Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo
1975
STUDI
CLAUDIO CIANCIO
1. Dalle
contraddizioni del capitalismo avanzato all'esigenza di un nuovo progetto di
democrazia.
La tendenza del capitalismo avanzato
verso una società organizzata come istituzione totale comporta, se non tanto un
nuovo ostacolo alla partecipazione, che anche prima non era prevista, certo una
restrizione degli spazi di libertà del popolo (si
pensi alla progressiva scomparsa della cultura popolare soffocata dalla cultura
di massa, ai rigidi condizionamenti nella scelta dei consumi, ecc.). Si può
persino dire che il capitalismo avanzato attua una totalizzazione della società più completa di quella operata
dal fascismo nella misura in cui esso integra, con strumenti non controllabili,
anche le sfere del privato, dell'interiore e dell'inconscio.
Ciò avviene in quanto il capitalismo
ha esteso la sua area di profitto (al territorio, alla campagna,
alla cultura, ai servizi) espropriando così le classi subordinate non più
soltanto dei beni, ma in primo luogo del potere di decidere sull'uso dei beni,
della loro cultura e della loro coscienza. Nasce di qui l'impressione di molte
persone vissute sotto il fascismo che il processo di democratizzazione
successivo alla Resistenza sia stato illusorio e che
anzi le possibilità di libertà reale e di relazioni sociali
significative si siano ridotte. Questa impressione conduce spesso a posizioni reazionarie, che dipendono dalla mancata presa di
coscienza del fatto che le nuove tendenze del capitalismo descritte hanno
indotto contraddizioni più avanzate e in particolare la contraddizione tra la
socializzazione della cultura, dei servizi, dei consumi, ecc. (positiva) e il
suo uso antisociale e subordinato al profitto (negativa). È proprio la coscienza
di questa contraddizione che ha suscitato come giusta reazione l'estendersi
della lotta anticapitalistica fuori delle aziende intendendo questa estensione
non più come secondaria e aggiuntiva e determinando così il sorgere di nuove
tendenze nel movimento dei lavoratori e di nuove forme di movimento, quali ad
esempio quello dei quartieri.
Queste nuove tendenze si riassumono
nell'esigenza di livelli più avanzati di democrazia e quindi
di una lotta non soltanto per trasferire maggiori risorse e beni ai
lavoratori, ma anche per affidarne ad essi direttamente il controllo. Ciò
comporta una modificazione dei contenuti e delle forme di lotta. Così - come
vedremo meglio - la lotta economico-sociale si fa direttamente politica: è lotta non solo per modificare gli indirizzi del
potere, ma per controllarlo. Ma proprio per questo non
basta più semplicemente cambiare i gestori del potere sostituendone alcuni con
rappresentanti dei lavoratori: il problema non è solo quello di cambiare gli
obbiettivi che il potere persegue, ma anche quello di cambiare le forme in cui
esso si esercita. Diventa allora profondamente sbagliato mirare attraverso le
lotte ad ottenere per le organizzazioni di base la
cogestione o anche la gestione di quelle forme di potere.
Questa linea ha gravi conseguenze
tattiche (che esamineremo più avanti), ma anzitutto va
criticata nei suoi presupposti teorici, tanto più che proprio oggi finisce per
diventare di ostacolo allo sviluppo di quelle nuove forme di ampliamento della
democrazia, che le stesse nuove contraddizioni del capitalismo inducono come
esigenza. Infatti questa prospettiva implica necessariamente
una delega del movimento alle proprie avanguardie politicizzate che ne facciano
valere gli autentici interessi nella gestione del potere. Ma
ciò presuppone che sempre gli interessi delle masse siano autenticamente
rappresentati dalle loro avanguardie (partiti, sindacati, ecc.) e che quindi un
potere esercitato per i lavoratori sia tout court un potere dei lavoratori.
Questa identificazione si fonda sulla concezione del partito o delle
organizzazioni dei lavoratori, intesi come la coscienza delle masse; la volontà
e le idee dei singoli lavoratori o dei gruppi ristretti di lavoratori
diventano allora momenti parziali della coscienza totale (il partito). Ora è
certamente vero che l'organizzazione e i suoi dirigenti hanno la possibilità di
giungere a una visione complessiva dei problemi più
ampia di quella dei singoli e quindi di prendere decisioni di valore veramente
generale. È necessario però riconoscere che l'organizzazione e i suoi
dirigenti formulano sempre soltanto un'interpretazione dei bisogni e delle
esigenze del popolo, interpretazione che può essere più o
meno vera e quindi va sempre verificata, e inoltre che la coscienza
personale è già essa stessa una totalità, sia pure finita e aperta, e non solo
una parte di una totalità più ampia, il che vale anche per la coscienza del
dirigente, che non è assoluta, ma finita e aperta. Tuttavia non sempre chi
pensa il partito come coscienza totale sottintende la
negazione della totalità personale, ma a volte intende come realizzabile l'integrazione
perfetta fra la persona come totalità e la totalità collettiva. Questa
prospettiva è accettabile, ma solo in quanto si pone come esigenza utopica
che lavora per abolire via via i diaframmi,
indotti dall'organizzazione della società, che atomizzano e dividono gli
uomini, e non in quanto sia posta come realizzata o compiutamente
realizzabile. In questo caso infatti si finisce
inevitabilmente per cadere nella prospettiva totalitaria in cui l'individuo è
semplice parte.
