Prospettive assistenziali, n. 26, aprile-giugno 1974

 

 

LIBRI

 

 

GRUPPO OPERATORI SOCIALI DI PADOVA, Per­ché si ricoverano i minori in istituto, pubbli­cato in proprio, 1974, pag. 54, L. 1.000 (Per or­dinazioni rivolgersi a Odilla Stella, Via C. Bat­tisti 2, Caselle di Selvazzano 35030).

 

Partendo dal giusto principio che per modifica­re una realtà occorre innanzi tutto conoscerla, un gruppo di operatori sociali di Padova ha con­dotto una indagine sui motivi che determinano il ricovero di minori in istituto.

La ricerca condotta dagli operatori sociali di Padova, oltre ad avere il pregio di una dettaglia­ta rilevazione (27 tabelle commentano i risulta­ti) costituisce un'utile traccia per coloro (ope­ratori sociali, amministratori, forze di base, ecc.) che intendono avviare un lavoro concreto contro l'emarginazione, costruendo in tal modo dal bas­so la riforma dei servizi assistenziali. Chi sono i minori ricoverati? Dove sono ricoverati e da quanto tempo? Cosa costa ricoverare i minori in istituto? E soprattutto perché vengono ricoverati questi minori?

Individuate le motivazioni che hanno provocato il ricovero, attraverso una serie di dati, questa analisi porta a queste conclusioni: abolire la miriade di enti assistenziali di categoria, inve­stire gli enti locali in iniziative che risalgano al­le cause che generano il bisogno per rimuoverle, sventando i tentativi di semplice razionalizzazio­ne i quali eliminano sì le situazioni più macrosco­piche, ma lasciano inalterate le cause.

 

 

A. CANEVARO, F. TONUCCI, P. SACCHETTO, Il gioco dell'oca dell'assistenza, Guaraldi editore, Rimini, 1973, pag. 150, L. 1.500.

 

Casella n. 5: «Per una deformazione le cui cause non sono bene accertate vieni “deporta­to” in un istituto a più di 800 km di distanza dal­la residenza della tua famiglia. La vedrai una vol­ta all'anno. Stai fermo 5 giri»;

Casella n. 11: «Sei un po' discolo. Ti dovreb­be vedere l'équipe. Tira un dado: il numero che esce corrisponde alla situazione che incontri:

1 L'équipe non è ancora costituita;

2 L'équipe si costituirà l'anno prossimo;

3 L'équipe si è costituita, ma si è sfasciata;

4 L'équipe non fa più diagnosi, ma denuncia il sistema;

5 L'équipe non può entrare nella scuola perché il provveditorato non vuole;

6 L'équipe discute il caso».

Casella n. 21: «Non possiamo dare alla tua fa­miglia un sussidio per tenerti a casa. Vai in isti­tuto. Se non c'è posto, vai almeno in colonia per­manente, rinnovando il tuo soggiorno ad ogni tur­no, in modo da starci tutto l'anno».

Casella n. 27: «Hai delle frequenti crisi di epi­lessia. La tua famiglia non sa cosa fare. Intervie­ne l'amministrazione pubblica in suo e tuo soc­corso. Vai in ospedale psichiatrico».

 

*  *  *

 

Queste sono alcune delle situazioni messe in­sieme dal «gioco dell'oca dell'assistenza», si­tuazioni che fanno parte di una storia sola: quel­la dell'emarginazione e della sopraffazione, del controllo organizzato in questa società.

«“Il gioco” può essere usato e giocato in tan­te occasioni e forme: può diventare un modo di fare un seminario per gli operatori sociali: può diventare un gioco da giocare e dibattere nei cir­coli, e sostituire, in forma più provocatoria e aperta, le tante tavole rotonde; può diventare un teatro-gioco, aperto alla partecipazione degli spettatori non più tali».

Così il libro viene introdotto dagli autori che, prendono a prestito gli schemi di un vecchio gio­co popolare, pensano di renderlo più fruibile di un saggio sociologico.

