Prospettive assistenziali, n. 27, luglio-settembre
1974
LIBRI
ISTITUTO PER GLI STUDI SUI SERVIZI
SOCIALI, Problemi e prospettive
dell'affidamento familiare - Atti del convegno di Roma del 16-18 maggio
1973, ISTISSS,
Roma, 1974, pag.
INFORMATIONS SOCIALES, Le
placement familial,
numero speciale, Parigi, settembre 1972.
Molto opportunamente l'ISTISSS ha
organizzato il convegno sui problemi e sulle prospettive dell'affidamento
familiare, in quanto era necessario, alla luce delle esperienze in atto, un
confronto sui metodi, caratteristiche e procedure, sulle impostazioni
politiche in base alle quali i servizi sono stati
istituiti e funzionano.
Tutti gli interventi hanno
confermato la validità dell'affidamento familiare a
scopo educativo dei minori per i quali non è possibile la permanenza nel
nucleo familiare d'origine e non sussistono le condizioni di età o di
abbandono materiale e morale per la dichiarazione di adottabilità. È risultato inoltre che vi sono alcune esperienze di
affidamento familiare che non si collocano, nemmeno in prospettiva, nell'ambito
dei servizi dell'unità locale: sono in particolare gli affidamenti fatti dagli
uffici distrettuali di servizio sociale dei tribunali per i minorenni.
Altre esperienze, pur essendo
gestite da enti locali, non possono essere trasferite, così come sono attualmente attuate, nelle unità locali.
Tuttavia, sia le une che le altre, rappresentano una rottura con il vecchio tipo
di intervento (ricovero in istituti a carattere di internato).
Vi è però da vedere se esse potranno
compiere l'ulteriore passo e diventare una soluzione
alternativa o se resteranno semplicemente un esempio di razionalizzazione.
Occorrerà cioè
vedere se gli operatori sociali e le famiglie affidatarie lotteranno perché
l'affidamento diventi uno dei servizi dell'unità locale,
una soluzione di emergenza e un
incentivo alla rimozione delle cause economiche e sociali che determinano o
contribuiscono a creare le cosiddette famiglie incapaci.
Mentre le relazioni degli esperti
contengono utili elementi per quanti sono interessati a portare avanti
l'affidamento familiare, deludenti sono stati gli
interventi dei politici che hanno partecipato al convegno di Roma. Deludenti
perché essi non hanno saputo né cogliere gli aspetti innovatori delle
esperienze in materia di affidamento familiare, né
comprendere che le vigenti norme legislative concernenti l'assistenza e quelle
comprese nel diritto civile sono un reale ostacolo allo sviluppo
dell'affidamento familiare.
Basti ricordare al riguardo che
l'art. 32 del R. D. 29 dicembre 1927 n. 2822 vieta l'affidamento degli
illegittimi nei casi in cui siano disponibili posti
negli istituti e che gli art. 404 e segg. del codice civile dispongono che
dopo tre anni di affidamento può essere richiesta, sentito solo il parere dei
genitori di origine, l'affiliazione.
Non tenendo in
alcun conto il carattere punitivo della legislazione vigente nei confronti
delle famiglie d'origine,
L'On. Foschi,
presentatore della suddetta proposta di legge, si è trovato così
isolato e anzi contrastato da parlamentari del suo stesso partito. Ne deriva
che senza un forte movimento, come ad esempio quello creato sull'adozione speciale,
la proposta di legge n. 750 non verrà nemmeno discussa.
*
* *
La lettura del numero di Informations sociales è
molto importante poiché fornisce la prova delle conseguenze negative che
assume l'affidamento familiare quando è utilizzato come semplice strumento di
razionalizzazione.
In Francia gli affidamenti sono
250.000-300.000 su un totale di 700.000 minori assistiti. I tecnici che
lavorano nei servizi di affidamento sono alcune
migliaia. Sono stati compiuti studi sulle famiglie d'origine e Jean Blettner, citando le ricerche
compiute, afferma che «ciò che caratterizza essenzialmente le famiglie
d'origine dei minori sottoposti a un affidamento
familiare è l'incapacità in cui esse si trovano di resistere alla segregazione
e alla pressione sociale dell'ambiente. Spingendo all'estremo la fragilità di
questi nuclei familiari, quando la catastrofe si evidenzia,
allora si procede al “rapimento” del bambino». Ma ai
tecnici francesi non interessa risalire alle cause e in nessun articolo vi è
traccia di un lavoro in questa direzione, mentre abbondano le suddivisioni in
categorie, le classificazioni dei vari tipi di servizi e le descrizioni dei
diversi ruoli degli operatori.
