Prospettive assistenziali, n. 27, luglio-settembre 1974

 

 

LIBRI

 

 

ISTITUTO PER GLI STUDI SUI SERVIZI SOCIALI, Problemi e prospettive dell'affidamento familia­re - Atti del convegno di Roma del 16-18 mag­gio 1973, ISTISSS, Roma, 1974, pag. 280, L. 4.000.

 

INFORMATIONS SOCIALES, Le placement fami­lial, numero speciale, Parigi, settembre 1972.

 

Molto opportunamente l'ISTISSS ha organizzato il convegno sui problemi e sulle prospettive dell'affidamento familiare, in quanto era necessario, alla luce delle esperienze in atto, un confronto sui metodi, caratteristiche e procedure, sulle im­postazioni politiche in base alle quali i servizi so­no stati istituiti e funzionano.

Tutti gli interventi hanno confermato la validi­tà dell'affidamento familiare a scopo educativo dei minori per i quali non è possibile la perma­nenza nel nucleo familiare d'origine e non sussi­stono le condizioni di età o di abbandono mate­riale e morale per la dichiarazione di adottabilità. È risultato inoltre che vi sono alcune esperienze di affidamento familiare che non si collocano, nemmeno in prospettiva, nell'ambito dei servizi dell'unità locale: sono in particolare gli affida­menti fatti dagli uffici distrettuali di servizio so­ciale dei tribunali per i minorenni.

Altre esperienze, pur essendo gestite da enti locali, non possono essere trasferite, così come sono attualmente attuate, nelle unità locali.

Tuttavia, sia le une che le altre, rappresentano una rottura con il vecchio tipo di intervento (ri­covero in istituti a carattere di internato).

Vi è però da vedere se esse potranno compie­re l'ulteriore passo e diventare una soluzione al­ternativa o se resteranno semplicemente un esempio di razionalizzazione.

Occorrerà cioè vedere se gli operatori sociali e le famiglie affidatarie lotteranno perché l'affi­damento diventi uno dei servizi dell'unità locale,

una soluzione di emergenza e un incentivo alla rimozione delle cause economiche e sociali che determinano o contribuiscono a creare le cosid­dette famiglie incapaci.

Mentre le relazioni degli esperti contengono utili elementi per quanti sono interessati a por­tare avanti l'affidamento familiare, deludenti so­no stati gli interventi dei politici che hanno par­tecipato al convegno di Roma. Deludenti perché essi non hanno saputo né cogliere gli aspetti in­novatori delle esperienze in materia di affidamen­to familiare, né comprendere che le vigenti nor­me legislative concernenti l'assistenza e quelle comprese nel diritto civile sono un reale ostaco­lo allo sviluppo dell'affidamento familiare.

Basti ricordare al riguardo che l'art. 32 del R. D. 29 dicembre 1927 n. 2822 vieta l'affidamento de­gli illegittimi nei casi in cui siano disponibili po­sti negli istituti e che gli art. 404 e segg. del co­dice civile dispongono che dopo tre anni di affi­damento può essere richiesta, sentito solo il pa­rere dei genitori di origine, l'affiliazione.

Non tenendo in alcun conto il carattere puni­tivo della legislazione vigente nei confronti delle famiglie d'origine, la Sen. Franca Falcucci e l'On. Maria Eletta Martini della D. C., l'On. Maria Ma­gnani Noya del PSI e l'On. Luciana Viviani dell'U.D.I. si sono dichiarate contrarie all'approva­zione della proposta di legge n. 750 sull'affida­mento familiare (V. Prospettive assistenziali n. 21).

L'On. Foschi, presentatore della suddetta pro­posta di legge, si è trovato così isolato e anzi contrastato da parlamentari del suo stesso par­tito. Ne deriva che senza un forte movimento, come ad esempio quello creato sull'adozione spe­ciale, la proposta di legge n. 750 non verrà nem­meno discussa.

