Prospettive assistenziali, n. 28, ottobre-dicembre 1974

 

 

LIBRI

 

 

GIORGIO BERT, Il medico immaginario e il ma­lato per forza, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 158, L. 2.200.

 

Con questo bellissimo titolo che vede capo­volti i due personaggi della celebre satira sulla medicina di Molière, Giorgio Bert, arguto stu­dioso e medico, presenta il suo lavoro nella collana «Medicina e Potere». In questo richia­mo al XVII secolo c'è già un chiaro intento po­lemico nei confronti del mondo della guarigione che già allora vide divisi pensiero e pratica medica.

Non solo indipendenza dell'ospitalizzazione e dell'internato nei riguardi della medicina ma incomunicabilità tra teoria e terapeutica nella medicina stessa. Una suddivisione sociale che separa la teoria dalla pratica: perché se da una parte l'internamento sottrae il malato alla cura dei medici, dall'altra parte il malato libero è affidato alle cure di empirici, fedeli alle loro ricette, alle loro cifre e ai loro simboli. Nello stesso modo, oggi «la didattica applicativa - af­ferma l'Autore, - viene in genere lasciata ai giovani, assistenti e no, come elemento secon­dario e non necessario. Il docente ex cathedra prende per buono quello che dovrebbe essere un mero artificio didattico e cioè che esista un'entità malattia con una sua tipica storia; il compito di far quadrare questa entità con il ma­lato reale è lasciato ai cosiddetti collaboratori, nelle corsie degli ospedali, quando esse esista­no e siano frequentabili».

Paradossalmente, se il malato del XVII secolo è immaginario, perché viene preso in conside­razione solo per essere messo tra parentesi da un concetto medico che, distante dal suo og­getto, scivola sulla virtualità in un piano di totale astrazione, il malato oggi lo è anche per forza, perché una arbitraria demarcazione viene tracciata tra l'osservatore, per definizione sano, ed il paziente, per definizione malato, così da costringere quest'ultimo ad un comportamento forzatamente patologico. «Si finge cioè di cre­dere che il malato, trapiantato per breve tempo in ambulatorio o per un tempo più lungo in corsia, sia l'individuo reale completo, come esi­ste nella realtà quotidiana. Esso viene esami­nato e studiato alla luce delle informazioni tec­niche acquisite, ignorando i sintomi artificiali legati all'influenza dell'osservatore e dell'am­biente». Il malato viene trasformato in uno to­talmente diverso da sé e «il suo comportamento tende quindi a divenire deviante ed i sintomi di tale deviazione gli vengono attribuiti in quanto malato, non in quanto estraniato».

È determinante quindi, per questo malato, l'in­fluenza dell'osservatore, il quale proprio perché posto in confronto con soggetti umani, non po­trà essere imparziale. Stigmatizzando l'operato di una categoria che da sempre risulta cinghia di trasmissione del potere, l'Autore indica l'esi­guo margine di incidenza alternativa, nel tipo di informazioni da fornire nella formazione dei me­dici e nel modo in cui fornirle. Si apre qui il discorso sulla didattica della medicina e la so­cietà. Ed è a questo punto che, con una prosa agile e maliziosa, la problematica della neutra­lità della scienza viene inserita con un excursus storico. Due giovani ed intelligenti scienziati hanno raccolto entrambi nozioni esatte, ma la metodologia è diversa. Siamo intorno al 1846 quando il dottor Semmelweiss, un giovane un­gherese, accetta un posto di assistente nella cli­nica ostetrica di Vienna, diretta dal prof. Klein, che ha ottenuto quel posto grazie a favoritismi di corte. Sarà il giovane medico a tentare una metodologia di ricerca assolutamente corretta per studiare le cause di una spaventosa morta­lità, per febbre puerperale, che ha decimato le pazienti della clinica: donne povere e ragazze madri che sono lasciate morire nel segno del­l'ineluttabilità. Scoperto che le febbri non sono né cosmiche né telluriche, ma portate dalle mani degli stessi medici per sepsi di materiale cadaverico, il giovane sarà denunciato come fa­natico, spacciato per pazzo, internato in mani­comio, schiacciato dall'odio per aver osato sov­vertire l'ordine costituito, perché non si è fer­mato a tempo pur avendo ragione (lo conferme­ranno altri scienziati molti anni dopo). «Fer­marsi a tempo - conclude l'Autore - è una scelta metodologica precisa, tutt'altro che neu­tra».