L'affidamento familiare diventa
pertanto uno dei campi in cui i tecnici trovano spazio, posti direttivi,
quattrini, carriera e potere e in cui i bambini, le famiglie d'origine e
quelle affidatarie sono semplicemente degli oggetti.
A. BALLONI e L. FADIGA, La
fabbrica dei disadattati - Infanzia abbandonata e gioventù deviante,
Sapere edizioni, Milano - Roma, 1974, pag.
Il decennio che sta per concludersi, iniziato nel 1963 con lo scandalo dell'istituto
dei «Celestini» di Prato, potrebbe essere definito dal futuro storico
dell'assistenza come il periodo della scoperta e della denuncia. Mai come in
questi anni l'opinione pubblica è stata scossa così di frequente da notizie di
maltrattamenti, crudeltà, vere e proprie sevizie patite da bambini ricoverati
negli istituti assistenziali. Gli scandali non hanno
colpito solo istituti privati, ma anche enti pubblici
che operano a livello nazionale: né l'infamia ha evitato lo Stato, poiché le
denunce sulla situazione dei cosiddetti istituti rieducativi hanno messo in
luce fatti di gravità estrema.
E se si evita l'errore di fermarsi
solo sui casi, pur numerosi, di maltrattamenti fisici, si deve constatare che
la violenza viene esercitata sul bambino in forme ben
più diffuse ed insidiose, destinate a lasciare la loro traccia su tutta la sua
vita futura: allontanamento dalla famiglia, sradicamento dall'ambiente,
trasferimenti da un istituto all'altro, mancanza di validi contenuti pedagogici,
deprivazione affettiva, carenze alimentari ed ambientali, isolamento dalla
società. L'elenco potrebbe continuare, ma è già
sufficiente per far comprendere la gravità del fenomeno e la sua natura
endemica.
Ai vari «scandali» già noti, si
aggiunge quello dell'istituto medico-psico-pedagogico
«V.G.», il cui funzionamento viene analizzato
attentamente nel libro.
Il tribunale per i minorenni di
Bologna, avuta notizia di disfunzioni dell'istituto
«V.G.» (fra l'altro erano stati indiziati del reato di maltrattanti alcuni
capi reparto e vigilatori), con un coraggioso decreto, istituisce una commissione
di indagine e ordina «l'immediato allontanamento dall'I.M.P.P. di “V.G.” dei minori che
in qualsiasi modo abbiano espresso lagnanze per abusi di mezzi di correzione,
lesioni e cattivo trattamento».
Nel decreto del 25-1-1971 il
tribunale per i minorenni di Bologna giustamente sostiene che i poteri
tutelari esercitati dall'istituto sui minori ricoverati dovessero
essere soggetti alla valutazione del giudice minorile, così come vi è soggetto
l'esercizio della patria potestà. Nessuno dubita che è necessario e doveroso
l'intervento del giudice quando il genitore «viola o trascura con grave
pregiudizio del figlio» (art. 330-333 cod. civ.) i doveri inerenti alla patria
potestà di cui è investito. In questo caso il
tribunale può e deve intervenire, prendendo i provvedimenti più opportuni a
tutela del minore, e può anche privare il genitore della patria potestà. Se questo è possibile nei rapporti fra il genitore ed il
figlio, deve essere possibile anche nei rapporti fra istituto e minore
ricoverato. Se si ammette che il bambino può aver
bisogno di tutela di fronte al cattivo esercizio dell'autorità parentale, è difficile negare che questo bisogno non si
possa presentare nei confronti dei poteri tutelari esercitati da un istituto
di assistenza. Il bambino che si trova lontano dalla propria famiglia
è per ciò stesso in una situazione di potenziale pericolo, poiché i soggetti
che per legge sono titolari del potere-dovere di proteggerlo (e cioè i
genitori) si trovano di fatto nella impossibilità di svolgere la loro funzione.