 

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La lettura del numero di Informations sociales è molto importante poiché fornisce la prova del­le conseguenze negative che assume l'affidamen­to familiare quando è utilizzato come semplice strumento di razionalizzazione.

In Francia gli affidamenti sono 250.000-300.000 su un totale di 700.000 minori assistiti. I tecnici che lavorano nei servizi di affidamento sono al­cune migliaia. Sono stati compiuti studi sulle fa­miglie d'origine e Jean Blettner, citando le ri­cerche compiute, afferma che «ciò che caratte­rizza essenzialmente le famiglie d'origine dei mi­nori sottoposti a un affidamento familiare è l'in­capacità in cui esse si trovano di resistere alla segregazione e alla pressione sociale dell'am­biente. Spingendo all'estremo la fragilità di que­sti nuclei familiari, quando la catastrofe si evi­denzia, allora si procede al “rapimento” del bambino». Ma ai tecnici francesi non interessa risalire alle cause e in nessun articolo vi è trac­cia di un lavoro in questa direzione, mentre ab­bondano le suddivisioni in categorie, le classifi­cazioni dei vari tipi di servizi e le descrizioni dei diversi ruoli degli operatori.

L'affidamento familiare diventa pertanto uno dei campi in cui i tecnici trovano spazio, posti di­rettivi, quattrini, carriera e potere e in cui i bam­bini, le famiglie d'origine e quelle affidatarie so­no semplicemente degli oggetti.

 

 

A. BALLONI e L. FADIGA, La fabbrica dei disadat­tati - Infanzia abbandonata e gioventù deviante, Sapere edizioni, Milano - Roma, 1974, pag. 144, L. 1500.

 

Il decennio che sta per concludersi, iniziato nel 1963 con lo scandalo dell'istituto dei «Celesti­ni» di Prato, potrebbe essere definito dal futuro storico dell'assistenza come il periodo della sco­perta e della denuncia. Mai come in questi anni l'opinione pubblica è stata scossa così di fre­quente da notizie di maltrattamenti, crudeltà, ve­re e proprie sevizie patite da bambini ricoverati negli istituti assistenziali. Gli scandali non han­no colpito solo istituti privati, ma anche enti pub­blici che operano a livello nazionale: né l'infa­mia ha evitato lo Stato, poiché le denunce sulla situazione dei cosiddetti istituti rieducativi han­no messo in luce fatti di gravità estrema.

E se si evita l'errore di fermarsi solo sui ca­si, pur numerosi, di maltrattamenti fisici, si deve constatare che la violenza viene esercitata sul bambino in forme ben più diffuse ed insidiose, destinate a lasciare la loro traccia su tutta la sua vita futura: allontanamento dalla famiglia, sradi­camento dall'ambiente, trasferimenti da un isti­tuto all'altro, mancanza di validi contenuti peda­gogici, deprivazione affettiva, carenze alimentari ed ambientali, isolamento dalla società. L'elenco potrebbe continuare, ma è già sufficiente per far comprendere la gravità del fenomeno e la sua natura endemica.

Ai vari «scandali» già noti, si aggiunge quello dell'istituto medico-psico-pedagogico «V.G.», il cui funzionamento viene analizzato attentamente nel libro.

Il tribunale per i minorenni di Bologna, avuta notizia di disfunzioni dell'istituto «V.G.» (fra l'altro erano stati indiziati del reato di maltrat­tanti alcuni capi reparto e vigilatori), con un co­raggioso decreto, istituisce una commissione di indagine e ordina «l'immediato allontanamento dall'I.M.P.P. di “V.G.” dei minori che in qualsia­si modo abbiano espresso lagnanze per abusi di mezzi di correzione, lesioni e cattivo tratta­mento».