Le conseguenze storiche della
concezione ora criticata sono già state gravi. Ed è importante sottolineare che si tratta di conseguenze rigorose, non di
deviazioni, come a volte si dice per esempio a proposito dello stalinismo. Infatti se il partito è la vera coscienza delle masse e il
vero sostegno della storia, ad esso appartiene ogni diritto storico e tutto va
ad esso subordinato. Così pure il «culto della personalità» non è una
deviazione: come il partito è la verità della coscienza delle masse, così il
segretario del partito è, in analogo rapporto, la verità del partito stesso,
in lui si esprime la suprema coscienza del partito in quanto ne sintetizza la
totalità, ed egli è di conseguenza l'incarnazione individualizzata della verità
storica.
A questa visione si tratta allora di
contrapporre una concezione dialettica dei rapporti tra potere
e cittadini, si tratta cioè di ipotizzare e di richiedere, soprattutto poi in
una società socialista, un'articolazione più ampia possibile del potere in
funzione del suo controllo. Il potere è democratico solo a due condizioni:
primo, se chi lo gestisce è eletto dal popolo; secondo, se la formazione delle
sue decisioni avviene in un confronto costante e aperto con il popolo stesso.
Limitarsi al voto o alla delega comunque espressa
significa inevitabilmente alienare totalmente il potere, il che comporta per di
più che quella verifica che ogni nuova elezione potrebbe essere, non lo è quasi
per nulla nella misura in cui l'elettore non ha avuto reali strumenti per
verificare la gestione del potere stesso.
I presupposti di un pieno sviluppo
di questo tipo di democrazia sono:
a) L'abolizione dello sfruttamento
economico e della divisione in classi conseguente come premessa indispensabile
al superamento di ogni emarginazione sociale e
all'instaurarsi di concreti rapporti di uguaglianza. Ma
questo è solo il primo passo. Infatti altrettanto decisive
sono le alternative politiche possibili dopo l'abolizione dello sfruttamento
economico. La discriminante è di nuovo qui il significato di collettivizzazione.
O il soggetto è la collettività e allora necessariamente si pensa che chi
assume la direzione della società, in quanto esprime direttamente la collettività
stessa, è immediatamente portatore delle sue esigenze, ne è
cioè la coscienza esplicitata. O la
collettivizzazione dell'economia significa gestione comune e partecipata.
b) Il decentramento del potere. In
questo modo la formazione delle scelte politiche risulta
da una sintesi delle più diverse situazioni evitando che si formino pericolosi
scollamenti e garantendo una maggiore aderenza del potere alla molteplicità e
alla complessità delle articolazioni della società.
c) Ma il decentramento stesso non
avrebbe alcuna portata democratica se non fosse concepito come strumento di
partecipazione e di controllo del potere stesso. È cioè necessario che in ogni singolo ambito sociale e
produttivo la formazione del potere avvenga attraverso il confronto costante
con le persone che ne fanno parte. Per questo è importante che sia favorita
l'organizzazione autonoma dei gruppi sociali per l'esercizio di un autonomo
potere di controllo. Naturalmente si deve evitare ogni rischio di corporativismo
o di democraticismo inteso come sistema che risulta dalla sommatoria di volontà individualisticamente
espresse. Ciò è possibile se il decentramento si compone con l'unificazione
degli ambiti di potere. Tutte le competenze (economiche, sociali, scolastiche,
ecc.) vanno unificate nelle unità locali elementari come nelle istanze superiori. Ogni istanza
superiore poi deve risultare dalla aggregazione di unità elementari gestendo
quelle competenze che queste ultime non possono coprire. Si può così dire che al governo centrale competa quasi esclusivamente la
direzione politica e la programmazione economica generali e la politica estera.