Nel libro, dato lo scopo provocatorio, non sono indicate esperienze e proposte alternative. Per­tanto il suo utilizzo dovrà essere fatto in modo da non causare reazioni qualunquistiche, ma es­sere uno strumento di informazione e di crescita. Il gioco infatti è mondo della libertà perché si rinnova di volta in volta a seconda degli spazi e delle situazioni in cui si sviluppa.

Utilizzando abilmente il movimento libero ed estroso delle parti lasciate all'inventiva degli at­tori, è capace di dar vita ad una partecipazione nella rappresentazione delle condizioni della so­cietà, soprattutto in questo gioco a molteplici so­luzioni che ha delle regole più o meno fisse.

Dalle varie possibili disposizioni delle sequen­ze del gioco dell'oca nasce un numero limitato di intrecci secondo un ordine progressivo che non ammette inversioni, così come, se sei (ca­sella 52) in un manicomio che si chiama ospeda­le psichiatrico, ci resti 5 giri fino al prossimo scandalo giornalistico, poi via in un altro mani­comio che si chiama «Villa dei fiori»: oppure se ti nasce un figlio e lo abbandoni perché non hai altre soluzioni, il gioco riprende dall'inizio con il bambino appena nato.

Ma, ripetiamo, l'informazione non deve rima­nere ambigua anche se provocatoria ed il mes­saggio ideologico non deve rimanere sottinteso: esso deve esser accompagnato da una analisi politica.

 

 

GIACINTO BARNESCHI, I servizi sociali tra razio­nalizzazione e deistituzionalizzazione, a cura della scuola per la formazione di educatori e di terapisti di Lecchi di Staggia (Siena) Anno Acc. 1972-73, pag. 120, senza prezzo.

 

L'autore intende, con il presente lavoro, fare una riflessione sulla situazione assistenziale ita­liana, partendo da informazioni avute da opera­tori sociali ed utenti, e porsi alcuni interrogativi, ai quali non pretende di rispondere con ricette risolutive, proprio perché pensa che le soluzioni per essere valide non possano che esser scelte dagli stessi interessati di volta in volta, man mano che la società organizzata trova nuovi me­todi e tecniche e strumenti emarginanti.

Oggi poiché esistono problemi collettivi cui il singolo non è ancora riuscito a provvedere, l'alternativa vera può essere tra servizi sociali emarginanti e servizi sociali partecipati, cioè ge­stiti dai cittadini, socialmente e politicamente organizzati.

Attraverso una serie di domande e risposte, partendo dall'osservazione dell'identità tra ser­vizi ed istituzioni (aumento delle istanze sociali che tende ad accrescere il numero degli Enti As­sistenziali) la ricerca degli operatori e dell'au­tore, trova il suo obiettivo nel concetto di pre­stazioni sociali che non siano legate ad una par­ticolare struttura, ma ad una maturazione del cittadino, il quale trovi in sé stesso la coscienza di ciò che gli è necessario, così da liberarsi dal rapporto che lo lega alle istituzioni-servizi, come assistito. Risorse comunitarie quindi di tipo nuo­vo, enti locali per consentire partecipazione e controllo dei cittadini.

Capovolgimento delle istituzioni verticali, par­tendo da modalità nuove di informazione, nella famiglia, nella scuola, nell'opinione pubblica, per arrivare ad una analisi critica delle istituzioni stesse. Ne deriva una nuova figura dell'operatore e del suo ruolo politico: i ruoli «venendo ad essere sinonimo di conoscenza e competenza ri­spondono ad una insostituibile funzione socio­politica economica culturale» non solo ma essi «diventano una modalità di lotta continua, con­dotta nell'interno del lavoro professionale».

Questo porta di conseguenza il lavoro di grup­po come confronto, anche con l'utente, della pro­pria attività intellettuale, culturale e politica, e come strumento di partecipazione orizzontale e non di vertice.

Per meglio affrontare il lavoro, in appendice al libro sono state aggiunte una aggiornata bibliografia di saggi, riviste, con contenuti sociolo­gici e di controinformazione, modelli organizza­tivi e alcuni schemi-guida affinché nell'affrontare i diversi problemi gli strumenti della ricerca ven­gano adoperati secondo un progetto.

 

 

Noi, gli altri, Periodico dei detenuti degli istituti di pena fiorentini, N. 4, Via san Gallo 50, Firenze, Abb. annuale L. 2.000.

