Prospettive assistenziali, n. 26, aprile-giugno
1974
LIBRI
GRUPPO OPERATORI SOCIALI DI PADOVA, Perché si ricoverano i minori in istituto,
pubblicato in proprio, 1974, pag.
Partendo dal giusto principio che
per modificare una realtà occorre innanzi tutto conoscerla, un gruppo di operatori sociali di Padova ha condotto una indagine sui
motivi che determinano il ricovero di minori in istituto.
La ricerca condotta dagli operatori
sociali di Padova, oltre ad avere il pregio di una dettagliata rilevazione (27
tabelle commentano i risultati) costituisce un'utile
traccia per coloro (operatori sociali, amministratori, forze di base, ecc.)
che intendono avviare un lavoro concreto contro l'emarginazione, costruendo in
tal modo dal basso la riforma dei servizi assistenziali. Chi sono i minori ricoverati? Dove sono
ricoverati e da quanto tempo? Cosa costa ricoverare i
minori in istituto? E soprattutto perché vengono
ricoverati questi minori?
Individuate le motivazioni che hanno
provocato il ricovero, attraverso una serie di dati, questa analisi
porta a queste conclusioni: abolire la miriade di enti assistenziali di
categoria, investire gli enti locali in iniziative che risalgano alle cause
che generano il bisogno per rimuoverle, sventando i tentativi
di semplice razionalizzazione i quali eliminano sì le situazioni più macroscopiche,
ma lasciano inalterate le cause.
A. CANEVARO, F.
TONUCCI, P. SACCHETTO, Il gioco dell'oca
dell'assistenza, Guaraldi editore, Rimini, 1973,
pag.
Casella
n. 5: «Per una
deformazione le cui cause non sono bene accertate vieni “deportato” in un
istituto a più di
Casella
n. 11: «Sei un po'
discolo. Ti dovrebbe vedere l'équipe. Tira un dado: il numero che esce corrisponde alla situazione che
incontri:
Casella
n. 21: «Non possiamo dare alla tua famiglia un sussidio per tenerti a casa.
Vai in istituto. Se non c'è posto, vai almeno in
colonia permanente, rinnovando il tuo soggiorno ad ogni turno, in modo da
starci tutto l'anno».
Casella
n. 27: «Hai delle
frequenti crisi di epilessia. La tua famiglia non sa
cosa fare. Interviene l'amministrazione pubblica in
suo e tuo soccorso. Vai in ospedale psichiatrico».
*
* *
Queste sono alcune delle situazioni
messe insieme dal «gioco dell'oca dell'assistenza», situazioni che fanno
parte di una storia sola: quella dell'emarginazione e della sopraffazione, del
controllo organizzato in questa società.
«“Il gioco” può essere usato e
giocato in tante occasioni e forme: può diventare un
modo di fare un seminario per gli operatori sociali: può diventare un gioco da
giocare e dibattere nei circoli, e sostituire, in forma più provocatoria e
aperta, le tante tavole rotonde; può diventare un teatro-gioco, aperto alla
partecipazione degli spettatori non più tali».
Così il libro viene
introdotto dagli autori che, prendono a prestito gli schemi di un vecchio gioco
popolare, pensano di renderlo più fruibile di un saggio sociologico.
Nel libro, dato lo scopo provocatorio, non sono indicate esperienze e proposte
alternative. Pertanto il suo utilizzo dovrà essere fatto in modo da non
causare reazioni qualunquistiche, ma essere uno
strumento di informazione e di crescita. Il gioco infatti
è mondo della libertà perché si rinnova di volta in volta a seconda degli spazi
e delle situazioni in cui si sviluppa.
Utilizzando abilmente il movimento
libero ed estroso delle parti lasciate all'inventiva degli attori,
è capace di dar vita ad una partecipazione nella rappresentazione delle
condizioni della società, soprattutto in questo gioco a molteplici soluzioni
che ha delle regole più o meno fisse.
Dalle varie possibili disposizioni
delle sequenze del gioco dell'oca nasce un numero limitato di
intrecci secondo un ordine progressivo che non ammette inversioni, così
come, se sei (casella 52) in un manicomio che si chiama ospedale
psichiatrico, ci resti 5 giri fino al prossimo scandalo giornalistico, poi via
in un altro manicomio che si chiama «Villa dei fiori»: oppure se ti nasce un
figlio e lo abbandoni perché non hai altre soluzioni, il gioco riprende
dall'inizio con il bambino appena nato.