È in questa fase che la protezione
giudiziaria del minore acquista un rilievo spesso decisivo: poiché un mancato
intervento può portare (e di fatto porta) a
conseguenze di gravità insospettata. Anni ed anni di istituto
condizionano in modo determinante la personalità del bambino e le sue
possibilità di inserimento nel tessuto sociale: ogni omissione diventa in
questo campo un valido contributo alla creazione di nuovi disadattati. È per
questo che í provvedimenti giudiziari riportati nel libro possono essere
considerati come un valido esempio di quella attività
di tutela dei diritti del minore che costituiscono (o dovrebbero costituire)
il ruolo primario della giurisdizione minorile.
Non è questa la sede per un
approfondimento giuridico del problema. Va detto tuttavia, per dovere di obiettività, che la coraggiosa e innovativa
interpretazione della legge seguita dal tribunale per i minorenni e confermata
dalla Corte di Appello di Bologna trova rari precedenti nella giurisprudenza.
Il libro documenta una serie
impressionante di irregolarità e di disfunzioni.
Una parte dei
minori ricoverati nell'istituto medico-psico-pedagogico
ha capacità intellettive che rientrano nella norma; solo 15 su 249 assistiti
hanno residenza nella regione dove ha sede l'istituto; il personale è scarso e
impreparato; l'équipe svolge solo una funzione di
tamponamento; i minori sono spesso maltrattati. Altri fatti accertati:
- dichiarazione del medico del 26-4-1971: «Lamento molto la mancanza di personale nell'infermeria.
Quando infatti manca, o perché ha già svolto il suo
orario, o perché in giornata di riposo o altro l'infermiere V., non vi è nessuno
che badi ai ragazzi ricoverati in infermeria. Questi allora, si prendono a
pugni, si lanciano cuscini, bicchieri, vasi da notte, quando non fanno cose
anche peggiori. Si prega quindi la direzione sanitaria di prendere gli
opportuni provvedimenti atti a correggere questa
deprecabile mancanza. Si prega inoltre di farci sapere la risposta
quando facciamo una richiesta»;
- «P. dei grandi,
accompagnato dal Sig. P., si è presentato tutto bagnato dicendo che due suoi
compagni e la maestra credendolo in crisi l'hanno messo con la testa
sotto il rubinetto (aperto) dell'acqua. Riferisce pure che è stato schiaffeggiato
dalla maestra la quale ha anche scagliato contro di lui un pezzo di legno. Il
P. non voleva andare a scuola (o voleva scappare). Dice che preferisce morire anziché stare qui. (Non vuole però farlo scrivere per non farlo sapere ad altri)»;
- «Il minore G., nato nel 1962, dopo
essere stato ospite di un brefotrofio e di un collegio, si trova in questo
istituto dal 1968, da dove non è mai uscito per recarsi in famiglia ed ove non
viene mai visitato dalla madre nubile. Per tale minore è sfumata la
possibilità di essere tolto dall'istituto mediante
l'adozione speciale, perché non fu segnalato tempestivamente al giudice»;
- Il complesso degli istituti sorge
in una piccola frazione di un comune agricolo, in Emilia. Esso comprende un
villino riservato alla direzione e agli uffici e
quattro edifici che ospitano i minori. L'aspetto complessivo degli edifici, a
parte quello riservato alla direzione, è di un grande squallore. Sbarre alle
finestre, scale grandi e sporche, cortile disadorno,
fornito di strutture di gioco in ferro, ingressi con vetri rotti, che portano
da mesi segni di colpi come sassate. La porta principale del reparto è chiusa
a chiave e alcune finestre con un lucchetto, come del
resto tutti gli armadietti contenenti materiale ludico;
- Dichiarazione di un vigilatore: «in
quanto all'assistenza medica sembra che ci sia, almeno dottori ce ne sono. Per
la durata del mio servizio non ho avuto l'onore di conoscere né il neurologo né lo psichiatra. Con questo non voglio dire che i dottori non ci siano, perché ho sentito dire che
ce n'è uno per ogni reparto, ma mai sono stato interpellato da loro né ci ho
condotto alcun ragazzo per qualche visita»;
- «Nessuno, dico nessuno, neppure
nei primi giorni, mi ha fatto conoscere i ragazzi, nessuno mi ha spiegato
quali fossero i miei compiti, nessuno mi ha indicato
il modo per risolvere le crisi di agitazione psicomotoria che quotidianamente
e più volte della giornata si manifestano».