 

Segnaliamo il periodico citato come risultato del collettivo condotto all'interno del carcere dai detenuti degli istituti di pena fiorentini. Qualun­que siano i suoi contenuti (dal momento che so­no gli stessi detenuti a vederne i limiti e gli sbocchi), lo salutiamo come una scelta faticosa e consapevole impasta con coraggio ad un am­biente ostile e, per il singolo, una testimonianza di una vittoria sull'abbrutimento del carcere. In­teressante come le altre «voci del carcere» già udite, l'analisi dei redattori sulle difficoltà incon­trate ne,i due anni di vita dei giornale.

Qual è stato il contributo dato al giornale in carcere dai giovani, dal momento che sono stati proprio questi a dar vita alle più vive e sponta­nee proteste carcerarie? Nullo e perché? «Di queste proteste - leggiamo - essi sono state le maggiori vittime: sempre in traduzione da un carcere all'altro, senza possibilità di essere aiu­tati, lasciati troppo spesso in balia di se stessi... ragazzi che hanno fatto tutta la trafila dal colle­gio al carcere». Anche da qui traspare la con­traddizione tra situazione carceraria e «riedu­cazione», una volontà generalizzata di esclude­re il giovane detenuto da ogni possibilità di ria­bilitazione e riumanizzazione che passi attraver­so la mediazione culturale, escludendolo così da un dialogo che gli darebbe, oltre che una funzio­ne liberatrice, gli elementi per contrastare la struttura del carcere con le sue disfunzioni, i suoi anacronismi, le sue componenti palesi di violenza legalizzata. Questa politica dei trasferi­menti, oltre che rendere praticamente impossibi­le la regolare frequenza ai corsi scolastici, si po­ne in netto contrasto con le dichiarazioni di vo­ler favorire i contatti del giovane recluso con la propria famiglia e il proprio ambiente socio-cul­turale.

 

 

S.C. POLACK, La medicina del capitale, con una lettera di G.A. Maccacaro al presidente dell'ordine dei medici, Feltrinelli, Milano, 1972, pag. 210, L. 2.500;

J. ROBERTSON, Bambini in ospedale, Feltrinelli, Milano, 1973, pag. 139, L. 2.000.

 

Questi libri usciti nella collana «Medicina e potere» diretta da G.A. Maccacaro nascono avanzando l'ipotesi di lavoro che la medicina - come la scienza - sia uno strumento di potere. Però, come è detto nella introduzione della col­lana, «quest'ipotesi già formulata, ha bisogno di nuove verifiche, ulteriori ricerche, più ampie ricognizioni che attraversino tutte le mappe del­la cittadella sanitaria».

Attraverso l'esame questi testi, quelli già usci­ti ed altri che verranno, questa raccolta è desti­nata anzitutto a far giustizia di travisamenti saldamente radicati e a rimettere in discussione molti luoghi comuni; proprio in questo senso so­no tutti da leggere e da discutere.

Nella prefazione de La Medicina del Capitale di Jean Claude Polack, una lettera di Giulio A. Maccacaro al Presidente dell'ordine dei medici di Milano e Provincia così dice tra l'altro: «... Nel tempo e nello spazio è dunque verificabile che la trasformazione industriale ha aumentato la vita media degli uomini. Notizie di questo genere so­no oggetto di costante e persino scolastica di­vulgazione... Però non si insegna, non si divulga, e quindi non si sa che la vita media non usava distinguere per classi sociali sino all'inizio della rivoluzione industriale, e con questa, che la mor­te e la malattia imparano a discriminare sempre più severamente e attentamente entro una stes­sa collettività tra ricchi e poveri, tra la classe del capitale e quella del lavoro...» «... segnalo alla sua attenzione - continua Maccacaro nella sua lettera d'introduzione - la drammatica differen­za tra il tasso generale di mortalità di titolari di redditi tassabili (10,8 morti ogni 1000 vivi) e dei senza reddito (24,8 morti ogni 1000 vivi), il di­vario spaventosamente significativo tra i due gruppi nell'età di maggior impegno lavorativo, cioè tra i 30 e i 59 anni con un rapporto di 10,36 morti non tassabili per 1,00 morto tassabile nell'età 40-49».

