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Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo 1975

 

 

STUDI

 

LA PARTECIPAZIONE COME CONTROLLO DEMOCRATICO

CLAUDIO CIANCIO

 

 

1. Dalle contraddizioni del capitalismo avanzato all'esigenza di un nuovo progetto di democra­zia.

La tendenza del capitalismo avanzato verso una società organizzata come istituzione totale comporta, se non tanto un nuovo ostacolo alla partecipazione, che anche prima non era prevista, certo una restrizione degli spazi di libertà del po­polo (si pensi alla progressiva scomparsa della cultura popolare soffocata dalla cultura di massa, ai rigidi condizionamenti nella scelta dei consu­mi, ecc.). Si può persino dire che il capitalismo avanzato attua una totalizzazione della società più completa di quella operata dal fascismo nella misura in cui esso integra, con strumenti non controllabili, anche le sfere del privato, dell'inte­riore e dell'inconscio.

Ciò avviene in quanto il capitalismo ha esteso la sua area di profitto (al territorio, alla campa­gna, alla cultura, ai servizi) espropriando così le classi subordinate non più soltanto dei beni, ma in primo luogo del potere di decidere sull'uso dei beni, della loro cultura e della loro coscienza. Nasce di qui l'impressione di molte persone vis­sute sotto il fascismo che il processo di demo­cratizzazione successivo alla Resistenza sia sta­to illusorio e che anzi le possibilità di libertà rea­le e di relazioni sociali significative si siano ri­dotte. Questa impressione conduce spesso a po­sizioni reazionarie, che dipendono dalla mancata presa di coscienza del fatto che le nuove tenden­ze del capitalismo descritte hanno indotto con­traddizioni più avanzate e in particolare la con­traddizione tra la socializzazione della cultura, dei servizi, dei consumi, ecc. (positiva) e il suo uso antisociale e subordinato al profitto (nega­tiva). È proprio la coscienza di questa contraddi­zione che ha suscitato come giusta reazione l'e­stendersi della lotta anticapitalistica fuori delle aziende intendendo questa estensione non più come secondaria e aggiuntiva e determinando così il sorgere di nuove tendenze nel movimento dei lavoratori e di nuove forme di movimento, quali ad esempio quello dei quartieri.

Queste nuove tendenze si riassumono nell'esi­genza di livelli più avanzati di democrazia e quin­di di una lotta non soltanto per trasferire mag­giori risorse e beni ai lavoratori, ma anche per affidarne ad essi direttamente il controllo. Ciò comporta una modificazione dei contenuti e delle forme di lotta. Così - come vedremo meglio - la lotta economico-sociale si fa direttamente po­litica: è lotta non solo per modificare gli indirizzi del potere, ma per controllarlo. Ma proprio per questo non basta più semplicemente cambiare i gestori del potere sostituendone alcuni con rap­presentanti dei lavoratori: il problema non è solo quello di cambiare gli obbiettivi che il potere per­segue, ma anche quello di cambiare le forme in cui esso si esercita. Diventa allora profondamen­te sbagliato mirare attraverso le lotte ad otte­nere per le organizzazioni di base la cogestione o anche la gestione di quelle forme di potere.

Questa linea ha gravi conseguenze tattiche (che esamineremo più avanti), ma anzitutto va criticata nei suoi presupposti teorici, tanto più che proprio oggi finisce per diventare di ostacolo allo sviluppo di quelle nuove forme di amplia­mento della democrazia, che le stesse nuove con­traddizioni del capitalismo inducono come esi­genza. Infatti questa prospettiva implica necessa­riamente una delega del movimento alle proprie avanguardie politicizzate che ne facciano valere gli autentici interessi nella gestione del potere. Ma ciò presuppone che sempre gli interessi delle masse siano autenticamente rappresentati dalle loro avanguardie (partiti, sindacati, ecc.) e che quindi un potere esercitato per i lavoratori sia tout court un potere dei lavoratori. Questa iden­tificazione si fonda sulla concezione del partito o delle organizzazioni dei lavoratori, intesi come la coscienza delle masse; la volontà e le idee dei singoli lavoratori o dei gruppi ristretti di lavora­tori diventano allora momenti parziali della co­scienza totale (il partito). Ora è certamente vero che l'organizzazione e i suoi dirigenti hanno la possibilità di giungere a una visione complessiva dei problemi più ampia di quella dei singoli e quindi di prendere decisioni di valore veramente generale. È necessario però riconoscere che l'or­ganizzazione e i suoi dirigenti formulano sempre soltanto un'interpretazione dei bisogni e delle esigenze del popolo, interpretazione che può es­sere più o meno vera e quindi va sempre verifi­cata, e inoltre che la coscienza personale è già essa stessa una totalità, sia pure finita e aperta, e non solo una parte di una totalità più ampia, il che vale anche per la coscienza del dirigente, che non è assoluta, ma finita e aperta. Tuttavia non sempre chi pensa il partito come coscienza totale sottintende la negazione della totalità per­sonale, ma a volte intende come realizzabile l'in­tegrazione perfetta fra la persona come totalità e la totalità collettiva. Questa prospettiva è ac­cettabile, ma solo in quanto si pone come esigen­za utopica che lavora per abolire via via i dia­frammi, indotti dall'organizzazione della società, che atomizzano e dividono gli uomini, e non in quanto sia posta come realizzata o compiutamen­te realizzabile. In questo caso infatti si finisce inevitabilmente per cadere nella prospettiva to­talitaria in cui l'individuo è semplice parte.