*
* *
Il libro è molto utile in quanto,
oltre a fornire una descrizione dettagliata del funzionamento di un istituto,
indica anche i mezzi tecnici utilizzati dal tribunale per i minorenni per
tutelare i minori.
MAUD MANNONI, Il bambino ritardato e la madre, Boringhieri,
Torino, 1971, pag.
Vale la pena di riscoprire, a dieci
anni della sua comparsa in prima edizione parigina, un libro che forse non a
caso è passato inosservato negli ambienti tecnici italiani legati ad una sana
tradizione psichiatrica.
L'idea centrale del libro, tanto più
«pericolosa» in quanto tratta da concrete esperienze cliniche, è che, nel
tradizionale approccio terapeutico al bambino ritardato, se si vuol trattare
il sintomo, si rifiuta il bambino stesso.
Sappiamo che nel migliore dei casi
il bambino handicappato viene inserito in strutture
tecnicamente valide ed altamente specializzate in cui la malattia e la
conseguente cura divengono alibi razionalizzati di una segregazione sempre crescente
nella società produttiva industriale.
Medici, pedagogisti, o genitori -
dice
La svolta teorica e terapeutica
proposta dalla Mannoni mette in crisi prima di tutto i tecnici e le tecniche degli istituti
specialistici, proponendo lo studio del ritardo mentale quale si presenta nel
fantasma materno in quanto capace di scatenare meccanismi di copertura: una
malattia, anche organica, può assumere presso l'altro (genitore o curante)
una funzione precisa che sarà causa di una ulteriore alienazione dell'handicappato:
genitori, rieducatori, medici, invece di cercare di
comprendere il bambino come soggetto desiderante, lo integrano come oggetto di
cure nell'ambito di sistemi diversi di recupero, privandolo di qualsiasi
espressione personale.
Il mordente del libro sta proprio
qui, nella denuncia di una tecnica che si fa paravento di una mentalità
collettiva e strumento di emarginazione consono al
sistema. Lo stesso concetto di «istituto» deve essere messo in causa (e il discorso
sarà ancora più pesante di quello ormai già recepito a
proposito degli istituti per l'infanzia abbandonata): l'azione del curante
rivela infatti la sua natura innanzitutto difensiva col rifugio nel mito
della norma, nel pregiudizio scientifico, nella istituzione emarginante.
La tecnica diviene oggetto astratto dalla persona che la opera ed entra in contatto non con la
persona ma con il sintomo, inteso come nucleo oggettivo e misurabile.
Nella dimenticanza che la persona è
tale in correlazione con l'altra persona, si compie l'arco che va dalla
disattenzione per il rapporto iniziale madre-bimbo alla conseguente azione terapeutica sul bimbo, astratto dal contesto famigliare e
chiuso nel ghetto degli «anormali», che proprio lì, vedi caso, dovrebbero
iniziare il cammino, insperato per altro, verso la normalità.
Nella casistica (non vastissima ma
sintomatica) che si estende dall'affezione organica quale il mongolismo
all'insufficienza mentale semplice o di origine
psicotica, il discorso della Mannoni fa leva
essenzialmente sul rapporto interpersonale e sul conseguente controtransfert che scatta nei confronti del bambino
ritardato da parte di madre e padre prima, e di coloro che lo curano poi.
Occorre capire anzitutto la varietà delle reazioni fantasmatiche
della maternità: quale che sia la madre, la nascita di un figlio non corrisponde
mai del tutto a quello che essa si aspettava. E
saranno proprio i fantasmi materni ad orientare il bambino verso il suo
destino. Ne consegue che, nel caso in cui sia in gioco un fattore organico, il
bambino non deve far fronte soltanto a una difficoltà
congenita, ma anche al modo in cui la madre elabora questa menomazione in un
mondo fantasmatico che finirà per essere comune ad
entrambi. Da parte sua il bimbo con la sua nascita
modifica la madre che, a seconda della propria storia precedente, può
instaurare con lui un rapporto normale o no, e cadere eventualmente in
situazione schizoide o in un legame sado-masochista.