Perciò dire medicina del capitale è intendere molto più che una indicazione storica o sociolo­gica, è intendere perché «alla medicina venga oggi chiesto di assumere la gestione del medico oltre a quella del malato, della malattia oltre a quella dell'istituzione, dell'insegnamento oltre a quello della professione, della produzione del farmaco oltre a quello della sua domanda». È in­tendere che non basta curare l'organo malato per restituire l'uomo all'identità attribuitagli dal si­stema produttivo.

Bisogna essere dalla parte del malato, vedere l'uomo e la sua storia che si esprime nelle sue malattie.

Riconoscere quindi il traguardo ed il limite del­la scienza non significa disconoscere tale scien­za, l'obiettività statistica «dei suoi successi ed il merito individuale dei suoi artefici, l'uso pos­sibile dei suoi portati, significa leggerne corret­tamente la genesi e lo sviluppo, l'ipotesi e la de­terminazione, la logica e la contraddizione per poterne intendere finalmente la crisi...».

A questa lettura tende il libro di Polack che cerca di trovare nella malattia, nonostante lo schermo della medicina, una protesta contro l'or­dine sociale.

Con lo stesso occhio è vista la crisi della cli­nica. Essa viene ricondotta al suo nascere, alla fine del settecento quando «modificando la fun­zione sociale del medico, garantendone le com­petenze, elevandone il compito di contenere le epidemie, controllare il contagio, preservare in­tere regioni, la borghesia gli assegna uno spazio e un modo di esercitare nuovi». «L'ospedale deve ormai riunire, selezionare, confrontare i malati che si servono dei loro diritti, consentire che tramite il personale ausiliario venga regi­strato l'evoluzione del male». «Ciò che si pre­sentava come individualità singolare nella sezio­ne orizzontale degli elementi sintomatici, si scompone in sindromi differenziate, statistica­mente ripetute».

Con la nascita della clinica si attua quindi una conversione dello sguardo medico e anche un nuovo assetto nello spazio sociale della malat­tia. Dirà Foucault in Nascita della clinica: «L'o­spedale trova in un regime di libertà economica la possibilità di interessare il ricco, la clinica co­stituisce il progressivo versamento dell'altra par­te contraente, essa è da parte del povero l'inte­resse pagato per la capitalizzazione ospedaliera, consentita dal ricco».

Ma seguiamo la lettura degli altri capitoli de La Medicina del Capitale: economia della morte, corpo e capitale, arbitraggio e decisione, consu­mo e consumazione, la cronicità, il personale sa­nitario, clienti e strategia e vedremo come sia il progredire stesso della civiltà a rendere più in­tricato il panorama delle forme morbose; immes­sa in uno spazio sociale diversificato, dominata da una rete di rapporti interumani sempre più complessi, la malattia si corrompe e acquista forme spurie e incontrollabili. Viene allora da chiedersi se non bisognerebbe restituire la ma­lattia al suo luogo naturale, la famiglia, e sottrar­la a quello spazio artificioso che è l'ospedale ve­ra antinatura, in cui le malattie si incrociano si­no a diventare irriconoscibili e quindi incontrol­labili.

Il capitolo sulla cronicità pone in evidenza al­cune constatazioni: «è poco probabile che ci si avvii a considerare i malati lungodegenti come individui inattivi a carico della società, in cui il numero dei membri attivi si ridurrebbe notevol­mente: è qui senz'altro che bisogna ricercare l'origine del calcolo implicito che regola la per­centuale dei cronici nei servizi attivi ospedalieri. In effetti un certo tasso di affollamento è il risul­tato dell'uso sociale, alberghiero, dell'ospedale; ma al contrario i servizi dei cronici abbandonano troppo facilmente le loro responsabilità mediche per compiti di mera sorveglianza o gestione». «Il problema della mancanza di letti ospedalieri de­ve essere posto in questi termini se si vuole evi­tare la pura e semplice quantificazione dei biso­gni sulla base di un atteggiamento globale della società nei confronti dei suoi casi sociali, anzia­ni, minorati, baraccati».

