovaghe, «le zingare» nei cui confronti esiste una vera persecuzione di
carattere razzista, vengono poi le domestiche» quasi tutte di origine
contadina.
«Due sono i tipi di reato che
conducono queste ultime in prigione, infanticidio a scopo di
onore, e furto. Il primo, frutto di una cultura che
mescola sangue e onore e di cui si resta vittime tanto più facilmente quanto
più si è ignoranti; il secondo non sempre realmente commesso; ma dalla cui
accusa tanto più è difficile difendersi quanto più si è sprovvedute».
Ascoltiamole: Rita R. ha 30 anni, ha
ucciso suo padre con un colpo di fucile, non sa come è
successo il fatto: «Ero trattata male da mio padre che era violento e mi
picchiava... sono stata in carcere sette anni e un mese... rimorso non ne
provo... la colpa secondo me non l'avevo io... ce
l'aveva lui... lui cercava di violentarmi.. io mi volevo liberare e gli ho
sparato...».
Maria V. che ha 47 anni: «a nove
anni mio padre mi dava scandalo... così hanno arrestato mio padre e mi hanno
chiusa al Buon Pastore... sono scappata... a casa eravamo in cinque io la più
grande... essendo mio padre in carcere, mia madre andava in cerca di lavoro ma non lo trovava perché aveva tutti i figli piccoli
e uno neonato, allora un giorno non ci ho visto più... mi butto alla
prostituzione, farò la puttana... io cominciavo a capire e volevo far soldi...
invece ho trovato quelli del buon costume che mi hanno detto ti portiamo in
collegio... Mi hanno portato in un istituto di rieducazione a Portici peggio
del carcere... Un giorno ho scritto a mia madre e le ho detto che stavo male...
Ma loro hanno letto la lettera e mi hanno picchiata e io ho picchiato loro».
Segue un trasferimento in altra casa di rieducazione poi per uno stupido
scherzo, un topo buttato in faccia alle compagne a cui segue un tafferuglio il
trasferimento al manicomio criminale di Aversa. «Non avevo neanche 16 anni e ad Aversa
ci sono stata quattro anni, c'era tanta gente come me che non
era affatto pazza». Qui è chiara l'intercambiabilità
dell'istituzione carcere-manicomio, si tratta di vasi comunicanti il cui
accesso é reso possibile da un cambio di definizione o di etichetta
del contenuto.
Ma c'è una differenza, tra il carcere
maschile e quello femminile?
Risponde Gabriella Parca: «C'è
differenza nel tipo di violenza che viene esercitata,
una violenza soprattutto fisica, nel maschile, dove esistono ancora le squadre
dei pestatori e dove sono ancora in uso i famigerati “letti di contenzione”.
Mentre nei femminili si tratta di una violenza più che altro morale di un
continuo ricatto che si fa alle coscienze e che viene
operato in particolare dalle suore».
Ci dice Maria V.: «La madre
superiora mi diceva non devi dare ascolto a queste
ragazzaccie, quando hai bisogno di qualche cosa lo chiedi alle suore e tu
sarai trattata diversamente...». Rosa R.: «La domenica dovevamo
andare a messa, pure ogni primo venerdì del mese, messa. Se una non ci
andava la superiora era urtata con lei e se quella ci chiedeva qualche piacere
la superiora certamente non ce lo faceva...».
Anna T.: «Le punizioni
le danno quando una risponde molto alle suore...».
Marcella B. in carcere per droga: «A
Rebibbia mi sono trovata male per la promiscuità che
c'è e per le suore. Se una non va in chiesa è guardata
male. In quel periodo c'era anche
È qui chiara la struttura del
regolamento Rocco, da cui del resto è ricalcato il progetto Gonella, con la sua matrice
autoritaria per cui la religione, come il lavoro vengono introdotte con la
volontà di rendere il trattamento carcerario il più possibile afflittivo.