Ma, ripetiamo, l'informazione non
deve rimanere ambigua anche se provocatoria ed il messaggio
ideologico non deve rimanere sottinteso: esso deve esser accompagnato da una
analisi politica.
GIACINTO BARNESCHI, I
servizi sociali tra razionalizzazione e deistituzionalizzazione,
a cura della scuola per la formazione di educatori e
di terapisti di Lecchi di Staggia (Siena) Anno Acc. 1972-73, pag. 120, senza prezzo.
L'autore intende, con il presente
lavoro, fare una riflessione sulla situazione assistenziale
italiana, partendo da informazioni avute da operatori sociali ed utenti, e
porsi alcuni interrogativi, ai quali non pretende di rispondere con ricette
risolutive, proprio perché pensa che le soluzioni per essere valide non possano
che esser scelte dagli stessi interessati di volta in volta, man mano che la
società organizzata trova nuovi metodi e tecniche e strumenti emarginanti.
Oggi poiché esistono problemi
collettivi cui il singolo non è ancora riuscito a provvedere, l'alternativa vera può essere tra servizi sociali emarginanti
e servizi sociali partecipati, cioè gestiti dai cittadini, socialmente e
politicamente organizzati.
Attraverso una serie di domande e
risposte, partendo dall'osservazione dell'identità tra servizi ed istituzioni
(aumento delle istanze sociali che tende ad accrescere
il numero degli Enti Assistenziali) la ricerca degli operatori e dell'autore,
trova il suo obiettivo nel concetto di prestazioni sociali che non siano
legate ad una particolare struttura, ma ad una maturazione del cittadino, il
quale trovi in sé stesso la coscienza di ciò che gli è necessario, così da
liberarsi dal rapporto che lo lega alle istituzioni-servizi, come assistito.
Risorse comunitarie quindi di tipo nuovo, enti locali
per consentire partecipazione e controllo dei cittadini.
Capovolgimento delle istituzioni
verticali, partendo da modalità nuove di informazione,
nella famiglia, nella scuola, nell'opinione pubblica, per arrivare ad una
analisi critica delle istituzioni stesse. Ne deriva una nuova figura
dell'operatore e del suo ruolo politico: i ruoli «venendo ad essere sinonimo di
conoscenza e competenza rispondono ad una insostituibile
funzione sociopolitica economica culturale» non solo ma essi «diventano una
modalità di lotta continua, condotta nell'interno del lavoro professionale».
Questo porta di conseguenza il
lavoro di gruppo come confronto, anche con l'utente,
della propria attività intellettuale, culturale e politica, e come strumento
di partecipazione orizzontale e non di vertice.
Per meglio affrontare il lavoro, in
appendice al libro sono state aggiunte una aggiornata
bibliografia di saggi, riviste, con contenuti sociologici e di
controinformazione, modelli organizzativi e alcuni schemi-guida affinché
nell'affrontare i diversi problemi gli strumenti della ricerca vengano
adoperati secondo un progetto.
Noi,
gli altri,
Periodico dei detenuti degli istituti di pena fiorentini, N. 4, Via san Gallo
50, Firenze, Abb. annuale L.
2.000.
Segnaliamo il periodico citato come
risultato del collettivo condotto all'interno del carcere dai detenuti degli
istituti di pena fiorentini. Qualunque siano i suoi
contenuti (dal momento che sono gli stessi detenuti a
vederne i limiti e gli sbocchi), lo salutiamo come una scelta faticosa e
consapevole impasta con coraggio ad un ambiente ostile e, per il singolo, una
testimonianza di una vittoria sull'abbrutimento del carcere. Interessante come
le altre «voci del carcere» già udite, l'analisi dei redattori sulle difficoltà
incontrate ne,i due anni di vita dei
giornale.
Qual è stato il contributo dato al
giornale in carcere dai giovani, dal momento che sono
stati proprio questi a dar vita alle più vive e spontanee proteste carcerarie?
Nullo e perché? «Di queste proteste - leggiamo - essi sono state le maggiori
vittime: sempre in traduzione da un carcere all'altro, senza possibilità di essere aiutati, lasciati troppo spesso in balia di se
stessi... ragazzi che hanno fatto tutta la trafila dal collegio al carcere».