Le conseguenze storiche della concezione ora criticata sono già state gravi. Ed è importante sottolineare che si tratta di conseguenze rigoro­se, non di deviazioni, come a volte si dice per esempio a proposito dello stalinismo. Infatti se il partito è la vera coscienza delle masse e il vero sostegno della storia, ad esso appartiene ogni diritto storico e tutto va ad esso subordi­nato. Così pure il «culto della personalità» non è una deviazione: come il partito è la verità della coscienza delle masse, così il segretario del par­tito è, in analogo rapporto, la verità del partito stesso, in lui si esprime la suprema coscienza del partito in quanto ne sintetizza la totalità, ed egli è di conseguenza l'incarnazione individualizzata della verità storica.

A questa visione si tratta allora di contrappor­re una concezione dialettica dei rapporti tra po­tere e cittadini, si tratta cioè di ipotizzare e di richiedere, soprattutto poi in una società sociali­sta, un'articolazione più ampia possibile del po­tere in funzione del suo controllo. Il potere è de­mocratico solo a due condizioni: primo, se chi lo gestisce è eletto dal popolo; secondo, se la for­mazione delle sue decisioni avviene in un con­fronto costante e aperto con il popolo stesso. Limitarsi al voto o alla delega comunque espres­sa significa inevitabilmente alienare totalmente il potere, il che comporta per di più che quella verifica che ogni nuova elezione potrebbe essere, non lo è quasi per nulla nella misura in cui l'e­lettore non ha avuto reali strumenti per verifi­care la gestione del potere stesso.

I presupposti di un pieno sviluppo di questo tipo di democrazia sono:

a) L'abolizione dello sfruttamento economi­co e della divisione in classi conseguente come premessa indispensabile al superamento di ogni emarginazione sociale e all'instaurarsi di con­creti rapporti di uguaglianza. Ma questo è solo il primo passo. Infatti altrettanto decisive sono le alternative politiche possibili dopo l'abolizione dello sfruttamento economico. La discriminante è di nuovo qui il significato di collettivizzazione. O il soggetto è la collettività e allora necessaria­mente si pensa che chi assume la direzione della società, in quanto esprime direttamente la col­lettività stessa, è immediatamente portatore del­le sue esigenze, ne è cioè la coscienza esplici­tata. O la collettivizzazione dell'economia signi­fica gestione comune e partecipata.

b) Il decentramento del potere. In questo modo la formazione delle scelte politiche risulta da una sintesi delle più diverse situazioni evitan­do che si formino pericolosi scollamenti e garan­tendo una maggiore aderenza del potere alla mol­teplicità e alla complessità delle articolazioni della società.

c) Ma il decentramento stesso non avrebbe alcuna portata democratica se non fosse conce­pito come strumento di partecipazione e di con­trollo del potere stesso. È cioè necessario che in ogni singolo ambito sociale e produttivo la for­mazione del potere avvenga attraverso il confron­to costante con le persone che ne fanno parte. Per questo è importante che sia favorita l'orga­nizzazione autonoma dei gruppi sociali per l'eser­cizio di un autonomo potere di controllo. Natural­mente si deve evitare ogni rischio di corporati­vismo o di democraticismo inteso come sistema che risulta dalla sommatoria di volontà individua­listicamente espresse. Ciò è possibile se il de­centramento si compone con l'unificazione degli ambiti di potere. Tutte le competenze (economi­che, sociali, scolastiche, ecc.) vanno unificate nelle unità locali elementari come nelle istanze superiori. Ogni istanza superiore poi deve risul­tare dalla aggregazione di unità elementari ge­stendo quelle competenze che queste ultime non possono coprire. Si può così dire che al governo centrale competa quasi esclusivamente la direzione politica e la programmazione economica generali e la politica estera. In questo modo la gestione del potere non è settoriale, ma globale anche nelle unità elementari e quindi più difficil­mente risulterà dalla somma di spinte catego­riali. Ogni livello di potere e ogni organizzazione di base si devono fare carico cioè di una politica generale sia pure a livelli territoriali anche limi­tati. Ciò evidentemente non esclude anche l'orga­nizzazione categoriale (ad es. nei luoghi di lavoro, nelle scuole, ecc.), ma ne subordina l'importanza alle organizzazioni che si rapportano ai livelli di gestione del potere più propriamente politici. Co­sì si evita il corporativismo attraverso l'unità del­le organizzazioni di base e una loro articolazione che ricalchi l'articolazione del potere.