In questo modo la gestione del potere non è settoriale, ma
globale anche nelle unità elementari e quindi più difficilmente risulterà
dalla somma di spinte categoriali. Ogni livello di
potere e ogni organizzazione di base si devono fare carico cioè
di una politica generale sia pure a livelli territoriali anche limitati. Ciò
evidentemente non esclude anche l'organizzazione categoriale
(ad es. nei luoghi di lavoro, nelle scuole, ecc.), ma ne subordina l'importanza
alle organizzazioni che si rapportano ai livelli di gestione del potere più
propriamente politici. Così si evita il corporativismo attraverso l'unità delle organizzazioni di base e una loro articolazione che
ricalchi l'articolazione del potere.
d) Ma il punto essenziale resta quello
della distinzione fra gestione del potere e forme di partecipazione e di
controllo. Il presupposto fondamentale di questa distinzione è che l'unità fra
rappresentanti, pur democraticamente scelti, e rappresentati è sempre
continuamente da ricomporre e da verificare e che solo i processi di questa
ricomposizione costituiscono il contenuto concreto di una politica democratica.
Un potere dunque non è democratico solo perché si pone esplicitamente il compito
di esprimere gli interessi del popolo. Ciò fra
l'altro non offre nessuna garanzia di rispetto delle minoranze o comunque di coloro che si oppongono alla linea politica del
potere costituito. Costoro infatti vengono individuati
immediatamente come nemici del popolo proprio in quanto quel potere costituito
si ritiene essere la coscienza del popolo. Una miglior garanzia di ciò si ha invece quando il potere rinuncia a ritenersi l'interprete
infallibile degli interessi del popolo proponendosi piuttosto una funzione di
mediazione e di sintesi dei diversi bisogni e interessi sulla base di ipotesi
che sono sempre da verificare. Per raggiungere ciò è necessario che nessuna componente sociale perda la sua autonomia sacrificando
immediatamente la sua specificità all'altare della coscienza collettiva. La
democrazia non si attua perché il potere ha integrato perfettamente in sé tutte
le componenti sociali (corporativismo), ma perché l'eventuale integrazione è
il risultato complesso della dialettica fra il potere e gli organismi di base
che mantengono sempre la loro reciproca autonomia. Senza questa reciproca
autonomia si oscilla inevitabilmente fra una riduzione delle organizzazioni
di base a strumenti di organizzazione del consenso e
di convalida formale delle decisioni già assunte e il rischio di un demagogismo che mette il potere a rimorchio delle richieste
più disparate e incontrollate di un movimento di massa spontaneistico
e lasciato a se stesso. La gestione spontaneistica
del potere è il necessario corrispettivo e a volte la necessaria
conseguenza di una gestione autoritaria. Ambedue dimenticano
infatti la mediazione dialettica fra gestione e controllo.
2. Il rapporto tra
forme di lotta e obbiettivi.
Queste indicazioni rivelano tutta la
loro importanza e concretezza se riferite direttamente al problema della
strategia anticapitalistica e delle forme di lotta da
adottare. Anzitutto si tratta di non separare le forme di lotta dagli obbiettivi
da conseguire. Una lotta anticapitalistica condotta delegando in modo esclusivo
alle organizzazioni politiche e sindacali la sua gestione e quindi privilegiando, sul piano degli sbocchi, la trattativa verticistica non può che riprodurre, nel migliore dei casi,
una società come organizzazione totale. In questo caso le azioni e le forme di
lotta hanno un valore meramente strumentale; il vero soggetto è di nuovo
l'organizzazione, rispetto alla quale i singoli membri sono parti funzionali.
Solo il soggetto-organizzazione è la coscienza totale,
che perciò conosce i fini da raggiungere, mentre i fini che i singoli membri
dell'organizzazione perseguono, sono, presi da sé soli, tutti falsi. Il
rapporto tra organizzazione e base rischia allora di
muoversi continuamente fra lo strumentalismo, e cioè
l'uso e l'incanalamento delle spinte spontanee verso altri fini, e
l'autoritarismo e cioè l'imposizione forzata dei fini stabiliti
dall'organizzazione alla base.
Questa strategia sottintende che
lotta anticapitalistica e realizzazione del
socialismo non possano stare insieme, ma siano termini successivi. Giacché infatti se la società socialista è una totalità organica
compiuta, essa non può sussistere finché non se ne sono date tutte le
condizioni. Nella società capitalistica, concepita come totalità
contraddittoria, si ritiene invece che ogni singola coscienza non possa che
riprodurne le contraddizioni e che quindi la prefigurazione di forme di organizzazione e di vita socialiste sia una possibilità illusoria.
Ciò che conta sarebbe quindi soltanto il portare avanti, in qualsiasi modo, le
contraddizioni stesse finché si giunga al superamento
della società borghese in un tipo di società nella quale si ipotizza che,
essendo superate le contraddizioni, ogni singola coscienza rifletta una
totalità veramente organica e unitaria e perciò realizzi una completa
armonizzazione con le altre coscienze rendendo possibile una forma di vita
veramente socialista.