Nel decreto del 25-1-1971 il tribunale per i mi­norenni di Bologna giustamente sostiene che i poteri tutelari esercitati dall'istituto sui minori ricoverati dovessero essere soggetti alla valuta­zione del giudice minorile, così come vi è sog­getto l'esercizio della patria potestà. Nessuno du­bita che è necessario e doveroso l'intervento del giudice quando il genitore «viola o trascura con grave pregiudizio del figlio» (art. 330-333 cod. civ.) i doveri inerenti alla patria potestà di cui è investito. In questo caso il tribunale può e deve intervenire, prendendo i provvedimenti più oppor­tuni a tutela del minore, e può anche privare il genitore della patria potestà. Se questo è possi­bile nei rapporti fra il genitore ed il figlio, deve essere possibile anche nei rapporti fra istituto e minore ricoverato. Se si ammette che il bambi­no può aver bisogno di tutela di fronte al catti­vo esercizio dell'autorità parentale, è difficile ne­gare che questo bisogno non si possa presenta­re nei confronti dei poteri tutelari esercitati da un istituto di assistenza. Il bambino che si trova lontano dalla propria famiglia è per ciò stesso in una situazione di potenziale pericolo, poiché i soggetti che per legge sono titolari del potere-do­vere di proteggerlo (e cioè i genitori) si trovano di fatto nella impossibilità di svolgere la loro funzione.

È in questa fase che la protezione giudiziaria del minore acquista un rilievo spesso decisivo: poiché un mancato intervento può portare (e di fatto porta) a conseguenze di gravità insospet­tata. Anni ed anni di istituto condizionano in mo­do determinante la personalità del bambino e le sue possibilità di inserimento nel tessuto socia­le: ogni omissione diventa in questo campo un valido contributo alla creazione di nuovi disadat­tati. È per questo che í provvedimenti giudiziari riportati nel libro possono essere considerati co­me un valido esempio di quella attività di tutela dei diritti del minore che costituiscono (o do­vrebbero costituire) il ruolo primario della giu­risdizione minorile.

Non è questa la sede per un approfondimen­to giuridico del problema. Va detto tuttavia, per dovere di obiettività, che la coraggiosa e innova­tiva interpretazione della legge seguita dal tri­bunale per i minorenni e confermata dalla Corte di Appello di Bologna trova rari precedenti nella giurisprudenza.

Il libro documenta una serie impressionante di irregolarità e di disfunzioni.

Una parte dei minori ricoverati nell'istituto me­dico-psico-pedagogico ha capacità intellettive che rientrano nella norma; solo 15 su 249 assistiti hanno residenza nella regione dove ha sede l'i­stituto; il personale è scarso e impreparato; l'é­quipe svolge solo una funzione di tamponamento; i minori sono spesso maltrattati. Altri fatti ac­certati:

- dichiarazione del medico del 26-4-1971: «Lamento molto la mancanza di personale nell'infermeria. Quando infatti manca, o perché ha già svolto il suo orario, o perché in giornata di riposo o altro l'infermiere V., non vi è nessuno che badi ai ragazzi ricoverati in infermeria. Que­sti allora, si prendono a pugni, si lanciano cusci­ni, bicchieri, vasi da notte, quando non fanno co­se anche peggiori. Si prega quindi la direzione sanitaria di prendere gli opportuni provvedimen­ti atti a correggere questa deprecabile mancan­za. Si prega inoltre di farci sapere la risposta quando facciamo una richiesta»;

- «P. dei grandi, accompagnato dal Sig. P., si è presentato tutto bagnato dicendo che due suoi compagni e la maestra credendolo in crisi l'hanno messo con la testa sotto il rubinetto (aperto) dell'acqua. Riferisce pure che è stato schiaffeg­giato dalla maestra la quale ha anche scagliato contro di lui un pezzo di legno. Il P. non voleva andare a scuola (o voleva scappare). Dice che preferisce morire anziché stare qui. (Non vuole però farlo scrivere per non farlo sapere ad al­tri)»;