d) Ma il punto essenziale resta quello della distinzione fra gestione del potere e forme di partecipazione e di controllo. Il presupposto fon­damentale di questa distinzione è che l'unità fra rappresentanti, pur democraticamente scelti, e rappresentati è sempre continuamente da ricom­porre e da verificare e che solo i processi di que­sta ricomposizione costituiscono il contenuto concreto di una politica democratica. Un potere dunque non è democratico solo perché si pone esplicitamente il compito di esprimere gli inte­ressi del popolo. Ciò fra l'altro non offre nessuna garanzia di rispetto delle minoranze o comunque di coloro che si oppongono alla linea politica del potere costituito. Costoro infatti vengono indivi­duati immediatamente come nemici del popolo proprio in quanto quel potere costituito si ritiene essere la coscienza del popolo. Una miglior ga­ranzia di ciò si ha invece quando il potere rinun­cia a ritenersi l'interprete infallibile degli inte­ressi del popolo proponendosi piuttosto una fun­zione di mediazione e di sintesi dei diversi biso­gni e interessi sulla base di ipotesi che sono sempre da verificare. Per raggiungere ciò è ne­cessario che nessuna componente sociale perda la sua autonomia sacrificando immediatamente la sua specificità all'altare della coscienza collettiva. La democrazia non si attua perché il potere ha integrato perfettamente in sé tutte le compo­nenti sociali (corporativismo), ma perché l'even­tuale integrazione è il risultato complesso della dialettica fra il potere e gli organismi di base che mantengono sempre la loro reciproca autonomia. Senza questa reciproca autonomia si oscilla ine­vitabilmente fra una riduzione delle organizza­zioni di base a strumenti di organizzazione del consenso e di convalida formale delle decisioni già assunte e il rischio di un demagogismo che mette il potere a rimorchio delle richieste più disparate e incontrollate di un movimento di mas­sa spontaneistico e lasciato a se stesso. La ge­stione spontaneistica del potere è il necessario corrispettivo e a volte la necessaria conseguenza di una gestione autoritaria. Ambedue dimentica­no infatti la mediazione dialettica fra gestione e controllo.

 

2. Il rapporto tra forme di lotta e obbiettivi.

Queste indicazioni rivelano tutta la loro im­portanza e concretezza se riferite direttamente al problema della strategia anticapitalistica e del­le forme di lotta da adottare. Anzitutto si tratta di non separare le forme di lotta dagli obbiettivi da conseguire. Una lotta anticapitalistica condot­ta delegando in modo esclusivo alle organizza­zioni politiche e sindacali la sua gestione e quin­di privilegiando, sul piano degli sbocchi, la trat­tativa verticistica non può che riprodurre, nel migliore dei casi, una società come organizza­zione totale. In questo caso le azioni e le forme di lotta hanno un valore meramente strumentale; il vero soggetto è di nuovo l'organizzazione, ri­spetto alla quale i singoli membri sono parti funzionali. Solo il soggetto-organizzazione è la coscienza totale, che perciò conosce i fini da raggiungere, mentre i fini che i singoli membri dell'organizzazione perseguono, sono, presi da sé soli, tutti falsi. Il rapporto tra organizzazione e base rischia allora di muoversi continuamente fra lo strumentalismo, e cioè l'uso e l'incanala­mento delle spinte spontanee verso altri fini, e l'autoritarismo e cioè l'imposizione forzata dei fini stabiliti dall'organizzazione alla base.

Questa strategia sottintende che lotta antica­pitalistica e realizzazione del socialismo non pos­sano stare insieme, ma siano termini successivi. Giacché infatti se la società socialista è una totalità organica compiuta, essa non può sussistere finché non se ne sono date tutte le condizioni. Nella società capitalistica, concepita come tota­lità contraddittoria, si ritiene invece che ogni sin­gola coscienza non possa che riprodurne le con­traddizioni e che quindi la prefigurazione di forme di organizzazione e di vita socialiste sia una pos­sibilità illusoria. Ciò che conta sarebbe quindi soltanto il portare avanti, in qualsiasi modo, le contraddizioni stesse finché si giunga al supera­mento della società borghese in un tipo di socie­tà nella quale si ipotizza che, essendo superate le contraddizioni, ogni singola coscienza rifletta una totalità veramente organica e unitaria e per­ciò realizzi una completa armonizzazione con le altre coscienze rendendo possibile una forma di vita veramente socialista.

Ora è chiaro che in un tale tipo di società so­cialista non può sussistere un'organizzazione po­tenzialmente contraddittoria rispetto al sistema di potere, tanto è vero che si ipotizza persino la sparizione dello stesso potere politico. Ora però assumere un'ipotesi di questo genere porta con sé delle conseguenze estremamente pericolose, anche in relazione alla stessa strategia anticapi­talistica. Infatti muovendo da quei presupposti l'elemento essenziale della strategia non è l'al­largamento della presa di coscienza attraverso la concreta sperimentazione di forme di organiz­zazione socialista. Tutto ciò può certo essere perseguito, ma soltanto in funzione subordinata rispetto all'obbiettivo della conquista del potere. Ma questa linea rende possibili due soli esiti: o si ritarda l'abbattimento del sistema capitalista, in quanto la realtà di una società diversa non vie­ne compresa e sperimentata e quindi appare al popolo semplicemente utopistica; o si raggiunge uno pseudo-socialismo che viene imposto alle masse dall'esterno. Si tratta cioè di una strategia o inefficiente o troppo efficiente tanto da smarri­re nell'efficienza lo scopo.