Anche da qui traspare la contraddizione tra situazione carceraria e «rieducazione»,
una volontà generalizzata di escludere il giovane detenuto da ogni possibilità
di riabilitazione e riumanizzazione che passi
attraverso la mediazione culturale, escludendolo così
da un dialogo che gli darebbe, oltre che una funzione liberatrice, gli
elementi per contrastare la struttura del carcere con le sue disfunzioni, i
suoi anacronismi, le sue componenti palesi di violenza legalizzata. Questa
politica dei trasferimenti, oltre che rendere praticamente
impossibile la regolare frequenza ai corsi scolastici, si pone in netto
contrasto con le dichiarazioni di voler favorire i contatti del giovane
recluso con la propria famiglia e il proprio ambiente socio-culturale.
S.C. POLACK, La medicina del capitale, con una lettera
di G.A. Maccacaro al presidente dell'ordine dei
medici, Feltrinelli, Milano, 1972, pag.
J. ROBERTSON, Bambini in ospedale, Feltrinelli, Milano,
1973, pag.
Questi libri usciti nella collana
«Medicina e potere» diretta da G.A. Maccacaro nascono
avanzando l'ipotesi di lavoro che la medicina - come
la scienza - sia uno strumento di potere. Però, come è
detto nella introduzione della collana, «quest'ipotesi già formulata, ha
bisogno di nuove verifiche, ulteriori ricerche, più ampie ricognizioni che
attraversino tutte le mappe della cittadella sanitaria».
Attraverso l'esame questi testi,
quelli già usciti ed altri che verranno, questa raccolta è
destinata anzitutto a far giustizia di travisamenti saldamente radicati
e a rimettere in discussione molti luoghi comuni; proprio in questo senso sono
tutti da leggere e da discutere.
Nella prefazione de
Perciò dire medicina del capitale è
intendere molto più che una indicazione storica o sociologica,
è intendere perché «alla medicina venga oggi chiesto di assumere la gestione
del medico oltre a quella del malato, della malattia oltre a quella
dell'istituzione, dell'insegnamento oltre a quello della professione, della
produzione del farmaco oltre a quello della sua domanda». È intendere che non
basta curare l'organo malato per restituire l'uomo all'identità attribuitagli
dal sistema produttivo.
Bisogna essere dalla parte del malato, vedere l'uomo e la sua
storia che si esprime nelle sue malattie.
Riconoscere quindi il traguardo ed
il limite della scienza non significa disconoscere
tale scienza, l'obiettività statistica «dei suoi successi ed il merito
individuale dei suoi artefici, l'uso possibile dei suoi portati, significa
leggerne correttamente la genesi e lo sviluppo, l'ipotesi e la determinazione,
la logica e la contraddizione per poterne intendere finalmente la crisi...».
A questa lettura tende il libro di Polack che cerca di trovare nella malattia, nonostante lo
schermo della medicina, una protesta contro l'ordine sociale.
Con lo stesso occhio è vista la
crisi della clinica. Essa viene ricondotta al suo
nascere, alla fine del settecento quando «modificando la funzione sociale del
medico, garantendone le competenze, elevandone il compito di contenere le
epidemie, controllare il contagio, preservare intere regioni, la borghesia gli
assegna uno spazio e un modo di esercitare nuovi». «L'ospedale deve ormai riunire,
selezionare, confrontare i malati che si servono dei loro diritti, consentire
che tramite il personale ausiliario venga registrato
l'evoluzione del male». «Ciò che si presentava come individualità singolare
nella sezione orizzontale degli elementi sintomatici,
si scompone in sindromi differenziate, statisticamente ripetute».
Con la nascita della clinica si
attua quindi una conversione dello sguardo medico e anche un nuovo assetto
nello spazio sociale della malattia. Dirà Foucault
in Nascita della clinica: «L'ospedale
trova in un regime di libertà economica la possibilità di interessare il ricco,
la clinica costituisce il progressivo versamento dell'altra
parte contraente, essa è da parte del povero l'interesse pagato per la
capitalizzazione ospedaliera, consentita dal ricco».
Ma seguiamo la lettura degli altri
capitoli de
Il capitolo sulla cronicità pone in
evidenza alcune constatazioni: «è poco probabile che
ci si avvii a considerare i malati lungodegenti
come individui inattivi a carico
della società, in cui il numero dei membri
attivi si ridurrebbe notevolmente: è qui senz'altro che bisogna ricercare
l'origine del calcolo implicito che regola la percentuale dei cronici nei servizi attivi ospedalieri. In effetti un certo tasso di affollamento è il risultato
dell'uso sociale, alberghiero,
dell'ospedale; ma al contrario i servizi dei cronici abbandonano troppo
facilmente le loro responsabilità mediche per compiti di mera sorveglianza o
gestione». «Il problema della mancanza di
letti ospedalieri deve essere posto in questi termini se si vuole evitare
la pura e semplice quantificazione dei bisogni
sulla base di un atteggiamento globale della società
nei confronti dei suoi casi sociali,
anziani, minorati, baraccati».