- «Il minore G., nato nel 1962, dopo essere stato ospite di un brefotrofio e di un collegio, si trova in questo istituto dal 1968, da dove non è mai uscito per recarsi in famiglia ed ove non vie­ne mai visitato dalla madre nubile. Per tale mino­re è sfumata la possibilità di essere tolto dall'i­stituto mediante l'adozione speciale, perché non fu segnalato tempestivamente al giudice»;

- Il complesso degli istituti sorge in una pic­cola frazione di un comune agricolo, in Emilia. Esso comprende un villino riservato alla direzio­ne e agli uffici e quattro edifici che ospitano i mi­nori. L'aspetto complessivo degli edifici, a parte quello riservato alla direzione, è di un grande squallore. Sbarre alle finestre, scale grandi e sporche, cortile disadorno, fornito di strutture di gioco in ferro, ingressi con vetri rotti, che porta­no da mesi segni di colpi come sassate. La por­ta principale del reparto è chiusa a chiave e al­cune finestre con un lucchetto, come del resto tutti gli armadietti contenenti materiale ludico;

- Dichiarazione di un vigilatore: «in quanto all'assistenza medica sembra che ci sia, almeno dottori ce ne sono. Per la durata del mio servizio non ho avuto l'onore di conoscere né il neurolo­go né lo psichiatra. Con questo non voglio dire che i dottori non ci siano, perché ho sentito dire che ce n'è uno per ogni reparto, ma mai sono sta­to interpellato da loro né ci ho condotto alcun ragazzo per qualche visita»;

- «Nessuno, dico nessuno, neppure nei pri­mi giorni, mi ha fatto conoscere i ragazzi, nessu­no mi ha spiegato quali fossero i miei compiti, nessuno mi ha indicato il modo per risolvere le crisi di agitazione psicomotoria che quotidiana­mente e più volte della giornata si manifestano».

 

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Il libro è molto utile in quanto, oltre a fornire una descrizione dettagliata del funzionamento di un istituto, indica anche i mezzi tecnici utilizzati dal tribunale per i minorenni per tutelare i minori.

 

 

MAUD MANNONI, Il bambino ritardato e la ma­dre, Boringhieri, Torino, 1971, pag. 207, L. 4000.

 

Vale la pena di riscoprire, a dieci anni della sua comparsa in prima edizione parigina, un libro che forse non a caso è passato inosservato negli am­bienti tecnici italiani legati ad una sana tradizio­ne psichiatrica.

L'idea centrale del libro, tanto più «pericolo­sa» in quanto tratta da concrete esperienze cli­niche, è che, nel tradizionale approccio terapeuti­co al bambino ritardato, se si vuol trattare il sin­tomo, si rifiuta il bambino stesso.

Sappiamo che nel migliore dei casi il bambi­no handicappato viene inserito in strutture tecni­camente valide ed altamente specializzate in cui la malattia e la conseguente cura divengono ali­bi razionalizzati di una segregazione sempre cre­scente nella società produttiva industriale.

Medici, pedagogisti, o genitori - dice la Audry nell'introduzione - riteniamo tutti di essere con­vinti che i bambini sono esseri umani; tuttavia non smettiamo di trattarli come cose: diagnosi, misurazioni del Q.I., scelta di metodi rieducativi rischiano spesso di confinare il bimbo debole mentale nella sua infermità. Senonché scatta l'as­surdo: un bimbo con Q.I. basso finisce per cavar­sela meglio di un altro che raggiunge valori medi. La ricomposizione negli schemi razionali è faci­le: si parlerà di deboli mentali veri e falsi.

La svolta teorica e terapeutica proposta dalla Mannoni mette in crisi prima di tutto i tecnici e le tecniche degli istituti specialistici, proponen­do lo studio del ritardo mentale quale si presen­ta nel fantasma materno in quanto capace di sca­tenare meccanismi di copertura: una malattia, an­che organica, può assumere presso l'altro (geni­tore o curante) una funzione precisa che sarà causa di una ulteriore alienazione dell'handicap­pato: genitori, rieducatori, medici, invece di cer­care di comprendere il bambino come soggetto desiderante, lo integrano come oggetto di cure nell'ambito di sistemi diversi di recupero, privan­dolo di qualsiasi espressione personale.