Ciò risulta particolarmente evidente in una de­mocrazia borghese come la nostra, formalmente avanzata, a causa delle sue origini dalla Resisten­za. La priorità dell'obbiettivo della conquista del potere implica qui la possibilità di tentare un'ero­sione del potere stesso dall'interno assumendo­ne la gestione in collaborazione con le forze bor­ghesi col rischio di subordinare ad essa l'auto­nomia delle organizzazioni di base, il che impe­disce e frena il potenziamento dei contenuti al­ternativi da esse portato avanti. Inoltre tale par­tecipazione al potere da parte delle forze politi­che che si fanno portatrici degli interessi popo­lari (partecipazione che non è di per sé negativa se significa semplicemente presenza, come op­posizione, nelle istituzioni per favorire migliori condizioni di sviluppo della democrazia) diventa in questo caso autocontraddittoria perché gesti­sce un tipo di democrazia formale e pluralistica che in realtà si pensa di dover giungere a negare: di qui il verosimile rifiuto delle forze borghesi di accettare tale cogestione e quindi il prodursi di una situazione confusa e di stallo, che fa marcire la crisi senza preparare nel movimento gli sboc­chi alternativi e quindi rendendo anche possibili colpi di mano autoritari.

Tali rischi si evitano solo esaltando il momen­to della vita democratica interna dei partiti di si­nistra, e lottando prioritariamente per un sistema di contropoteri, nella fabbrica e nella società, che, mentre costituiscono un attacco alla società borghese, ne indicano anche l'alternativa. Par­lare di un sistema di contropoteri significa, come esemplificheremo più avanti, perseguire l'autono­mia e il potenziamento del movimento di base, tale da fargli superare ogni subalternità, episo­dicità e genericità. Ciò è possibile se il movimen­to si impegna in una vasta, ma unitaria, articola­zione in organismi di base capaci di assumersi e di gestire la problematica specifica propria degli ambiti sociali in cui operano individuando anche gli strumenti di intervento e di lotta. In questo modo meno facilmente il movimento rischia di essere oggetto ad alti e bassi e di essere usato strumentalmente. Così da un lato si approfondi­sce la presa di coscienza politica della base e la sua capacità di attacco al sistema capitalistico, dall'altro si costituisce una dialettica permanen­te fra il potere e gli organismi di base, che prefi­gura la forma di una democrazia nuova, piena­mente realizzata solo quando il potere, non più legato a interessi di classe opposti, non si porrà più come strutturalmente antagonista della base, ma come potenzialmente funzionale ad essa.

 

3. Le nuove esperienze di controllo democratico: successi, difficoltà, obiezioni.

Queste considerazioni generali risultano parti­colarmente pertinenti nell'ambito delle attuali lotte sociali. Qui infatti si stanno delineando ne­gli ultimi tempi con molta nettezza le due oppo­ste linee, anche se sovente esse coesistono nel­le medesime forze politiche e sindacali e nelle medesime proposte.

Citiamo alcuni esempi in cui si delinea positi­vamente una concezione della partecipazione in­tesa come effettivo controllo democratico:

1. Nella proposta di legge del P.C.I. «Istituzio­ne del servizio sanitario nazionale» (n. 2239), presentata alla Camera dei Deputati il 12 giugno 1973, all'art. 13, n. 3, è prevista «la costituzione dei Comitati sanitari locali con funzioni di con­sultazione obbligatoria da parte dei Comuni sin­goli o associati e di controllo delle attività dell'Unità Sanitaria Locale. Il Comitato Sanitario lo­cale deve comprendere in ogni caso le rappre­sentanze dei lavoratori dipendenti e autonomi che debbono essere costituite in modo da assi­curare la partecipazione dei cittadini, nelle forme che saranno ritenute opportune a livello dei ser­vizi di base».

2. Il dipartimento «Sicurezza sociale» della Regione Emilia-Romagna ha inoltrato agli enti lo­cali e alle forze politiche con circolare del 22 marzo 1973 uno schema di statuto dei consorzi intercomunali per i servizi sociali e sanitari. In detto schema, per quanto concerne la partecipa­zione, è previsto quanto segue:

- art. 13 - Al fine di potenziare il controllo popolare sulle scelte politico-programmatiche, che ha la sua espressione fondamentale nella ge­stione sociale dei servizi tramite la partecipazio­ne popolare, è costituito il Comitato di iniziativa popolare, rappresentativo delle forze sociali e sindacali organizzate nel territorio.

- art. 14 - Il Comitato è formato di X compo­nenti designati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti più rappresentative nella zona, di Y componenti designati dalle organizza­zioni dei coltivatori diretti, artigiani e commer­cianti più rappresentative, di Z componenti desi­gnati dalle associazioni dei tecnici che operano localmente nei settori della sanità e dell'assi­stenza sociale, ed eventualmente di altri rappre­sentanti di gruppi o interessi di cittadini nomi­nati dall'Assemblea consorziale in numero non superiore a ...