Polack denuncia le conseguenze di una politi­ca di abbandono delle frange sottoproletarie o anziane della popolazione per cui in Francia (e non solo in Francia) l'ospedale e la sicurezza so­ciale sotto l'egida della medicina (e perché non della geriatria) praticano comunemente la poli­tica dei resti.

Così che questo sedimento di cronicità diven­ta una necessità, qualunque sia il ritmo di rico­veri che l'ospedale propone come obiettivo, poi­ché «la sua scomparsa determinerebbe il crollo dell'equilibrio dell'impresa ospedaliera, tenuta allora ad aumentare il numero degli addetti o il li­vello dei salari».

Che questa «impresa sanitaria» obbedisca ad una logica capitalistica e non al fine di otti­mizzare l'effettiva assistenza all'infermità è an­cora più chiaro nel libro della stessa collana Bambini in ospedale dove nella prima parte sono raccolte esperienze e riflessioni (molto eloquen­ti anche le fotografie) di un gruppo di studenti che hanno seguito durante il 1972 il corso di bio­metria e statistica medica presso la facoltà di medicina e chirurgia dell'università degli studi di Milano, svolgendo un'inchiesta per conoscere forme, strutture, ordinamenti di uno o più reparti pediatrici. Anche qui si è trovato l'ingombro del bambino ricoverato, mantenuto entro i limiti nor­malizzati dall'ospedale.

«Abbiamo cercato negli ospedali e nei reparti visitati l'unità bimbo-madre... non l'abbiamo tro­vata... per essa non c'è tempo, non c'è spazio, non c'è modo», «di qua o di là da un muro o da un vetro la madre è sempre esterna al compiersi dell'atto medico», «bisogna che il bambino sia abbastanza ricco talché i suoi genitori possano pagare per lui il ricovero in una casa di cura pri­vata o in una stanza del reparto solventi. Qui vi­cino al suo letto non mancherà lo spazio perché sua madre che ne ha anche il tempo ricrei il mo­do della loro familiarità».

Ma i medici? Rispondono nella relazione del seminario, gli studenti. Molti sono disposti alla creazione di nuove costruzioni modernissime «dove non ci metterà più piede neanche una ma­dre», ad una maggiore razionalizzazione nella cu­ra e nell'ospedalizzazione, «sì che i bimbi diven­tino tanti bei soldatini ed imparino ad esser uo­mini» così che «entrano coi vizi ed escono sen­za». Parole che annunciano già all'infante le pre­tese di redimerlo che sarà di tutte le istituzioni disposte a prenderlo in forza una dopo l'altra, lungo l'arco di una vita.

Altri medici persuasi della vanità dei tentati­vi, scontando in partenza ciò che si vorrebbe e ciò che non si può fare, pur riconoscendo l'im­portanza dei problemi affettivi dei bambini, te­mono che la critica del genitore partendo «dal letto del bambino» arrivi a coinvolgere «la fab­brica sanitaria». Meglio allora che il bambino di­venti «dell'ospedale». Ed ecco l'ospedale pedia­trico, così apparentemente gentile, affettuoso, aperto alla speranza «riprodurre per gli stessi fini la stessa operazione delle altre istituzioni, la riduzione ad oggetto del piccolo paziente con l'e­sclusione dall'istituzione del soggetto residuo materno».

Il problema del bimbo ospedalizzato, problema quasi del tutto ignorato in Italia, viene affrontato nella seconda parte del libro da Robertson, psi­canalista, che illustra le sue esperienze in pro­posito, tratte da ricerche da lui effettuate sugli effetti della separazione del bimbo dalla madre dovuta all'ospedalizzazione.

È un problema che andrebbe affrontato e di­scusso in maniera estremamente libera per ab­battere le restrizioni imposte ai piccoli pazienti, per liberalizzare le visite e l'ospedalizzazione della madre assieme al bimbo. Dice la dichiara­zione sui diritti dell'infanzia delle Nazioni Unite emanata nel 1959: «Poiché il bambino per la sua immaturità fisica e psichica necessita di tutela e di cure particolari, i fanciulli in tenera età non devono venir separati dalla madre se non in cir­costanze eccezionali».

GIULIANA LATTES

 

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