Ora è chiaro che in un tale tipo di
società socialista non può sussistere un'organizzazione potenzialmente
contraddittoria rispetto al sistema di potere, tanto è vero che si ipotizza
persino la sparizione dello stesso potere politico. Ora però assumere
un'ipotesi di questo genere porta con sé delle conseguenze estremamente
pericolose, anche in relazione alla stessa strategia anticapitalistica. Infatti muovendo da quei presupposti l'elemento essenziale
della strategia non è l'allargamento della presa di coscienza attraverso la
concreta sperimentazione di forme di organizzazione socialista. Tutto ciò può
certo essere perseguito, ma soltanto in funzione subordinata rispetto
all'obbiettivo della conquista del potere. Ma questa linea rende possibili due
soli esiti: o si ritarda l'abbattimento del sistema capitalista, in quanto la
realtà di una società diversa non viene compresa e
sperimentata e quindi appare al popolo semplicemente utopistica; o si
raggiunge uno pseudo-socialismo che viene imposto
alle masse dall'esterno. Si tratta cioè di una
strategia o inefficiente o troppo efficiente tanto da smarrire nell'efficienza
lo scopo.
Ciò risulta
particolarmente evidente in una democrazia borghese come la nostra,
formalmente avanzata, a causa delle sue origini dalla Resistenza. La priorità
dell'obbiettivo della conquista del potere implica qui la possibilità di
tentare un'erosione del potere stesso dall'interno
assumendone la gestione in collaborazione con le forze borghesi col rischio
di subordinare ad essa l'autonomia delle organizzazioni di base, il che impedisce
e frena il potenziamento dei contenuti alternativi da esse portato avanti.
Inoltre tale partecipazione al potere da parte delle forze politiche che si fanno portatrici degli interessi popolari
(partecipazione che non è di per sé negativa se significa semplicemente
presenza, come opposizione, nelle istituzioni per favorire migliori condizioni
di sviluppo della democrazia) diventa in questo caso autocontraddittoria
perché gestisce un tipo di democrazia formale e pluralistica che in realtà si
pensa di dover giungere a negare: di qui il verosimile rifiuto delle forze
borghesi di accettare tale cogestione e quindi il prodursi di una situazione
confusa e di stallo, che fa marcire la crisi senza preparare nel movimento gli
sbocchi alternativi e quindi rendendo anche possibili colpi di mano
autoritari.
Tali rischi si evitano solo
esaltando il momento della vita democratica interna dei partiti di sinistra, e lottando prioritariamente per un sistema di
contropoteri, nella fabbrica e nella società, che, mentre costituiscono un
attacco alla società borghese, ne indicano anche l'alternativa. Parlare di un
sistema di contropoteri significa, come esemplificheremo
più avanti, perseguire l'autonomia e il potenziamento del movimento di base,
tale da fargli superare ogni subalternità, episodicità
e genericità. Ciò è possibile se il movimento si impegna
in una vasta, ma unitaria, articolazione in organismi di base capaci di
assumersi e di gestire la problematica specifica propria degli ambiti sociali
in cui operano individuando anche gli strumenti di intervento e di lotta. In
questo modo meno facilmente il movimento rischia di essere
oggetto ad alti e bassi e di essere usato strumentalmente. Così da un lato si
approfondisce la presa di coscienza politica della base e la sua capacità di attacco al sistema capitalistico, dall'altro si
costituisce una dialettica permanente fra il potere e gli organismi di base,
che prefigura la forma di una democrazia nuova, pienamente realizzata solo
quando il potere, non più legato a interessi di classe opposti, non si porrà
più come strutturalmente antagonista della base, ma come potenzialmente
funzionale ad essa.
3. Le nuove esperienze
di controllo democratico: successi, difficoltà, obiezioni.
Queste considerazioni generali risultano particolarmente pertinenti nell'ambito delle
attuali lotte sociali. Qui infatti si stanno
delineando negli ultimi tempi con molta nettezza le due opposte linee, anche
se sovente esse coesistono nelle medesime forze politiche e sindacali e nelle
medesime proposte.
Citiamo alcuni esempi in cui si delinea positivamente una concezione della partecipazione
intesa come effettivo controllo democratico:
1. Nella proposta di legge del
P.C.I. «Istituzione del servizio sanitario nazionale»
(n. 2239), presentata alla Camera dei Deputati il 12 giugno 1973, all'art. 13,
n. 3, è prevista «la costituzione dei Comitati sanitari locali con funzioni di
consultazione obbligatoria da parte dei Comuni singoli o associati e di
controllo delle attività dell'Unità Sanitaria Locale. Il Comitato Sanitario locale deve comprendere in ogni caso le rappresentanze
dei lavoratori dipendenti e autonomi che debbono essere costituite in modo da
assicurare la partecipazione dei cittadini, nelle forme che saranno ritenute
opportune a livello dei servizi di base».