- art. 15 - Il Comitato è costituito e insediato dall'Assemblea immediatamente dopo l'elezione del Presidente e del Consiglio Direttivo e, nella sua prima riunione, provvede a stabilire le moda­lità del proprio funzionamento.

3. Nello statuto approvato dai comuni facenti parte del comprensorio faentino (comuni di Brisi­ghella, Casola Valsenio, Caste] Bolognese, Faen­za, Modigliana, Riolo Terme, Solarolo e Tredozio) è stato stabilito all'art. 15 «Allo scopo di garan­tire la più ampia consultazione sarà istituito un Comitato di partecipazione popolare, con carat­tere consultivo, rappresentativo dei quartieri, de­gli enti, pubblici e privati, organizzazioni e tec­nici operanti nel settore e delle forze politiche e sindacali».

4. La proposta di legge regionale votata il 22­-3-1974 dal Comune di Settimo Torinese sulla «Istituzione e regolamentazione dei comitati sa­nitari e sociali di zona» (v. Prospettive assisten­ziali, n. 25, pp. 19-25) prevede all'art. 11 che: «Al fine di potenziare il controllo popolare sulle scel­te politiche e programmatiche è costituito in ciascuna zona, su iniziativa delle organizzazioni sindacali più rappresentative, un Comitato com­posto da rappresentanti delle organizzazioni sin­dacali dei lavoratori dipendenti e autonomi e del­le forze sociali presenti sul territorio. Il Comi­tato definisce autonomamente i propri criteri di rappresentanza, partecipazione e funzionamento. Il Comitato deve essere obbligatoriamente con­sultato dagli organi del Consorzio per tutte le materie di competenza del Consorzio stesso. Il Consorzio è tenuto a trasmettere tempestiva­mente copia dei propri atti e ogni altra informa­zione richiesta dal Comitato».

5. La Regione Toscana ha approvato il 5-11-74 una delibera sulla costituzione del «Consorzio per la promozione, il coordinamento e la gestio­ne dei vari servizi sanitari e sociali del compren­sorio di Valdarno Aretino zona n. 55» nella quale si prevede all'art. 18 che: «Al fine di potenziare la partecipazione e il controllo popolare sulle scelte politico-programmatiche e sulla gestione dei servizi, è costituito il Comitato di Iniziativa Popolare, rappresentativo delle forze sociali e sindacali organizzate nel territorio». Tale Comi­tato è composto da rappresentanti dei sindacati, dei coltivatori diretti, degli artigiani, dei com­mercianti, degli operatori sociali, dei cooperatori, degli imprenditori, e di altri eventuali cittadini interessati. L'art. 19 prevede poi che: «Il Comi­tato di Iniziativa Popolare, rappresentativo delle forze sociali e sindacali organizzate nel compren­sorio territoriale del Consorzio, è costituito con funzioni di consultazione, di iniziativa e di propo­sta su tutte le attività sanitarie del Consorzio. Ai rappresentanti designati dal Comitato predet­to deve essere consentito l'accesso a tutti i ser­vizi sanitari del Consorzio onde realizzare un'ap­profondita conoscenza e verifica di tutte le ini­ziative svolte. Il Comitato dovrà essere obbliga­toriamente consultato sui vari problemi attinenti alla salute ed all'assistenza sociale. In partico­lare il Comitato ha facoltà di promuovere lo stu­dio e la rilevazione dei dati ambientali e biosta­tici, di indire assemblee, incontri e dibattiti sui problemi generali e specifici di difesa attiva del­la salute, di concorrere mediante proposte con il Consorzio alla direzione dei servizi sanitari».

Si tratta in tutti questi casi di effettive inno­vazioni legislative rese possibili dalla qualità nuo­va che le lotte politiche sociali e soprattutto sin­dacali hanno assunto in questi ultimi anni. Tali lotte costituiscono anche la sola garanzia dell'efficacia delle nuove misure legislative, che na­turalmente non bastano da sole a cambiare la si­tuazione. In particolare c'è anche qui il rischio che i membri degli organismi di controllo si stac­chino dal movimento o che perdano nei fatti la loro autonomia nei confronti degli organismi di gestione.

Questo pericolo è tanto più incombente nella misura in cui la linea politica del controllo demo­cratico, che si pone in alternativa alla cogestio­ne, anche se ha fatto notevoli passi in avanti, non è ancora assunta, sul terreno delle istituzio­ni sociali, in modo chiaro e pieno dagli stessi sindacati. Infatti l'assunzione di tale posizione avrebbe come conseguenza l'abbandono da parte del sindacato di tutte le iniziative di gestione di­retta di servizi: il sindacato è impegnato in modo massiccio in attività di formazione professionale tramite gli enti ECAP-CGIL, IAL-CISL, ENFAP-UIL; inoltre il sindacato fa parte dei consigli di ammi­nistrazione di molti enti, come ad esempio l'INPS, i comitati provinciali INAM, i comitati provinciali di assistenza e beneficenza pubblica, i consigli di patronato per l'assistenza ai liberati dal car­cere, dei consigli nazionali di amministrazione dell'ONPI e dell'ENAOLI.