Il mordente del libro sta proprio qui, nella de­nuncia di una tecnica che si fa paravento di una mentalità collettiva e strumento di emarginazio­ne consono al sistema. Lo stesso concetto di «istituto» deve essere messo in causa (e il di­scorso sarà ancora più pesante di quello ormai già recepito a proposito degli istituti per l'infan­zia abbandonata): l'azione del curante rivela in­fatti la sua natura innanzitutto difensiva col rifu­gio nel mito della norma, nel pregiudizio scienti­fico, nella istituzione emarginante.

La tecnica diviene oggetto astratto dalla perso­na che la opera ed entra in contatto non con la persona ma con il sintomo, inteso come nucleo oggettivo e misurabile.

Nella dimenticanza che la persona è tale in correlazione con l'altra persona, si compie l'ar­co che va dalla disattenzione per il rapporto ini­ziale madre-bimbo alla conseguente azione tera­peutica sul bimbo, astratto dal contesto famiglia­re e chiuso nel ghetto degli «anormali», che proprio lì, vedi caso, dovrebbero iniziare il cam­mino, insperato per altro, verso la normalità.

Nella casistica (non vastissima ma sintomati­ca) che si estende dall'affezione organica quale il mongolismo all'insufficienza mentale semplice o di origine psicotica, il discorso della Mannoni fa leva essenzialmente sul rapporto interpersona­le e sul conseguente controtransfert che scatta nei confronti del bambino ritardato da parte di madre e padre prima, e di coloro che lo curano poi.

Occorre capire anzitutto la varietà delle rea­zioni fantasmatiche della maternità: quale che sia la madre, la nascita di un figlio non corrispon­de mai del tutto a quello che essa si aspettava. E saranno proprio i fantasmi materni ad orientare il bambino verso il suo destino. Ne consegue che, nel caso in cui sia in gioco un fattore organico, il bambino non deve far fronte soltanto a una diffi­coltà congenita, ma anche al modo in cui la ma­dre elabora questa menomazione in un mondo fantasmatico che finirà per essere comune ad entrambi. Da parte sua il bimbo con la sua nasci­ta modifica la madre che, a seconda della propria storia precedente, può instaurare con lui un rap­porto normale o no, e cadere eventualmente in situazione schizoide o in un legame sado-maso­chista.

Non è casuale la reticenza di genitori che vo­gliono orientare l'indagine sul ritardo intellettivo ma rifiutano l'approccio più profondo che li inve­ste. Questi bimbi sviluppano sempre una situa­zione a due divenendo l'oggetto di uno dei geni­tori: di fronte a Q.I. identici che portano ad adat­tamenti diversi, si dovrà parlare non di falsa e vera debolezza, ma del senso che il disagio assu­me nella costellazione famigliare.

Il bambino ritardato e la madre finiscono per formare un corpo unico: il desiderio dell'uno si confonde con quello dell'altro, tanto che i due sembrano vivere la stessa storia.

Il bambino diviene tributario della salute dei genitori, partecipe, a loro insaputa, delle difficol­tà che essi non riescono a superare: il clima che favorisce lo sviluppo psicotico della debolezza mentale esiste già prima della nascita.

Allo stesso modo, genitori adottivi patogeni possono creare nel loro rapporto fantasmatico con il figlio adottivo, una situazione psicotizzante nella quale un bimbo può divenire debole menta­le anziché effettuare il recupero sperato.

Interessante la soluzione proposta dalla Man­noni, di non fermarsi alla conclusione semplici­stica che occorra curare la madre: in effetti biso­gnerà tener presente anche questa eventuale ne­cessità; anche se pare che l'accento venga posto sul tentativo terapeutico di far sì che il bimbo assuma su di sé la propria storia invece di adat­tarsi inconsciamente a realizzare, nella sua ne­vrosi, il senso fantasmatico che ha assunto per i genitori al momento della nascita.