2. Il dipartimento «Sicurezza
sociale» della Regione Emilia-Romagna ha inoltrato
agli enti locali e alle forze politiche con circolare del 22 marzo 1973 uno
schema di statuto dei consorzi intercomunali per i servizi sociali e sanitari.
In detto schema, per quanto concerne la partecipazione, è previsto quanto
segue:
- art. 13 - Al fine di potenziare il controllo popolare sulle scelte
politico-programmatiche, che ha la sua espressione fondamentale nella gestione
sociale dei servizi tramite la partecipazione popolare, è costituito il
Comitato di iniziativa popolare, rappresentativo delle
forze sociali e sindacali organizzate nel territorio.
- art. 14 - Il Comitato è formato di X componenti designati dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti più rappresentative nella
zona, di Y componenti designati dalle organizzazioni
dei coltivatori diretti, artigiani e commercianti più rappresentative, di Z
componenti designati dalle associazioni dei tecnici che operano localmente nei
settori della sanità e dell'assistenza sociale, ed eventualmente di altri
rappresentanti di gruppi o interessi di cittadini nominati dall'Assemblea
consorziale in numero non superiore a ...
- art. 15 - Il Comitato è costituito e insediato dall'Assemblea
immediatamente dopo l'elezione del Presidente e del Consiglio Direttivo e,
nella sua prima riunione, provvede a stabilire le modalità
del proprio funzionamento.
3. Nello statuto approvato dai
comuni facenti parte del comprensorio faentino
(comuni di Brisighella, Casola
Valsenio, Caste] Bolognese, Faenza,
Modigliana, Riolo Terme, Solarolo e Tredozio) è stato stabilito all'art. 15 «Allo scopo di garantire la più
ampia consultazione sarà istituito un Comitato di
partecipazione popolare, con carattere consultivo, rappresentativo dei
quartieri, degli enti, pubblici e privati, organizzazioni e tecnici operanti
nel settore e delle forze politiche e sindacali».
4. La proposta di legge regionale votata il 22-3-1974 dal Comune di Settimo Torinese sulla «Istituzione
e regolamentazione dei comitati sanitari e sociali di
zona» (v. Prospettive assistenziali,
n. 25, pp. 19-25) prevede all'art. 11 che: «Al fine di potenziare il controllo
popolare sulle scelte politiche e programmatiche è costituito in ciascuna
zona, su iniziativa delle organizzazioni sindacali più rappresentative, un
Comitato composto da rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei
lavoratori dipendenti e autonomi e delle forze
sociali presenti sul territorio. Il Comitato definisce autonomamente i propri
criteri di rappresentanza, partecipazione e funzionamento. Il Comitato deve
essere obbligatoriamente consultato dagli organi del Consorzio per tutte le
materie di competenza del Consorzio stesso. Il Consorzio è tenuto a trasmettere
tempestivamente copia dei propri atti e ogni altra informazione richiesta dal
Comitato».
5.
Si tratta in tutti questi casi di effettive innovazioni legislative rese possibili dalla
qualità nuova che le lotte politiche sociali e soprattutto sindacali hanno
assunto in questi ultimi anni. Tali lotte costituiscono anche la sola garanzia
dell'efficacia delle nuove misure legislative, che naturalmente non bastano da
sole a cambiare la situazione. In particolare c'è
anche qui il rischio che i membri degli organismi di controllo si stacchino dal movimento o che perdano nei fatti la loro
autonomia nei confronti degli organismi di gestione.
Questo pericolo è tanto più
incombente nella misura in cui la linea politica del controllo democratico,
che si pone in alternativa alla cogestione, anche se
ha fatto notevoli passi in avanti, non è ancora assunta, sul terreno delle
istituzioni sociali, in modo chiaro e pieno dagli stessi sindacati. Infatti l'assunzione di tale posizione avrebbe come
conseguenza l'abbandono da parte del sindacato di tutte le iniziative di
gestione diretta di servizi: il sindacato è impegnato in modo massiccio in
attività di formazione professionale tramite gli enti ECAP-CGIL, IAL-CISL,
ENFAP-UIL; inoltre il sindacato fa parte dei consigli di amministrazione di
molti enti, come ad esempio l'INPS, i comitati provinciali INAM, i comitati
provinciali di assistenza e beneficenza pubblica, i consigli di patronato per
l'assistenza ai liberati dal carcere, dei consigli nazionali di
amministrazione dell'ONPI e dell'ENAOLI.