L'alternativa fra gestione e controllo nel modo di concepire la partecipazione si è poi eviden­ziata in modo significativo nel dibattito sulla isti­tuzionalizzazione dei Consigli di Quartiere, so­prattutto a Torino. A Torino, diversamente che in altre città, al forte ritardo nell'attuazione del de­centramento si è accompagnato il sorgere di un forte movimento spontaneo nei quartieri, maturo e politicizzato, che in alcune occasioni ha saputo imporre alla Giunta comunale le proprie richie­ste. In questa situazione l'iniziativa della Giunta di deliberare il decentramento ha fatto emergere le contraddizioni (anche se alquanto attenuate per esigenze di unità) nel movimento dei quar­tieri, proprio fra i modi diversi di intendere la partecipazione. Di fronte alla delibera della Giun­ta, che è un chiaro tentativo di svuotare l'espe­rienza autonoma dei quartieri nella misura in cui, mentre istituzionalizza, non dà effettivi poteri agli organi decentrati e non prevede la possibi­lità di forme reali di controllo dal basso, i quar­tieri hanno manifestato orientamenti diversi. Da un lato si è cercato di migliorare la delibera so­prattutto per quanto riguarda l'attribuzione di po­teri reali ai Consigli di Quartiere. È questa la po­sizione del PCI che ha presentato una sua propo­sta di delibera, che contiene sostanziali miglio­ramenti rispetto a quella della Giunta, ma non si differenzia molto da essa sul problema della par­tecipazione. La delibera della Giunta prevede all'art. 28 che il Consiglio di Quartiere debba «porsi l'obbiettivo di sollecitare la partecipazio­ne, la discussione e l'elaborazione da parte dei cittadini, mediante assemblee e commissioni dl lavoro», e dichiara «auspicabili periodiche as­semblee che trasformino i pareri richiesti ai Quartieri in vere e proprie consultazioni popola­ri», e la proposta del PCI prevede che la parte­cipazione si realizzi «attraverso la convocazio­ne, su iniziativa del Consiglio di Quartiere, dell'assemblea del Quartiere», pur precisando che tale convocazione deve avvenire almeno due vol­te all'anno.

Contrapposta a questa posizione si è manife­stata una tendenza spontaneistica volta a contra­stare radicalmente il progetto di istituzionalizza­zione inteso come strumento di ingabbiamento del movimento. Una terza posizione, che a mio parere è la più corretta, ha infine individuato nel decentramento una possibilità di effettiva parte­cipazione, che diventa reale però nella misura in cui non solo agli organismi decentrati vengono attribuiti effettivi poteri, ma anche sia prevista la possibilità del costituirsi di organismi di base autonomi (gli attuali Comitati di quartiere rifon­dati) dotati di effettivi strumenti di controllo e autonoma facoltà di proposta. In questo senso si esprime un documento delle ACLI torinesi del 21-6-1974, nel quale si osserva: «Anche il miglior riconoscimento dei C.d.a. ne cambierà oggetti­vamente il ruolo, affidando loro responsabilità gestionali e di controllo politico importanti ma che caratterizzeranno i consigli di quartiere co­me entità prevalentemente istituzionali assorben­do cospicue quote di militanza. Questi nuovi compiti ne limiteranno nel concreto la possibilità di organizzare la conflittualità sul territorio. Gli stessi compiti gestionali del territorio li porran­no in un rapporto dialettico con le organizzazioni di base che operano nel sociale, come ad esem­pio le ACLI, i Consigli di Zona, gruppi di base, ecc. Occorrerà dunque ristrutturare, andando al­la eventuale formazione di comitati di base auto­organizzati, nuovi momenti di riferimento politico ed organizzativo per le lotte sul territorio come momenti di reale contropotere. Si verificherà così la presenza sul territorio di tre entità organizzate “unitarie”: consigli di quartiere, comitati di ba­se, consigli di zona sindacali... in rapporto fra di loro».

Purtroppo posizioni come questa sono ancora un po' isolate e non hanno trovato molte possi­bilità di realizzazione. Basti pensare che a Bologna, una delle città più avanzate sotto molti aspetti, solo l'anno scorso è stato approvato un nuovo regolamento degli organismi di quartiere nel quale si ribadisce che i consigli di quartiere sono eletti dal consiglio comunale, mentre gli strumenti di partecipazione diretta previsti, e cioè le assemblee, le petizioni popolari e le con­sultazioni popolari, non comportano effettivi stru­menti di controllo sulla gestione del quartiere (v. artt. 29, 30, 31 del regolamento).