Osserviamo infatti l'altro medico, Cesare Lombroso, nella sua opera principale Il saggio sull'uomo delinquente (1875), applicare osser­vazioni scientifiche scegliendo ipotesi di lavoro a campione, così da condurre il suo metodo in modo da giustificare l'autorità costituita. Chiara l'ipotesi di lavoro per cui i delinquenti tendono a recidivare: essi sono differenti dagli altri, di mente debole, quasi alienata e mai o quasi mai suscettibili di miglioria. Il campione verrà preso tra i detenuti delle carceri e lo scienziato inter­verrà «con l'esame diretto somatico e psichico dell'uomo criminale confrontato con le risultanze offerte dall'uomo sano e dall'alienato», si defi­nirà così delinquenti tutti coloro che la legge definisce tali.

«Le concezioni di Lombroso - ammonisce l'Autore - non sono ancora superate» e se egli è ancora tra noi più del povero Semmelweiss è perché le cause del disadattamento innate o ineluttabili non tendono a modificare quelle teo­rie che la classe dominante ha fatte proprie, mentre Semmelweiss, riconducendo il fenomeno in esame a cause modificabili, ha rifiutato le regole del gioco.

Dunque il primo compito del medico è poli­tico ed egli non potrà collocare il suo lavoro a valle limitandosi solo a riparare i guasti e fin­gendo di ignorarne i presupposti. Come conse­guenza, nel capitolo «La fabbrica dei malati», l'Autore va al di là del discorso sulla scienza e sulla didattica per toccare con mano il mec­canismo che porta il malato a diventare oggetto di esperimento costante. In questo tipo di per­cezione medica, l'osservato è per così dire privo di spessore ed il fenomeno morboso fruisce di uno spazio autonomo rispetto al corpo del pa­ziente. «Scatta a questo punto il meccanismo che tende a fare di un soggetto con dei proble­mi sanitari, un paziente, un caso clinico, sulla cui esistenza d'ora in avanti l'ospedale vivrà e prospererà: la sua sarà una condizione speri­mentale permanente».

Attraverso una accurata e minuziosa descri­zione della giornata del malato, il regredire in­fantile del paziente adulto, senza nessuna ga­ranzia e rispetto per la sua vita privata, per cui in ospedale sono padroni tutti, medici, suore, infermiere, studenti, segretari, idraulici, tutti meno il malato stesso, viene dimostrato come il ricovero ospedaliero diventi un esperimento di emarginazione acuta.

Un libro analitico e articolato che consigliamo ai quadri del lavoro medico, per verificare la possibilità di un nuovo discorso metodologico.

GIULIANA LATTES

 

 

G. ANDREIS, F. SANTANERA e A. TONIZZO, L'af­fidamento familiare, AAI, Serie Sussidi tecni­ci n. 22, Roma, 1974, pag. 247, Edizione fuori commercio.

 

Precisare in una definizione cos'è l'affidamen­to familiare - dicono gli Autori - non è com­pito facile, poiché molteplici ne sono oggi le forme, i tipi e soprattutto le finalità politico-so­ciali. «Su un piano generale, si può dire che l'affi­damento intende essere una risposta ai problemi del bambino il cui nucleo familiare eccezional­mente o temporaneamente o definitivamente non è in grado di provvedere al suo allevamento, educazione, istruzione e d'altra parte la situa­zione non è risolvibile con un aiuto economico e/o sociale alla famiglia d'origine o con l'ado­zione, a seconda dei casi».

L'intenzione degli Autori di questo volume va oltre alla preparazione di un manuale utile agli operatori sociali, agli amministratori di enti ope­ranti nel campo dell'assistenza ai minori, ed alle famiglie interessate a far opera di divulgazione. C'è la preoccupazione di individuare quegli aspetti del problema «che non sono trattati in altri manuali, o perché volutamente sottaciuti o perché ritenuti dagli altri Autori non rilevanti o semplicemente da essi non conosciuti».