«Qualcuna comincia ad uscire
pazza... Certo è il carcere, è vero ma loro mica hanno
il diritto di non dare neanche una pillola per il mal di testa. Io per esempio,
mi sento male voglio il dottore, dicono che scrivono,
ma non è vero, non fanno proprio niente...».
L'arbitrio delle suore come quello
del direttore del carcere viene largamente
legittimato, insieme can le prepotenze di tutto il personale. Nessuna delle
libertà fondamentali è riconosciuta come diritto del recluso, vi si prevedono
forme di detenzione d'orripilante colore secentesco: vitto pessimo, molta
clausura, molte preghiere, poca istruzione. Ci
riferiscono alcune militanti nei gruppi di sinistra arrestate nel corso di
manifestazioni: «Per la lettura esisteva una biblioteca con dei libri che
risalivano ai primi del '
Del resto abbiamo visto l'altissima
percentuale di analfabete e semianalfabete ed
ascoltando una per una «le voci ora rabbiose, ora incerte, ora disperate» del
carcere femminile, vi troviamo anche la difficoltà a prender coscienza del
condizionamento subito come donne, dei pregiudizi che continuano ad esser
considerati verità intoccabili con codici e regole rigidissime di una cultura
patriarcale.
Perciò anche il lavoro è lavoro di anime morte, sia che si selezionino i biglietti
ferroviari dividendoli secondo il percorso, il chilometraggio «è un lavoro che
fa saltare il cervello» sia che si utilizzino antichi telai di legno per tesser
la tela, sia che sia concesso paternalisticamente,
come premio, un posto in lavanderia o stireria o come scopina.
Per uscire dal medioevo carcerario i riformatori leggano sì le opere scientifiche, ma leggano
attentamente anche queste «voci dal carcere femminile», meditino su queste
lettere e sugli sfoghi dei carcerati, perché il dibattito sulla riforma si
sposti dalla denuncia umanitaria sullo stato di disagio materiale in cui essi
carcerati vivono, ai metodi reali per cui il carcere è stato sinora mantenuto
nella sua paurosa situazione di arretratezza, e alla funzione assolta sinora
dalle istituzioni penitenziarie.
GIULIANA LATTES
G. PASQUARIELLO, L'assistente sociale, Ed. Studium, Roma, 1972, pag.
Val la pena di parlare del libro di
Giacomo Pasquariello, non tanto per dirne male, ma
per capire come venga reclamizzata in Italia la «nobile
e seducente professione dell'assistente sociale» e come di conseguenza sorgano
con queste finalità le scuole che la preparano.
Questo libro è
presentato da Mons. Raffaele Baratta con una
strana motivazione «ho letto... non dormendo, quindi le mie congratulazioni
sono schiette e sono sentite». Anche noi non abbiamo
dormito, perciò con altrettanta schiettezza invitiamo le assistenti sociali a
leggerlo, per sapere cosa non devono
fare.
Per conoscere le origini di questa
professione, dice l'autore, basta richiamarsi alla Chiesa. No, sarebbe più
preciso parlare di varie istituzioni e tra queste
Così è un po' spicciativo il far
risalire all'America l'organizzazione del servizio sociale (in modo un po'
troppo agiografico l'autore parla di «un periodo in cui tutto o quasi tutto nel
campo organizzativo viene da quella terra di grandi mezzi economici, di grandi
risorse ed iniziative»), quando si tratta invece di una corrente di sviluppo che deve ritenersi «americana» perché fiorita nelle
Università americane dopo aver ricevuto lo spirito iniziale da svariate fonti
esterne. Ma la confusione più grande sorge quando l'Autore
ci presenta la professione dell'assistente sociale «che deve sedersi regina tra
tutte le altre» esordendo a pag. 14 con «l'assimilazione degli operatori
sociali ai tipi tradizionali, quali la milizia, la magistratura, la scuola,
così da costituire il Corpo degli Assistenti Sociali»; accreditando con ciò
l'ipotesi del sociologo Meyer (1) che il mandato che
l'operatore riceve sia quello del controllore.