Certo in questo come in altri casi si deve tener conto del fatto che la linea da me indicata ri­chiede ancora di essere maturata e che non sem­pre si possono dare in tutte le situazioni possi­bilità di applicarla con successo. Ma in altri casi la linea della partecipazione come controllo de­mocratico viene esplicitamente rifiutata, non tanto magari sulla base delle motivazioni teori­co-politiche esposte all'inizio, quanto piuttosto sulla base di considerazioni tattiche che sono per lo più le due seguenti: da un lato si critica la linea del controllo democratico come sponta­neistica e inefficace in quanto rifiuterebbe di oc­cupare gli spazi di potere che vengono offerti o conquistati, dall'altro si osserva che mentre la cogestione va rifiutata a livello di rapporti di produzione perché non si deve perdere l'autono­mia e l'antagonismo della classe operaia nei con­fronti dell'avversario di classe, altra cosa sono le istituzioni che nella loro potenziale neutralità sarebbero un terreno di scontro aperto in cui è necessario inserirsi per difendere gli interessi della classe lavoratrice.

La prima obiezione dimentica che ciò che è in questione non è lo spontaneismo indiscriminato, ma l'effettiva autonomia delle organizzazioni di base, dai sindacati ai comitati di quartiere. Pre­servare tale autonomia significa poi preservare il proprio effettivo potere. Ciò è dimostrato sul pia­no dei fatti, oltre che dall'esperienza del movi­mento operaio negli ultimi anni, anche da alcune battaglie significative, condotte con maturità ed organizzazione dai Comitati di quartiere «spon­tanei» a Torino, come quella che ha imposto il rifacimento del Piano dei Servizi, col quale erano in gioco la terziarizzazione della città, l'espul­sione da essa di larghi strati popolari, e corri­spettivamente colossali interessi economici. Inoltre, in linea di principio, la corresponsabiliz­zazione degli organismi di base nella gestione del potere o abolisce il controllo e la lotta nella misura in cui diventa occasione di canalizzazione del consenso verso le istituzioni o, nel migliore dei casi, li indebolisce nella misura in cui li pone in necessaria contraddizione con la responsabi­lità del potere.

Per questo occorre forse passare dalla propo­sta di «gestioni sociali» (concetto che contiene elementi di ambiguità) a quello di controllo so­ciale attraverso l'autogestione della propria con­dizione e delle proprie richieste. A questo pro­posito è significativa l'esperienza della gestione della salute in fabbrica (cfr. Prospettive assisten­ziali n. 27, pp. 21-27), dove si è ottenuto che il gruppo omogeneo avesse il diritto di richiedere ai tecnici le ricerche ambientali da esso ritenute opportune e di controllarne i risultati, il che è ben diverso da una corresponsabilizzazione nella gestione del servizio stesso e quindi nella deter­minazione delle condizioni ambientali in fabbrica.

Ciò non significa affatto escludere che le ge­stioni dei servizi e delle istituzioni in genere deb­bano essere democratiche sia per quanto riguarda la nomina e la composizione degli organi di potere come anche per quanto riguarda il modo di gestire il potere. Così può essere opportuno che nella gestione di un'istituzione siano rappre­sentate tutte le componenti dell'istituzione stes­sa, come avverrà ad esempio (pur con tutti i suoi limiti) nella scuola con l'attuazione dei decreti delegati. Ma questo allargamento della gestione diventa inevitabilmente controproducente se non prevede strumenti di permanente ed effettivo confronto dialettico con la base organizzata dei fruitori del servizio e delle forze sociali in ge­nere; assolutamente negativo è invece il fatto che nei nuovi organismi di gestione siano pre­senti anche rappresentanti di organizzazioni di base, quali i rappresentanti sindacali.

Ma con ciò entra in gioco la seconda obiezio­ne enunciata, quella riguardante la neutralità po­tenziale delle istituzioni. Anche qui si tratta di risolvere un equivoco. La cogestione economica va rifiutata non soltanto perché il padrone è por­tatore di interessi di classi opposti. Si potrebbe sempre dare la possibilità del padrone buono o «di sinistra» o neutrale (lo stato), che gestisce l'impresa secondo gli interessi dell'impresa stes­sa, di chi ci lavora e della società (non del pro­fitto). Il difetto fondamentale della cogestione, tanto economica quanto politica, è che essa im­pedisce lo svolgersi di una corretta dialettica fra dirigenza e base, assolutizzando e irrigidendo il rapporto di delega e frenando il possibile auto­nomo processo di autodeterminazione dei propri bisogni e di formazione della volontà politica da parte della base.