Ma particolarmente stimolante ci pare, anche a livello di intervento preventivo (soprattutto per quanto riguarda l'individuazione delle motivazio­ni all'adozione di bimbi handicappati), l'accento posto, una volta tanto, sul peso determinante del rapporto interpersonale nei confronti di una evo­luzione in senso positivo o negativo di disturbi che si è soliti attribuire a cause puramente orga­niche ed endogene: con un conseguente atteggia­mento terapeutico che per tener conto del sinto­mo isolato dal contesto relazionale finisce per perdere di vista le condizioni, se non le cause, in cui il sintomo si concretizza.

SANTA CARLA PAPA

 

 

F. CARUGATI, G. CASADIO, M. LENZI, A. PALMO­NARI e P. RICCI BITTI, Gli orfani dell'assisten­za - Analisi di un collegio assistenziale per mi­nori, Il Mulino, Bologna, 1973, pag. 159, lire 2.500.

 

È interessante notare che il soggetto di stu­dio, uno studio sistematico e approfondito, di un gruppo di tecnici operanti nel campo della psi­cologia sociale e nei centri di igiene sociale, sia il collegio di Pomposa, un modello razionale ed efficiente di collegio assistenziale. Grazie a Dio qui non ci sono pagliuche o altri sfruttatori sadi­ci di poveri infelici, ma al contrario è evidente la volontà di creare un luogo organizzato e funzio­nante per accogliere bambini orfani di lavoratori dipendenti con difficoltà scolastiche.

La critica radicale che emerge da questo stu­dio, non è infatti presentata dagli autori partico­larmente contro il collegio di Pomposa, ma piut­tosto all'istituzione in sé.

Molti della mia generazione, usciti da famiglie che impartivano, magari per motivi morali da loro ritenuti validi, una educazione autoritaria, ricor­deranno la minaccia di essere «mandati in col­legio» come ultimo castigo al loro cattivo com­portamento. In questo caso poi si tratta di un col­legio assistenziale che è generalmente inteso co­me luogo di raccolta di ragazzi poveri. Infatti es­si sono tutti provenienti da aree prive di «potere sociale» e con lo studio nel collegio di Pompo­sa i ragazzi giungono al massimo a una qualifica­zione di tipo professionale, quasi si dia per scon­tato l'impossibilità di una carriera più elevata.

La vita fisica di questi ragazzi si svolge in ba­se «a ruoli rigidamente prefissati» nella rigida struttura «dominanza-sottomissione» implicata nelle istituzioni convittuali. I ragazzi, divisi per squadre, sorvegliati di continuo soffrono del «va­lore depressivo costituito dall'ambiente fisico uguale nelle ore di scuola e di convitto» con una «saturazione psichica data dalla vicinanza obbli­gata con sempre gli stessi coetanei».

Nell'ardore dell'efficienza e forse anche per ra­gioni di organizzazione e di conduzione, i ragazzi non hanno nel collegio momenti di vita personale se non negli episodi notturni di un'attività ses­suale che va dalla masturbazione alla omoses­sualità che, come accennano gli autori, ha forse un significato di comunicazione o a tentate fu­ghe, magari di poche ore, o anche solo immagi­narie.

A causa dell'isolamento geografico del colle­gio, che sorge lontano dai centri abitati, non si hanno rapporti col mondo esterno e i ragazzi non hanno modo di stare a contatto con giovani di di­versa estrazione sociale e provenienti da nuclei familiari completi e neanche con la propria fa­miglia spesso molto lontana perché la preoccu­pazione di coprire tutti i posti disponibili porta a una specie di deportazione dei soggetti dal loro ambiente.

