Prospettive assistenziali, n. 26, aprile-giugno
1974
NON SIAMO I SOLI A
DIRLO
GLI HANDICAPPATI IN ITALIA
Riportiamo da una tavola rotonda
organizzata dal gruppo «Dopolavoro E.N.I.» di San Donato Milanese sul tema
degli handicappati, il parere della dottoressa Stefania Orio che ha il pregio
di essere non solo un discorso teorico, ma l'analisi di una esperienza
vissuta in un istituto medico-psicopedagogico,
l'interpretazione del tipo di socializzazione dei bimbi ivi ricoverati,
bambini non nutriti da alcun rapporto personale valido col mondo esterno e con
educatori vanificati dal fatto che l'istituto è un mondo artificiale.
Intervento di Stefania
Orio
Io vorrei fare un intervento, se mi consentite, come psicologa, proprio a proposito della
socializzazione, dell'inserimento e a proposito degli istituti medico-psico-pedagogici e delle altre strutture speciali,
voglio precisare che non è un discorso teorico, ma un discorso molto concreto.
Ero stata chiamata a lavorare in un
istituto medico-psico-pedagogico dove c'erano dei
subnormali gravi (almeno questa era la diagnosi di ingresso
di ogni bambino). Siccome volevano anche mettere un
quoziente vicino ad ogni bambino, i quozienti andavano da
Il discorso che giustificava
l'esistenza di questo istituto era che lì il rapporto
del personale con i bambini era di uno a tre e quindi i bambini erano molto
seguiti.
Il vivere internamente a questo istituto, insieme a un gruppo di miei collaboratori,
che erano educatori, una esperienza che voleva portare veramente al recupero
di questi bambini, ci ha fatto concludere per l'assoluta inutilità di questa
struttura; anzi, per il gravissimo danno che questa struttura stava facendo a
tutti i bambini ricoverati.
Abbiamo incominciato a verificare
una cosa: l'istituto era situato in un bel parco e per prudenza, siccome si
riteneva che gli handicappati gravi non erano capaci di guardarsi intorno e di
sfuggire le macchine o cose del genere, i bambini
venivano portati in passeggiata solo in occasione particolarmente favorevole,
in ore tranquille e nemmeno tutti i giorni; con il risultato che alcuni bambini
non sapevano assolutamente muoversi al di fuori del parco dell'istituto.
Abbiamo provato una volta a portarli sulla spiaggia e
i bambini rimanevano terrorizzati vicino a noi e non avevano assolutamente il
coraggio di staccarsi.
Un bambino che da 12 anni era in questo istituto, anche dopo che è stato dimesso (adesso vive
con me), ha camminato per circa 8 mesi con la mano appoggiata alla spalla della
persona con cui andava e rifiutava di staccarsi fisicamente dalla persona.
Abbiamo visto anche una cosa:
cercando di vivere con questi bambini situazioni il più possibile vicino alla
normalità, cioè mettendo per es. gruppi di due
educatori, un ragazzo e una ragazza, con 4 o 5 bambini e facendo condurre loro
una vita abbastanza simile a quella familiare, i vantaggi che i bambini
ricevevano, rispetto alla vita precedente di istituto, erano discreti. Comunque l'incremento che i bambini avevano ricevuto andando
in normalissime famiglie non preparate pedagogicamente, soltanto preparate con
un certo discorso che si era fatto insieme, era enorme; erano famiglie del
quartiere che si erano riunite tre o quattro volte, alle quali s'era detto
proprio che si voleva fare questa esperienza: «prendete con voi questi bambini,
trattateli come se fossero bambini normali, con assoluta spontaneità, e
vediamo che tipo di progressi fanno». I progressi ottenuti in un mese da queste
famiglie senza nessuna preparazione pedagogica, che però offrivano al bambino
una situazione reale e non fittizia, erano veramente enormi: cioè
noi valutavamo sia la capacità di formare dei concetti logici, di riconoscere
degli oggetti, di memorizzare, che la capacità di condurre esperienze di vita
pratica, di esprimersi sia a parole che col disegno per chi riusciva a
disegnare; infine di autogestirsi, di essere
autonomi, di non dover dipendere dagli altri nelle proprie decisioni; bene,
tutte indistintamente queste cose sono esplose nella vita in una situazione
concreta.
Dopodiché abbiamo
deciso che tutti gli sforzi che avevamo fatto noi, che ci eravamo letti tutti
assieme degli autori, che ci eravamo specializzati nella rieducazione dei
bambini, tutto sommato non erano che delle giustificazioni per tenere in piedi
un istituto che avrebbe potuto benissimo essere smantellato.
Ho voluto raccontare questa esperienza perché mi pareva che ancora una volta si
fosse slittati nel discorso del bambino portatore di qualcosa che deve essere
curato in modo particolare perché è una malattia e di conseguenza ci vuole
tutta una serie di accorgimenti.
Io non voglio negare così
semplicisticamente l'opportunità di conoscere il più possibile tutto quello
che ci rende diversi gli uni dagli altri e lo sforzo di comunicarci queste
differenze in modo da poterle accettare reciprocamente; quello che voglio dire
è che non si arriva mai ad insegnare a una persona a
vivere con gli altri se la si allontana da loro o la si mette in una situazione
artificiale.
Questo allontanamento può essere
giustificato da situazioni che per il momento non riusciamo
a modificare, ma allora dobbiamo dirci chiaramente che dobbiamo fare così
perché non si può modificare la situazione anche se lo vorremmo e non
viceversa. Almeno questa è la mia opinione, convalidata da una
esperienza.
(Da GLI HANDICAPPATI IN
ITALIA, Tavola rotonda, in «Città e Società», luglio-agosto 1973, pag. 48 e segg).
www.fondazionepromozionesociale.it