Quali siano le cause che producono il fenomeno sociale del bambino bisognoso di una casa e di una nuova famiglia e quali possano essere i mezzi per ovviare nella maniera meno trauma­tizzante e più efficace a soddisfare le necessità e l'inserimento normale del bambino nella so­cietà, sono presi in esame ed analizzati con l'aiuto di una folta casistica. Inoltre vengono presentati leggi e regolamenti già vigenti o in fase di preparazione. Molto utili gli allegati con le disposizioni vigenti in materia e la descri­zione di iniziative attuate in questo campo in Italia e all'estero.

Se oggi è riconosciuto anche sul piano scien­tifico che «l'ambiente capace di rispondere all'intera gamma dei bisogni fondamentali del bam­bino è la famiglia», è logico supporre che la cosa migliore, per ovviare alle necessità di un'in­fanzia bisognosa dell'appoggio della società, sia cercare di riprodurre questo ambiente il più fe­delmente possibile. L'affidamento familiare allar­ga quindi il campo delle adozioni con forme di affidamento sovvenzionato a famiglie e comu­nità alloggio che offrano serie garanzie, tenendo però presente che il primo intervento da attuare è nei confronti della famiglia d'origine. Ma all'azione terapeutica importantissima dell'affida­mento familiare o della comunità alloggio va aggiunta un'azione politica. Infatti, sotto la co­pertura di una «forma moderna ed aperta», l'af­fidamento familiare può rappresentare un mezzo «comodo e poco costoso per spostare dall'ente ai privati gli oneri di intervento». In questo caso la funzione svolta dall'ente attraverso i suoi tecnici si configura ancora e soltanto come un «semplice controllo del disadattamento». È ne­cessario perciò che i tecnici e gli affidatari ven­gano a porsi in una funzione integrativa e dia­lettica con l'ente, così da rendere terapeutici i propri interventi nei confronti dei minori affi­dati, ma nello stesso tempo essendo essi stessi espressione della comunità finiscano col ren­derla terapeutica nei confronti dell'antisocialità.

Modello quindi partecipato e ruolo delle fami­glie affidatarie autonomo sia rispetto all'ente che nei riguardi dei tecnici; servizi di affida­mento e comunità alloggio nell'ambito dei ser­vizi di diretta gestione dei comuni in linea con gli orientamenti di ristrutturazione dei servizi assistenziali. E, come conseguenza, la neces­sità che affidatari, educatori e tecnici assumano anche un ruolo politico in funzione dialettica con le istituzioni per evitare quell'emarginazione dei bambini che potrebbe portare al fallimento dell'affidamento e alla riduzione delle comunità alloggio a piccoli istituti.

MIRIAM MONTALENTI

 

 

AA.VV., Minori in tutto - Un'indagine sul carcere minorile in Italia - Atti del convegno giovanile della Pro Civitate Christiana, Assisi 27-31 di­cembre 1973, Emme Edizioni, Milano, 1974, L. 3.000.

 

Il convegno giovanile 27-31 dicembre 1973, della Pro Civitate Christiana di Assisi, occasio­nato dalla battaglia che si è svolta a Perugia contro la costruzione del carcere (sezione di custodia) dei minori, si è occupato dei ragazzi rinchiusi in carcere, e in genere negli istituti c.d. «di rieducazione e di pena»; e più ampia­mente e di riflesso si è occupato della reclu­sione - dei minori e degli adulti - in carcere e in ogni altro tipo di «istituzione totale» (quin­di anche in manicomio). In sede di impostazione era stato deciso di dare al convegno una linea positiva e di proposte: data la situazione - mi­gliaia di reclusi, istituti adatti a tutto fuorché a rieducare, ecc. - cosa proporre per liberare i prigionieri, per accoglierli nella società, per una vera rieducazione?