Ciò vale tanto più oggi in quanto si manifesta, come accennavo all'inizio, un sempre maggiore intreccio tra l'economico e il politico, in modo tale che l'organizzazione sociale e il suo potere non è mai in parte economica e in parte politica, ma tecnocratica, fondata cioè su una stratifica­zione sociale autoritaria retta dalle leggi dell'ef­ficienza tecnica, che, mentre soffoca qualsiasi istanza di partecipazione, comporta la formazio­ne di nuove condizioni di privilegio (economico, sociale e politico insieme) determinate dalla funzione esercitata nel «sistema» integrato (1). Il problema allora non è più tanto quello di far esplodere una contraddizione tra la sfera econo­mica e quella politica (nella quale sia presente una rappresentanza delle classi lavoratrici), ma di far saltare a tutti i gradi e a tutti i livelli il sistema integrato autoritario. Per raggiungere ta­le obbiettivo è necessario rompere lo stesso ca­rattere di sistema della società tecnocratica e non semplicemente effettuare delle dislocazioni di potere e di privilegio da certe forze politiche o economiche ad altre, anche se ciò è necessario ed essenziale per stabilire maggiori condizioni di uguaglianza economica eliminando anche le sac­che di miseria. Possiamo esemplificare ripren­dendo il caso della gestione della salute in fab­brica, nel quale ciò che i sindacati hanno giusta­mente rifiutato è l'ipotesi di richiedere semplice­mente dei tecnici più illuminati e meno legati al padrone per rivendicare, oltre a ciò, strumenti di autonomo controllo delle condizioni ambientali da parte dei lavoratori stessi. Allo stesso modo e più in generale non basta lottare per una ge­stione più illuminata e popolare del potere, ma per aprire spazi che consentano un'effettiva riap­propriazione da parte delle masse popolari delle loro condizioni d'esistenza attraverso l'uso degli strumenti conoscitivi, il dibattito collettivo e un assetto del potere tale da implicare struttural­mente il continuo confronto con le esigenze po­ste dalla base nella sua autonomia.

Questa prospettiva pone certo dei difficili pro­blemi di attuazione e richiede processi di matu­razione molto lunghi, anche se le nuove espe­rienze del movimento sindacale (consigli di fab­brica e consigli di zona) e quelle di alcuni comi­tati di quartiere indicano che si incomincia a marciare in una direzione nuova. Molto resta in­dubbiamente da sperimentare e soprattutto da inventare, ma la cosa essenziale resta il poten­ziamento del movimento attraverso l'estensione e l'articolazione delle sue forme organizzative: penso soprattutto ai consigli di zona, ai comitati inquilini, agli organismi di base che controllino la gestione dei servizi (dalle scuole, alla sanità, all'assistenza), alle cooperative di produzione e di consumo democraticamente gestite, stando ben attenti ai rischi di settorialismo e di corporativi­smo, che si possono evitare solo mantenendo un costante collegamento tra i diversi movimenti di base. Apparentemente secondario, ma altrettan­to essenziale, è aprire delle lotte per obbiettivi civili e sociali che mirino ad ampliare gli spazi di libertà, di azione e di organizzazione al movi­mento. Si pensi ad esempio all'importanza di un uso diverso dei mezzi di informazione, all'orga­nizzazione del territorio in senso socializzante in­vece che individualizzante, ad un superamento della gestione settorializzata ed emarginante dei servizi sociali.

Si potrebbe obbiettare che avanzando queste proposte il mio discorso cade in una contraddi­zione e cioè nell'ammettere, dopo averlo rifiuta­to, che per realizzare un'effettiva democrazia oc­corre conseguire prima determinati mutamenti strutturali e che quindi non si possono ipotizzare forme di lotta che abbiano la stessa qualità de­mocratica dei risultati che ci si prefigge proprio in quanto la democrazia è il risultato e non il punto di partenza. In realtà non si tratta di una contraddizione, quanto piuttosto di un processo dialettico che cresce su se stesso. L'autonomia del movimento e il suo perseguire obbiettivi di controllo democratico è il presupposto e la ga­ranzia per la conquista di più alti livelli di auto­nomia e per l'allargamento del movimento e della sua forza. Se è vero che solo certe condizioni strutturali rendono possibile la democrazia, è an­che vero che essa non si realizzerà mai se non diventa esperienza interna concreta del movi­mento caratterizzandone l'organizzazione, le for­me di lotta e gli obbiettivi. La questione essen­ziale - occorre ripeterlo - è che forme di lotta e obbiettivi non siano mai in contraddizione: da un lato quindi è scorretto rimandare l'autonomia e la democrazia del movimento alla conclusione della lotta rivoluzionaria, dall'altro è altrettanto scorretto usare strumentalmente il movimento e le sue istanze autonomamente espresse per una lotta che conduca alla realizzazione di una so­cietà in cui si postuli la necessaria integrazione fra il vertice e la base. Nel primo caso si manife­sta una profonda sfiducia nelle persone finendo di fatto per rimandare nell'utopia la realizzazione della democrazia, e si dimentica che la libertà si acquisisce solo esercitandola, nel secondo ca­so si rischia di creare continuamente una frat­tura fra la base e le avanguardie politiche che pretendono di interpretarne le intenzioni «au­tentiche» al di là delle intenzioni «esplicite», e soprattutto si dimentica che solo una società pluralistica nella quale la formazione della vo­lontà politica sia il frutto di una dialettica sem­pre aperta e la più ampia possibile è la garanzia di un pieno sviluppo della libertà e della creati­vità delle persone e della ricchezza della vita sociale.

 

 

(1) Per queste tesi mi richiamo alle analisi di J. Habermas, soprattutto a quelle espresse in Theorie und Praxis, Fran­coforte 1971, trad. it. Prassi politica e teoria critica della società, Bologna 1973.

 

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