Anche lo staff degli educatori perde i contatti esterni e non si inserisce in un altro contesto ve­ramente stimolante; quindi accetta come norma­le la segregazione dei ragazzi. I quali sono arri­vati al collegio a volte per fattori accidentali o per sanare temporaneamente una situazione di emergenza. La separazione dall'ambiente fami­liare è difficile da cancellare; nelle poche occa­sioni che hanno di ritrovarsi, «minori e famiglie si riconoscono, proprio nel momento dell'incon­tro, come sostanzialmente estranei l'uno agli al­tri». La famiglia ha ripreso a funzionare «una vol­ta che uno dei suoi membri è assente, a un nuovo livello di equilibrio che non lo comprende più».

Che cosa ricevono questi ragazzi al di là delle cure primarie e scolastiche? Non un rapporto tra pari, ma sempre un rapporto fra superiore e in­feriore, difficoltà di costruirsi una propria identi­tà. Si può dire che «il collegio costruisce dei sog­getti isolati che comunicano solamente in rispo­sta alle richieste che il comportamento degli al­tri avanza, ma che non sanno esprimere se stessi in modo originale».

«Tutto l'intervento assistenziale - dicono gli autori - si concretizza in un processo reificante che fa pagare al più debole l'esigenza di funzio­namento dell'organizzazione sociale».

Non si tratta quindi di modificare soltanto «le modalità operative», ma è necessaria la coope­razione di tutta la comunità che si sensibilizzi al­la ricerca delle «cause più profonde» e alla ve­rifica «dei rapporti esistenti» per produrre al­ternative al tipo di politica sociale esistente «che richiede un atteggiamento passivo e privo di iniziativa sia in chi riceve sia in chi eroga l'assi­stenza» e che ha dei risultati emarginanti.

MIRIAM MONTALENTI

 

 

PUBBLICAZIONI DEL CENTRO DI DOCUMENTA­ZIONE DI PISTOIA

 

Segnaliamo le seguenti pubblicazioni del Cen­tro di documentazione, Casella postale 53, Pi­stoia:

 

Notiziario del centro di documentazione

Strumento di contro informazione: segnala ma­teriali, documenti, libri su scuola, lotte operaie, emarginazione, sinistra di classe, comunità cri­stiane, lotte di quartiere, situazioni internazionali.

Il materiale viene anche offerto a prezzi scon­tati.

L'ultimo numero riporta il testo di una confe­renza di G. A. Maccacaro: Classe, salute e uni­versità. L. 150.

Abbonamento annuo L. 1.000.

 

Fogli di informazione, n. 14

Numero dedicato completamente alla lungode­genza; riporta interventi di Pirella, Bondioli, Bar­nà, Bonfiglio, Goldschmidt, Guelfi, Tranchina, Ser­ra, D'Arco, Affatati, Benigni. L. 800.

Abbonamento annuo L. 3.000.

 

Scuola documenti

Contributo per le forze che lottano per una se­ria alternativa nella scuola: riporta analisi della sinistra di classe, esperienze di base e documen­ti internazionali.

n. 3 marzo 1974 - Temi di discussione: A. Mo­nasta, La descolarizzazione perché? - Da un se­minario di pedagogia ad un collettivo politico. La sinistra di classe e la scuola: Intervento di Lotta Continua. Esperienze di base: Convegno naziona­le delle scuole popolari - Intervento del Coordi­namento collettivi romani di quartiere. Documen­ti di lotta: Comitato corsi abilitanti di Firenze. CdA di medicina di Pisa. Esperienze internaziona­li: La scuola in Albania.

Un numero L. 500. Abbonamento annuo L. 1.500 a quattro numeri.

 

È uscita la seconda edizione di:

BIANCA GUIDETTI SERRA e FRANCESCO SANTANERA

IL PAESE DEI CELESTINI

ISTITUTI DI ASSISTENZA SOTTO PROCESSO

EINAUDI, Serie politica 36, 1974, pag. 279, L. 2.000

 

In tutte le librerie

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it