Avevamo avuto notizia di esperienze pilota negli istituti, di istituti pilota (gruppi famiglia, condizioni più umane, relativa libertà), di ragazzi tolti dagli istituti e assistiti in comunità-alloggio, affidati a famiglie, ecc. Avevamo saputo del ten­tativo di organizzare un contesto sociale nel quartiere, nel quale potessero essere effettiva­mente accolti e assistiti i ragazzi, tolti dagli isti­tuti, per un loro graduale inserimento. Pensa­vamo dunque a un arco di proposte da racco­gliere, documentare, confrontare e ripresentare all'opinione pubblica e ai responsabili (tecnici e politici) della situazione, in ordine alla libera­zione dei carcerati e quindi a una diversa strut­turazione sociale della rieducazione, a beneficio di questi e, si capisce, dei futuri potenziali clienti del Ministero di Grazia e Giustizia.

L'ingenuità dell'impostazione apparve lampan­te nelle settimane che precedettero il conve­gno, tanto che fu necessario rivoltarla comple­tamente.

Pur ammettendo, infatti, che qualcosa si possa e si debba fare dentro le strutture di reclusione (per renderle più umane) e a valle (nel predi­sporre strutture sociali capaci di accogliere gente tirata fuori dal reclusorio) è evidente che il problema sta a monte: il male va curato alla radice.

Sembra impietoso verso i reclusi questo di­scorso, eppure va fatto: rendere migliori gli istituti (oltre una certa misura indispensabili) serve ad approfondire l'istituzionalizzazione e il disadattamento.

Sembra anche più crudele (specie se a qual­cuno di costoro si vuol bene) quest'altro di­scorso, che pure va fatto: a cosa vale politica­mente (cioè per una vera soluzione del proble­ma) spender fatiche per il recupero sociale di un individuo già istituzionalizzato, quando si sa che di fronte ai pochi casi di recupero stanno (e decine di migliaia di casi che, a monte delle istituzioni totali (come carcere e manicomio) - nei luoghi della miseria, dello sfruttamento, della prostituzione e della disperazione - con­vergono giorno per giorno ad alimentare quelle istituzioni?

Va detto subito che quest'ultimo discorso sembra crudele, ma anche è crudele e ingiusto nella misura in cui è esso stesso disperato, di fronte a un recupero che appare faticoso se non impossibile e nella misura in cui assume a cri­terio di validità politica il numero (il successo numerico di un'impresa) a prescindere dalla persona. Voglio dire che occuparmi di un solo caso potrebbe essere politicamente più signi­ficativo che occupare una piazza: dipende, non solo dalle circostanze, ma anche dalle persone e dai miei rapporti con queste persone.

Il problema posto, però, ha una sua rilevanza, che è rilevanza politica. Posto così, il problema in concreto ha aperto la strada a una sostan­ziale correzione di rotta nell'impostazione del convegno di dicembre. Il discorso sulla strut­tura carceraria e sul «dopo» dei carcerati, o sulle strutture sociali capaci di accogliere i ra­gazzi liberati dall'istituto, questo discorso è rima­sto, ma l'accento si è spostato decisamente a monte, precisamente al problema del retroterra subculturale in cui si sviluppano i fenomeni che sfociano nella delinquenza.

Diciamo che - in una prospettiva globale e centrata sulla prevenzione del crimine, invece che sulla sua repressione e sulla razionalizza­zione del sistema carcerario - occorrono strut­ture sociali e strumenti nuovi per affrontare i fondamentali problemi della famiglia, della scuo­la, del tempo libero, ecc.; e per affrontare così anche il problema della devianza, che si mani­festa nel contesto sociale, particolarmente nei suoi aspetti deteriori che, per quanto concerne i minori, significa: maltrattamenti, educazione alla violenza e alla sopraffazione, abbandono, fughe da casa, bande asociali, delinquenza mino­rile, fumo e droga, semianalfabetismo e ritardo scolastico, lavoro minorile, internamento negli istituti, prostituzione, suicidio. L'elenco potrebbe continuare. Vogliamo aggiungere solo due pia­ghe, che ci sembrano fra le più gravi: la stru­mentalizzazione, di cui sono oggetto i minori, da parte di tutti (pubblicità, forze politiche, ecc.) e la superstizione religiosa, che è poi il frutto di una identica strumentalizzazione, da parte della chiesa.

Prigionieri di questa miseria sono, in Italia, ben più dei 6.000 ragazzi rinchiusi nei riforma­tori. È a questi «minori in tutto» che, in ma­niera più o meno chiara, è stato dedicato il con­vegno del dicembre scorso. A questi dovrà guardare la possibile futura continuazione del convegno.