Non è casuale la reticenza di
genitori che vogliono orientare l'indagine sul
ritardo intellettivo ma rifiutano l'approccio più profondo che li investe. Questi
bimbi sviluppano sempre una situazione a due divenendo l'oggetto di uno dei
genitori: di fronte a Q.I. identici che portano ad
adattamenti diversi, si dovrà parlare non di falsa e vera debolezza, ma del
senso che il disagio assume nella costellazione famigliare.
Il bambino ritardato e la madre
finiscono per formare un corpo unico: il desiderio dell'uno si confonde con
quello dell'altro, tanto che i due sembrano vivere la stessa storia.
Il bambino diviene tributario della
salute dei genitori, partecipe, a loro insaputa, delle difficoltà che essi non
riescono a superare: il clima che favorisce lo sviluppo psicotico della
debolezza mentale esiste già prima della nascita.
Allo stesso modo, genitori adottivi
patogeni possono creare nel loro rapporto fantasmatico
con il figlio adottivo, una situazione psicotizzante
nella quale un bimbo può divenire debole mentale anziché effettuare il
recupero sperato.
Interessante la soluzione proposta
dalla Mannoni, di non fermarsi alla
conclusione semplicistica che occorra curare la madre: in effetti bisognerà
tener presente anche questa eventuale necessità; anche se pare che l'accento
venga posto sul tentativo terapeutico di far sì che il bimbo assuma su di sé la
propria storia invece di adattarsi inconsciamente a realizzare, nella sua nevrosi,
il senso fantasmatico che ha assunto per i genitori
al momento della nascita.
Ma particolarmente stimolante ci pare, anche a livello di intervento preventivo
(soprattutto per quanto riguarda l'individuazione delle motivazioni
all'adozione di bimbi handicappati), l'accento posto, una volta tanto, sul peso
determinante del rapporto interpersonale nei confronti di una evoluzione in
senso positivo o negativo di disturbi che si è soliti attribuire a cause
puramente organiche ed endogene: con un conseguente atteggiamento terapeutico
che per tener conto del sintomo isolato dal contesto relazionale finisce per
perdere di vista le condizioni, se non le cause, in cui il sintomo si
concretizza.
SANTA CARLA PAPA
F. CARUGATI, G. CASADIO, M. LENZI, A.
PALMONARI e P. RICCI BITTI, Gli orfani
dell'assistenza - Analisi di un collegio assistenziale
per minori, Il Mulino, Bologna, 1973, pag. 159, lire 2.500.
È interessante notare che il
soggetto di studio, uno studio sistematico e approfondito, di un gruppo di
tecnici operanti nel campo della psicologia sociale e nei centri di igiene sociale, sia il collegio di Pomposa, un modello
razionale ed efficiente di collegio assistenziale. Grazie a Dio qui non ci sono
pagliuche o altri sfruttatori sadici di poveri
infelici, ma al contrario è evidente la volontà di creare un luogo organizzato
e funzionante per accogliere bambini orfani di lavoratori dipendenti con
difficoltà scolastiche.
La critica radicale che emerge da
questo studio, non è infatti presentata dagli autori
particolarmente contro il collegio di Pomposa, ma piuttosto all'istituzione
in sé.
Molti della mia generazione, usciti
da famiglie che impartivano, magari per motivi morali da loro ritenuti validi, una educazione autoritaria, ricorderanno la minaccia di
essere «mandati in collegio» come ultimo castigo al loro cattivo comportamento.
In questo caso poi si tratta di un collegio assistenziale
che è generalmente inteso come luogo di raccolta di ragazzi poveri. Infatti essi sono tutti provenienti da aree prive di
«potere sociale» e con lo studio nel collegio di Pomposa i ragazzi giungono al
massimo a una qualificazione di tipo professionale, quasi si dia per scontato
l'impossibilità di una carriera più elevata.
La vita fisica di questi ragazzi si
svolge in base «a ruoli rigidamente prefissati» nella rigida struttura «dominanza-sottomissione»
implicata nelle istituzioni convittuali. I ragazzi,
divisi per squadre, sorvegliati di continuo soffrono del «valore depressivo
costituito dall'ambiente fisico uguale nelle ore di scuola e di convitto» con
una «saturazione psichica data dalla vicinanza obbligata
con sempre gli stessi coetanei».