L'alternativa
fra gestione e controllo nel modo di concepire la partecipazione si è poi
evidenziata in modo significativo nel dibattito sulla istituzionalizzazione
dei Consigli di Quartiere, soprattutto a Torino. A Torino, diversamente che in
altre città, al forte ritardo nell'attuazione del decentramento si è
accompagnato il sorgere di un forte movimento spontaneo nei quartieri, maturo e
politicizzato, che in alcune occasioni ha saputo imporre alla Giunta comunale
le proprie richieste. In questa situazione l'iniziativa della Giunta di
deliberare il decentramento ha fatto emergere le contraddizioni (anche se
alquanto attenuate per esigenze di unità) nel
movimento dei quartieri, proprio fra i modi diversi di intendere la
partecipazione. Di fronte alla delibera della Giunta, che è un chiaro
tentativo di svuotare l'esperienza autonoma dei quartieri nella misura in cui,
mentre istituzionalizza, non dà effettivi poteri agli organi decentrati e non
prevede la possibilità di forme reali di controllo dal basso, i quartieri hanno manifestato orientamenti diversi. Da un lato si è
cercato di migliorare la delibera soprattutto per quanto riguarda
l'attribuzione di poteri reali ai Consigli di
Quartiere. È questa la posizione del PCI che ha
presentato una sua proposta di delibera, che contiene sostanziali miglioramenti
rispetto a quella della Giunta, ma non si differenzia molto da essa sul
problema della partecipazione. La delibera della Giunta prevede all'art. 28
che il Consiglio di Quartiere debba «porsi l'obbiettivo
di sollecitare la partecipazione, la discussione e l'elaborazione da parte dei
cittadini, mediante assemblee e commissioni dl lavoro», e dichiara «auspicabili
periodiche assemblee che trasformino i pareri richiesti ai Quartieri in vere e
proprie consultazioni popolari», e la proposta del PCI prevede che la partecipazione
si realizzi «attraverso la convocazione, su iniziativa del Consiglio di
Quartiere, dell'assemblea del Quartiere», pur precisando che tale convocazione
deve avvenire almeno due volte all'anno.
Contrapposta a questa posizione si è
manifestata una tendenza spontaneistica volta a
contrastare radicalmente il progetto di istituzionalizzazione inteso come
strumento di ingabbiamento
del movimento. Una terza posizione, che a mio parere è la più corretta, ha
infine individuato nel decentramento una possibilità di effettiva
partecipazione, che diventa reale però nella misura in cui non solo agli
organismi decentrati vengono attribuiti effettivi poteri, ma anche sia prevista
la possibilità del costituirsi di organismi di base autonomi (gli attuali
Comitati di quartiere rifondati) dotati di effettivi strumenti di controllo e
autonoma facoltà di proposta. In questo senso si esprime un documento delle
ACLI torinesi del 21-6-1974, nel quale si osserva: «Anche
il miglior riconoscimento dei C.d.a. ne cambierà
oggettivamente il ruolo, affidando loro responsabilità gestionali
e di controllo politico importanti ma che caratterizzeranno i consigli di
quartiere come entità prevalentemente istituzionali assorbendo cospicue quote
di militanza. Questi nuovi compiti ne limiteranno nel concreto la possibilità
di organizzare la conflittualità sul territorio. Gli
stessi compiti gestionali del territorio li porranno
in un rapporto dialettico con le organizzazioni di base che operano nel
sociale, come ad esempio le ACLI, i Consigli di Zona, gruppi di base, ecc.
Occorrerà dunque ristrutturare, andando alla eventuale formazione di comitati
di base autoorganizzati, nuovi momenti di riferimento politico ed
organizzativo per le lotte sul territorio come momenti di reale contropotere. Si verificherà così la presenza sul territorio di tre entità
organizzate “unitarie”: consigli di quartiere, comitati di base, consigli di
zona sindacali... in rapporto fra di loro».
Purtroppo posizioni come questa sono ancora un po' isolate e non hanno trovato molte possibilità
di realizzazione. Basti pensare che a Bologna, una delle città più avanzate
sotto molti aspetti, solo l'anno scorso è stato
approvato un nuovo regolamento degli organismi di quartiere nel quale si
ribadisce che i consigli di quartiere sono eletti dal consiglio comunale,
mentre gli strumenti di partecipazione diretta previsti, e cioè le assemblee,
le petizioni popolari e le consultazioni popolari, non comportano effettivi
strumenti di controllo sulla gestione del quartiere (v. artt.
29, 30, 31 del regolamento).
Certo in questo
come in altri casi si deve tener conto del fatto che la linea da me indicata richiede
ancora di essere maturata e che non sempre si possono dare in tutte le
situazioni possibilità di applicarla con successo. Ma in altri casi la linea della
partecipazione come controllo democratico viene
esplicitamente rifiutata, non tanto magari sulla base delle motivazioni teorico-politiche esposte all'inizio, quanto piuttosto
sulla base di considerazioni tattiche che sono per lo più le due seguenti: da
un lato si critica la linea del controllo democratico come spontaneistica
e inefficace in quanto rifiuterebbe di occupare gli spazi di potere che
vengono offerti o conquistati, dall'altro si osserva che mentre la cogestione
va rifiutata a livello di rapporti di produzione perché non si deve perdere
l'autonomia e l'antagonismo della classe operaia nei confronti
dell'avversario di classe, altra cosa sono le istituzioni che nella loro
potenziale neutralità sarebbero un terreno di scontro aperto in cui è
necessario inserirsi per difendere gli interessi della classe lavoratrice.