Polack denuncia le conseguenze di una
politica di abbandono delle frange sottoproletarie o
anziane della popolazione per cui in Francia (e non solo in Francia) l'ospedale
e la sicurezza sociale sotto l'egida della medicina (e perché non della
geriatria) praticano comunemente la politica dei resti.
Così che questo sedimento di
cronicità diventa una necessità, qualunque sia il ritmo di ricoveri che
l'ospedale propone come obiettivo, poiché «la sua
scomparsa determinerebbe il crollo dell'equilibrio dell'impresa ospedaliera,
tenuta allora ad aumentare il numero degli addetti o il livello dei salari».
Che questa «impresa sanitaria»
obbedisca ad una logica capitalistica e non al fine di ottimizzare
l'effettiva assistenza all'infermità è ancora più chiaro nel libro della
stessa collana Bambini in ospedale
dove nella prima parte sono raccolte esperienze e riflessioni (molto eloquenti
anche le fotografie) di un gruppo di studenti che hanno seguito durante il 1972
il corso di biometria e statistica medica presso la facoltà di medicina e
chirurgia dell'università degli studi di Milano, svolgendo un'inchiesta per
conoscere forme, strutture, ordinamenti di uno o più reparti pediatrici. Anche qui si è trovato l'ingombro
del bambino ricoverato, mantenuto entro i limiti normalizzati dall'ospedale.
«Abbiamo cercato negli ospedali e
nei reparti visitati l'unità bimbo-madre... non l'abbiamo
trovata... per essa non c'è tempo, non c'è spazio, non c'è modo», «di qua o di
là da un muro o da un vetro la madre è sempre esterna al compiersi dell'atto medico», «bisogna che il bambino sia
abbastanza ricco talché i suoi genitori possano pagare per lui il ricovero in
una casa di cura privata o in una stanza del reparto solventi. Qui vicino al suo letto non mancherà lo spazio perché
sua madre che ne ha anche il tempo ricrei
il modo della loro familiarità».
Ma i medici? Rispondono nella
relazione del seminario, gli studenti. Molti sono disposti alla creazione di
nuove costruzioni modernissime «dove non ci metterà più piede neanche una madre»,
ad una maggiore razionalizzazione nella cura e nell'ospedalizzazione, «sì che
i bimbi diventino tanti bei soldatini ed imparino ad esser uomini» così che
«entrano coi vizi ed escono senza».
Parole che annunciano già all'infante le pretese di redimerlo che sarà
di tutte le istituzioni disposte a prenderlo
in forza una dopo l'altra, lungo l'arco di una vita.
Altri medici
persuasi della vanità dei tentativi, scontando in partenza ciò che si vorrebbe
e ciò che non si può fare, pur riconoscendo l'importanza dei problemi
affettivi dei bambini, temono che la critica del genitore partendo «dal letto
del bambino» arrivi a coinvolgere «la fabbrica sanitaria». Meglio allora
che il bambino diventi «dell'ospedale». Ed ecco
l'ospedale pediatrico, così apparentemente gentile, affettuoso, aperto alla
speranza «riprodurre per gli stessi fini la stessa operazione delle
altre istituzioni, la riduzione ad
oggetto del piccolo paziente con l'esclusione dall'istituzione del soggetto
residuo materno».
Il problema del bimbo ospedalizzato,
problema quasi del tutto ignorato in Italia, viene
affrontato nella seconda parte del libro da Robertson,
psicanalista, che illustra le sue esperienze in proposito, tratte da ricerche
da lui effettuate sugli effetti della separazione del bimbo dalla madre dovuta
all'ospedalizzazione.
È un problema che andrebbe
affrontato e discusso in maniera estremamente libera
per abbattere le restrizioni imposte ai piccoli pazienti, per liberalizzare le
visite e l'ospedalizzazione della madre assieme al bimbo. Dice
la dichiarazione sui diritti dell'infanzia delle Nazioni Unite emanata
nel 1959: «Poiché il bambino per la sua immaturità fisica e psichica necessita di tutela e di cure particolari, i fanciulli in
tenera età non devono venir separati dalla madre se non in circostanze
eccezionali».
GIULIANA LATTES
www.fondazionepromozionesociale.it