A questo punto però la parola milizia ricorda all'autore qualcosa,
così che nella pagina dopo si corregge e fa attingere la professione un po'
alla missione del sacerdote, un po' a quella del parroco, del medico, del
pedagogo, dell'educatore, del filantropo sino ad avere «una professione
dall'ambito vastissimo rispondente sempre alle esigenze caritative nel senso più lato della parola». Una professione però appunto «la più sublime tra le umane in quanto
agisce su un fondale eminentemente caritativo»; insomma per chi ancora non
avesse capito, l'assistente sociale «è come un patrono dei propri assistiti e
la sua opera un patronato».
Vediamo a pag. 72 come si esercita
questo patronato e leggiamo che: «si aiuterà i dissestati e le loro famiglie a
fronteggiare la nuova situazione, che in genere si manifesta con disagi e
privazioni, discredito e disdoro (credevamo si manifestasse allegramente e con nessun disagio data l'abitudine dei poveri ad essere
dissestati!), non solo rincuorando e provvedendo al minimo vitale, ma anche
dandosi da fare subito per rifare una posizione di lavoro, ricominciando da
capo (!)». Ma a pag. 84 il patrono cambia registro: infatti
si trova di fronte al dissesto di una famiglia di nobili decaduti e «a loro
converrà ispirare i sentimenti di rassegnazione e sopportazione», senza
trascurare però «di dar giusto riconoscimento al passato e al patrimonio di
nobiltà (andato in dissesto!), mostrando sempre rispetto e venerazione per gli
avi, la stirpe (!!), stimolandoli a rendersi ancora in questo campo educatori
del popolo e diffusori di ataviche virtù (sic)». E se le diverse posizioni
sociali che risultano vengono in tal modo riconfermate
drasticamente come non permutabili e non intercambiabili, se il povero è una
sorte di prodotto di natura, è giusto che il lavoro venga presentato come una
scelta morale contro la scelta degli inutili che non lavorano: «fugando l'ozio,
l'inoperosità» (assistenza ai ragazzi che hanno compiuto la scuola
dell'obbligo). È giusto che l'assistenza ai pregiudicati, liberati dal carcere,
sia una «comunicazione ai soggetti di pace e tranquillità ed intima
riconciliazione con Dio e la società».
Acquietati i poveri, pacificati i vinti, non resta che dissuadere i lavoratori dal diritto di sciopero,
«poiché nulla hanno da guadagnare nel mettere in difficoltà periodicamente
l'azienda», «meglio andare d'accordo con l'imprenditore».
Qui siamo d'accordo con Giacomo Pasquariello
quando dice che la professione dell'assistente sociale «diventerà quella
che dal punto di vista morale suscita meno casi di coscienza ed interrogativi
etici».
Abbiamo indicato questo libro poiché riteniamo che non si tratti solo di un
risultato inconsapevole della pigrizia culturale di chi lo ha scritto, ma di
un progetto educativo che prepara o tende a preparare degli assistenti sociali
incapaci di un atteggiamento critico nei confronti della realtà, cioè delle
situazioni reali che trasformano la vita sociale della comunità in cui essi si
muovono, incapaci di definire il proprio ruolo, le proprie funzioni non solo
verso i propri clienti, ma anche all'interno dell'ente che devono servire.
Dice Michel
Foucault (2): «Si affida agli operatori sociali, il
ruolo che il maestro, il professore di scuola secondaria, l'intellettuale non
svolgono più da un po' di tempo: e il paradosso è che questi operatori sociali
sono formati da questi intellettuali. Ecco perché l'operatore sociale non può tradire la funzione che gli
è stata assegnata».
(1) Vedi su Prospettive assistenziali, n. 20, pag.
14, la traduzione della tavola rotonda dal numero speciale di Esprit: «Pourquoi
le travail social?».
(2) Vedi nota 1.
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