La prima obiezione
dimentica che ciò che è in questione non è lo spontaneismo indiscriminato, ma
l'effettiva autonomia delle organizzazioni di base, dai sindacati ai comitati
di quartiere.
Preservare tale autonomia significa poi preservare il proprio effettivo
potere. Ciò è dimostrato sul piano dei fatti, oltre
che dall'esperienza del movimento operaio negli ultimi anni, anche da alcune
battaglie significative, condotte con maturità ed organizzazione dai Comitati
di quartiere «spontanei» a Torino, come quella che ha imposto il rifacimento
del Piano dei Servizi, col quale erano in gioco la terziarizzazione della
città, l'espulsione da essa di larghi strati popolari, e corrispettivamente
colossali interessi economici. Inoltre, in linea di principio, la corresponsabilizzazione degli organismi di base nella
gestione del potere o abolisce il controllo e la lotta
nella misura in cui diventa occasione di canalizzazione del consenso verso le
istituzioni o, nel migliore dei casi, li indebolisce nella misura in cui li
pone in necessaria contraddizione con la responsabilità del potere.
Per questo occorre forse passare
dalla proposta di «gestioni sociali» (concetto che contiene elementi di ambiguità) a quello di controllo sociale attraverso
l'autogestione della propria condizione e delle proprie richieste. A questo
proposito è significativa l'esperienza della gestione
della salute in fabbrica (cfr. Prospettive assistenziali n. 27, pp. 21-27), dove si è ottenuto
che il gruppo omogeneo avesse il diritto di richiedere ai tecnici le ricerche
ambientali da esso ritenute opportune e di
controllarne i risultati, il che è ben diverso da una corresponsabilizzazione
nella gestione del servizio stesso e quindi nella determinazione delle
condizioni ambientali in fabbrica.
Ciò non significa
affatto escludere che le gestioni dei servizi e delle istituzioni in
genere debbano essere democratiche sia per quanto riguarda la nomina e la
composizione degli organi di potere come anche per quanto riguarda il modo di
gestire il potere. Così può essere opportuno che nella gestione di
un'istituzione siano rappresentate tutte le componenti
dell'istituzione stessa, come avverrà ad esempio (pur con tutti i suoi limiti)
nella scuola con l'attuazione dei decreti delegati. Ma questo
allargamento della gestione diventa inevitabilmente controproducente se
non prevede strumenti di permanente ed effettivo confronto dialettico con la
base organizzata dei fruitori del servizio e delle forze sociali in genere;
assolutamente negativo è invece il fatto che nei nuovi organismi di gestione
siano presenti anche rappresentanti di organizzazioni di base, quali i
rappresentanti sindacali.
Ma con ciò entra in gioco la seconda
obiezione enunciata, quella riguardante la neutralità
potenziale delle istituzioni. Anche qui si tratta di
risolvere un equivoco. La cogestione economica va rifiutata non soltanto perché
il padrone è portatore di interessi di classi
opposti. Si potrebbe sempre dare la possibilità del padrone buono o «di
sinistra» o neutrale (lo stato), che gestisce l'impresa
secondo gli interessi dell'impresa stessa, di chi ci lavora e della
società (non del profitto). Il difetto fondamentale della cogestione, tanto economica quanto politica, è che essa impedisce lo
svolgersi di una corretta dialettica fra dirigenza e base, assolutizzando
e irrigidendo il rapporto di delega e frenando il possibile autonomo processo
di autodeterminazione dei propri bisogni e di formazione della volontà politica
da parte della base.
Ciò vale tanto più oggi in quanto si
manifesta, come accennavo all'inizio, un sempre maggiore intreccio tra
l'economico e il politico, in modo tale che l'organizzazione sociale e il suo
potere non è mai in parte economica e in parte politica, ma
tecnocratica, fondata cioè su una
stratificazione sociale autoritaria retta dalle leggi dell'efficienza
tecnica, che, mentre soffoca qualsiasi istanza di partecipazione, comporta la
formazione di nuove condizioni di privilegio (economico, sociale e politico
insieme) determinate dalla funzione esercitata nel «sistema» integrato (1). Il
problema allora non è più tanto quello di far esplodere una contraddizione tra
la sfera economica e quella politica (nella quale sia presente una
rappresentanza delle classi lavoratrici), ma di far saltare a tutti i gradi e a
tutti i livelli il sistema integrato autoritario. Per
raggiungere tale obbiettivo è necessario rompere lo
stesso carattere di sistema della società tecnocratica e non semplicemente
effettuare delle dislocazioni di potere e di privilegio da certe forze
politiche o economiche ad altre, anche se ciò è necessario ed essenziale per
stabilire maggiori condizioni di uguaglianza economica eliminando anche le sacche
di miseria. Possiamo esemplificare riprendendo il caso della gestione della
salute in fabbrica, nel quale ciò che i sindacati hanno giustamente
rifiutato è l'ipotesi di richiedere semplicemente dei tecnici più
illuminati e meno legati al padrone per rivendicare, oltre a ciò, strumenti di
autonomo controllo delle condizioni ambientali da parte dei lavoratori stessi.