(Dalla presentazione di TONI BERNARDINI)

 

 

M. DINA e F. ALFIERI, Tempo pieno e classe operaia, Einaudi, Torino, 1974, pag. 271, L. 2.500.

 

Esce, a cura di M. Dina e F. Alfieri il libro che raccoglie gli atti del convegno della C.G.I.L., C.I.S.L., U.I.L., sui problemi del tempo pieno. La prefazione di Mario Lodi mette a fuoco il signi­ficato centrale del convegno e del libro: esi­stono nella scuola oggi «grosse difficoltà che gli educatori, anche se preparati e tenaci, non pos­sono superare se non collaborano con il movi­mento operaio, collocando il loro impegno e la loro competenza nel quadro generale della lotta per il cambiamento radicale di tutta la società». Non c'è bisogno di sottolineare l'attualità dell'argomento e la felice coincidenza della pub­blicazione con la tensione della situazione: i De­creti Delegati sono un'arma pericolosa nelle mani di un Ministero della Pubblica Istruzione che non aspetta altro che l'assenteismo degli interessati per tirare i fili di una ben preparata macchina burocratica che solo un intervento attivo e cosciente della base può trasformare in molla politica.

E proprio nel taglio politico sta la qualifica­zione positiva del convegno: i problemi della scuola vengono finalmente sottratti alla medita­zione a tavolino dei tecnici del settore per met­tere in evidenza l'arretratezza voluta delle isti­tuzioni e la loro inadeguatezza all'attuale situa­zione sociale e politica.

La gestione della scuola oggi non può più spettare ai burocrati ma deve essere assunta dalle forze che ne fruiscono o, per meglio dire, che la subiscono.

Da tempo ci si è accorti che la scuola è di tutti solo verbalmente, mentre in effetti l'impo­stazione selettiva ed emarginante andava a di­scapito essenzialmente dei figli dei proletari, specie se immigrati. In ogni caso i programmi ed i contenuti sono così avulsi dal contesto reale da non poter essere recepiti e usati da chi non faccia parte dell'élite che può permettersi il lusso culturale.

Fin dal primo anno della scuola dell'obbligo viene sancito il dislivello di partenza con l'im­porre ai gruppi più svantaggiati una cultura ad essi estranea: le spinte motivazionali ad appren­dere sono completamente ignorate, l'insegna­mento cade dall'alto e programmaticamente se­leziona chi non è in grado di adeguarvisi.

La politica demagogica della promozione non soddisfa nessuno che abbia le idee chiare sugli interessi del proletariato: a meno che non si parli di promozione sociale. Ma allora è la scuo­la che deve operare una conversione di fondo nei suoi contenuti e nei suoi programmi. E la conversione non sarà certo automatica, ma si potrà ottenere soltanto con un diretto intervento delle forze sociali che apra uno scambio biuni­voco tra scuola e quartiere, tra scuola e so­cietà.

I problemi dell'edilizia scolastica, delle mense, della qualificazione del personale vanno affron­tati in un'ottica non frazionaria ma capace di garantire, anziché il parcheggio degli allievi, la loro maturazione.

L'impianto del libro non è casuale e mi pare ben riflettere i piani di stratificazione del pro­blema: aspetti politici generali, problemi di con­tenuto, esperienze nelle scuole, nelle zone sin­dacali e nei quartieri.

Le relazioni dettagliate sulle esperienze fatte in varie scuole elementari e medie, sono stimo­lanti: molto c'è da apprendere, molti spunti me­ritano di essere sviluppati.

Ma è giusto che non ci si riposi sull'esistenza di isole felici e ci si impegni a far sì che il tempo pieno, qualora venga realizzato altrove, o, come si auspica, qualora divenisse conquista della scuola dell'obbligo, non sia manipolato in modo apolitico (che è come dire impolitico) e si ponga invece come strumento di lotta per una «scuo­la alternativa» capace di evitare la «tendenza della scuola a riprodurre il principio della divi­sione del lavoro, e di creare, nell'ambiente sco­lastico un modello di scuola alternativa».

SANTA CARLA PAPA

 

www.fondazionepromozionesociale.it