Nell'ardore dell'efficienza e forse
anche per ragioni di organizzazione e di conduzione,
i ragazzi non hanno nel collegio momenti di vita personale se non negli episodi
notturni di un'attività sessuale che va dalla masturbazione alla omosessualità
che, come accennano gli autori, ha forse un significato di comunicazione o a
tentate fughe, magari di poche ore, o anche solo immaginarie.
A causa dell'isolamento geografico
del collegio, che sorge lontano dai centri abitati, non si hanno rapporti col
mondo esterno e i ragazzi non hanno modo di stare a
contatto con giovani di diversa estrazione sociale e provenienti da nuclei
familiari completi e neanche con la propria famiglia spesso molto lontana
perché la preoccupazione di coprire tutti i posti disponibili porta a una
specie di deportazione dei soggetti dal loro ambiente.
Anche lo staff degli educatori perde
i contatti esterni e non si inserisce in un altro
contesto veramente stimolante; quindi accetta come normale la segregazione
dei ragazzi. I quali sono arrivati al collegio a volte per fattori accidentali
o per sanare temporaneamente una situazione di emergenza.
La separazione dall'ambiente familiare è difficile da cancellare; nelle poche
occasioni che hanno di ritrovarsi, «minori e famiglie si riconoscono, proprio
nel momento dell'incontro, come sostanzialmente estranei l'uno agli altri». La famiglia ha ripreso a funzionare «una volta
che uno dei suoi membri è assente, a un nuovo livello
di equilibrio che non lo comprende più».
Che cosa ricevono questi ragazzi al di là delle cure primarie e scolastiche? Non un rapporto tra pari, ma sempre un rapporto fra superiore e inferiore,
difficoltà di costruirsi una propria identità. Si può dire che «il collegio costruisce dei soggetti isolati che
comunicano solamente in risposta alle richieste che il comportamento degli altri
avanza, ma che non sanno esprimere se stessi in modo originale».
«Tutto l'intervento assistenziale - dicono gli autori - si concretizza in un
processo reificante che fa pagare al più debole
l'esigenza di funzionamento dell'organizzazione sociale».
Non si tratta quindi di modificare
soltanto «le modalità operative», ma è necessaria la
cooperazione di tutta la comunità che si sensibilizzi alla ricerca delle
«cause più profonde» e alla verifica «dei rapporti esistenti» per produrre alternative
al tipo di politica sociale esistente «che richiede un atteggiamento passivo e
privo di iniziativa sia in chi riceve sia in chi eroga l'assistenza» e che ha
dei risultati emarginanti.
MIRIAM
MONTALENTI
PUBBLICAZIONI DEL CENTRO DI DOCUMENTAZIONE
DI PISTOIA
Segnaliamo le seguenti pubblicazioni
del Centro di documentazione, Casella postale 53, Pistoia:
Notiziario
del centro di documentazione
Strumento di contro informazione:
segnala materiali, documenti, libri su scuola, lotte operaie, emarginazione,
sinistra di classe, comunità cristiane, lotte di quartiere, situazioni
internazionali.
Il materiale viene anche offerto a
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L'ultimo numero riporta il testo di
una conferenza di G. A. Maccacaro:
Classe, salute e università. L. 150.
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di informazione, n. 14
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Scuola
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per una seria alternativa nella scuola: riporta
analisi della sinistra di classe, esperienze di base e documenti
internazionali.
n. 3 marzo 1974 - Temi di discussione: A. Monasta, La descolarizzazione perché? - Da un seminario di pedagogia
ad un collettivo politico. La sinistra di classe e la scuola: Intervento di Lotta Continua.
Esperienze di base:
Convegno nazionale delle scuole popolari - Intervento del Coordinamento
collettivi romani di quartiere. Documenti
di lotta: Comitato corsi abilitanti di Firenze. CdA di medicina di Pisa. Esperienze internazionali: La scuola
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500. Abbonamento annuo L.
È uscita la seconda edizione di:
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EINAUDI, Serie politica 36, 1974,
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