Allo stesso modo e più in generale non basta lottare per una gestione più
illuminata e popolare del potere, ma per aprire spazi che consentano
un'effettiva riappropriazione da parte delle masse
popolari delle loro condizioni d'esistenza attraverso l'uso degli strumenti
conoscitivi, il dibattito collettivo e un assetto del potere tale da implicare
strutturalmente il continuo confronto con le esigenze poste
dalla base nella sua autonomia.
Questa prospettiva pone certo dei
difficili problemi di attuazione e richiede processi
di maturazione molto lunghi, anche se le nuove esperienze del movimento
sindacale (consigli di fabbrica e consigli di zona) e quelle di alcuni comitati
di quartiere indicano che si incomincia a marciare in una direzione nuova.
Molto resta indubbiamente da sperimentare e soprattutto da inventare, ma la
cosa essenziale resta il potenziamento del movimento attraverso l'estensione e
l'articolazione delle sue forme organizzative: penso soprattutto ai consigli di
zona, ai comitati inquilini, agli organismi di base che controllino la gestione
dei servizi (dalle scuole, alla sanità, all'assistenza), alle cooperative di produzione e di consumo democraticamente
gestite, stando ben attenti ai rischi di settorialismo e di corporativismo,
che si possono evitare solo mantenendo un costante collegamento tra i diversi
movimenti di base. Apparentemente secondario, ma
altrettanto essenziale, è aprire delle lotte per obbiettivi civili e sociali
che mirino ad ampliare gli spazi di libertà, di azione e di organizzazione al
movimento. Si pensi ad esempio all'importanza di un uso diverso dei mezzi di informazione, all'organizzazione del territorio in senso
socializzante invece che individualizzante, ad un superamento della gestione settorializzata ed emarginante dei servizi sociali.
Si potrebbe obbiettare che avanzando
queste proposte il mio discorso cade in una contraddizione
e cioè nell'ammettere, dopo averlo rifiutato, che per realizzare un'effettiva
democrazia occorre conseguire prima
determinati mutamenti strutturali e che quindi non si possono ipotizzare forme
di lotta che abbiano la stessa qualità democratica dei risultati che ci si
prefigge proprio in quanto la democrazia è il risultato e non il punto di
partenza. In realtà non si tratta di una contraddizione, quanto piuttosto di un
processo dialettico che cresce su se stesso. L'autonomia del movimento e il suo
perseguire obbiettivi di controllo democratico è il presupposto e la garanzia
per la conquista di più alti livelli di autonomia e
per l'allargamento del movimento e della sua forza. Se è vero
che solo certe condizioni strutturali rendono possibile la democrazia, è anche
vero che essa non si realizzerà mai se non diventa esperienza interna concreta
del movimento caratterizzandone l'organizzazione, le forme di lotta e gli
obbiettivi. La questione essenziale - occorre ripeterlo - è che forme
di lotta e obbiettivi non siano mai in contraddizione: da un lato quindi è
scorretto rimandare l'autonomia e la democrazia del movimento alla conclusione
della lotta rivoluzionaria, dall'altro è altrettanto scorretto usare
strumentalmente il movimento e le sue istanze
autonomamente espresse per una lotta che conduca alla realizzazione di una società
in cui si postuli la necessaria integrazione fra il vertice e la base. Nel
primo caso si manifesta una profonda sfiducia nelle persone finendo di fatto per rimandare nell'utopia la realizzazione della
democrazia, e si dimentica che la libertà si acquisisce solo esercitandola, nel
secondo caso si rischia di creare continuamente una frattura fra la base e le
avanguardie politiche che pretendono di interpretarne le intenzioni «autentiche»
al di là delle intenzioni «esplicite», e soprattutto si dimentica che solo una
società pluralistica nella quale la formazione della volontà politica sia il
frutto di una dialettica sempre aperta e la più ampia possibile è la garanzia
di un pieno sviluppo della libertà e della creatività delle persone e della
ricchezza della vita sociale.
(1) Per queste tesi mi
richiamo alle analisi di J. Habermas, soprattutto a
quelle espresse in Theorie und
Praxis, Francoforte 1971, trad. it. Prassi politica e teoria critica della società, Bologna 1973.
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