Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo
1975
LIBRI
LUIGI CANCRINI, Bambini «diversi» a scuola, Boringhieri,
Torino, 1974, pagg. 275.
Quest'opera di Cancrini
propone un riesame complessivo del problema dei bambini
disadattati, visto non più come esclusiva competenza degli
specialisti, ma della società nel suo complesso e della scuola in particolare.
Partendo da questa tematica e da una serie di stimoli
che nascono da una lunga esperienza pratica, un nuovo modello di lavoro viene
offerto all'Autore dalla moderna teoria generale dei sistemi.
Piuttosto che i metodi convenzionali
della ricerca psicoanalitica, una approfondita
riflessione teorica sulla cibernetica diventa metodo e criterio per una
ricerca sul comportamento del bambino e di quelli che lo circondano.
La definizione rigorosa della ricezione,
della trasformazione, della raccolta, dell'invio di informazioni
da un sistema all'altro e all'interno di un singolo sistema suggeriscono
quell'insieme di regole che governano una situazione interazionale
data; quella del disadattamento scolastico in questo caso.
Non più quindi l'individuo «malato»
costituisce il centro dell'interesse e dello studio dello psichiatra, non più
«le ipotetiche cause della malattia», né il suo ambiente o una situazione
relazionale abnorme; è il comportamento sociale invece che, come tutti i
comportamenti, «diventa una modalità comunicativa in stretto rapporto con il
sistema di cui fa parte».
Disfunzioni (o crisi) della scuola
verranno considerate dunque disfunzioni o crisi di un sistema comunicativo.
Differenze esistenti fra i bambini delle diverse classi sociali assumono allora
una funzione estremamente precisa: «le differenze
segnalate fra bambini provenienti da classi sociali diverse tendono sempre ad
aumentare con il tempo se la realtà psico-sociale in
cui essi sono immersi non viene modificata dai ricercatori» e soprattutto «il
deficit presunto, per ignoranza o malafede, può diventare reale col passar del
tempo se le difficoltà linguistiche del bambino vengono prese a pretesto per la
sua emarginazione da parte di una
istituzione o di una maggioranza che ha potere
sopra di lui».
Ecco dunque ancora una volta
dimostrato che la competenza linguistica «non può esser misurata come un pezzo
di stoffa o come l'altezza di un mobile» e che «i bambini delle classi sociali
inferiori corrono un rischio di un disadattamento scolastico molto più alto di
quello dei loro coetanei più fortunati». In una scuola in cui è sempre
l'insegnante a scegliere gli argomenti rendendo così difficile al bambino proletario l'interpretazione dell'informazione ricevuta,
sarà proprio la scuola, così come è attualmente organizzata, a costituire uno
strumento importante dello status quo
nell'ambito sociale più vasto.
Alcuni dati rilevati dall'Autore lo
confermano: il numero degli anni persi dai bambini in tutta la fascia
dell'obbligo si avvicina al 20% con una media nazionale di bocciatura del 12,2%
che si innalza in Calabria al 23,3% e in Sicilia è del
18,8%, mentre il rischio di uscire dalla scuola prima della fine dell'obbligo è
nullo per i figli di padre laureato. Quando il bambino si adegua ai valori
fatti propri dalla scuola, il rendimento viene
identificato come il comportamento buono; il contrario accade quando il bambino
stenta ad adeguarsi o non si adegua affatto; conclude quindi Cancrini: «Una ideologia
autoritaria ed i comportamenti ad essa collegati corrispondono all'interpunzione
sul bambino cattivo, una ideologia psicologica-assistenziale ed i comportamenti ad essa
collegati corrispondono all'interpunzione sul bambino malato». Nascono le classi differenziali che saranno 5.000 nel
1965, diventeranno 10.500 nel 1970 con 140.000 allievi. Poiché
in Inghilterra sono 77.000 gli allievi handicappati e in U.R.S.S. le scuole
speciali sono frequentate dallo 0,7% dei bambini, è dimostrato con assoluta
chiarezza che in una scuola in grado di funzionare il numero dei disadattati
scolastici diminuisce di colpo così come diminuiscono le richieste ed offerte
di diagnosi psichiatriche.
«Psichiatri e psicologi che avallano
di fronte alla madre e alla maestra l'esistenza di una malattia del bambino spezzano di fatto la tensione che le divide, ma
sanciscono l'esclusione del bambino e ne definiscono il ruolo in modo decisivo».
In questo modo l'Autore denuncia la scuola «come
moltiplicatore delle difficoltà in cui i bambini delle classi inferiori vengono
a trovarsi», e come quella che attraverso i suoi tecnici riconsegna «nelle
mani di una società inesorabile un insieme di problemi aggravati dalle dichiarazioni
di incompetenza e dalle frustrazioni». Nella parte centrale del libro il Cancrini espone puntualmente casi di bambini diversi
analizzati abbandonando il tentativo di spiegazione causale del comportamento
disturbato, ma cercando invece di sapere «a quali sequenze obbligate e ricorrenti
del sistema il loro comportamento si collega».
Aiutato dallo studio della
cibernetica, l'Autore ha la possibilità di considerare il sintomo come
manifestazione di un disagio che non riguarda l'individuo o la sua mente folle, ma il sistema o uno dei sistemi di cui l'individuo fa parte (la famiglia e la
scuola nel caso di Marcello o di Franco). Nel caso di Gianna il sintomo e la
designazione di ruolo della portatrice sono al tempo stesso espressione di
disagio del sistema (la famiglia e la borgata) e strumento del suo equilibrio
(dei genitori).
Uno studio a parte è dedicato
dall'Autore agli istituti. «Sembra infatti possibile
affermare - egli dice - che bambini chiusi in istituto sono, nella maggioranza
dei casi, bambini disadattati dal punto di vista scolastico». Essi infatti incontrano una serie di difficoltà che finiranno
per ripercuotersi sul loro rendimento scolastico: l'istituzione totale,
negando all'internato la possibilità di prendere la distanza dalle regole
proposte da chi detiene il potere, partecipa attivamente alla fabbricazione dei
futuri devianti, così che i canali utilizzati dagli istituti per bambini anormali
per ottenere i loro clienti, sono gli istituti in cui vengono accolti quelli normali.
«Fittizia e irreale (ideologica) -
così conclude l'Autore - è la terapia
dell'individuo considerato isolatamente e se al modello medico individuale si
adegua tutta l'organizzazione attuale dell'assistenza: rifiutarlo significa
muoversi da soli in una direzione nuova e lungo un
cammino irto di difficoltà ».
GIULIANA LATTES
M.L. AUXILIA, A.
CIOCCHETTI, L. FALCO, COMITATO DI QUARTIERE
VANCHIGLIA - VANCHIGLIETTA, Le aree
libere e liberabili in un quartiere di Torino: Vanchiglia-Vanchiglietta, EISS, Via delle Rosine 15, Torino, 1974, pagg.
La ricerca condotta con la
collaborazione del Comitato di quartiere Vanchiglia-Vanchiglietta
da un gruppo di lavoro interno all'EISS, viene pubblicata in un momento in cui
il problema della casa e le lotte per i servizi in diverse città provocano una
riflessione da parte delle forze sociali interessate
sulle misure da prendere per contrastare l'uso capitalistico del territorio, difendendo
il tenore di vita di larghi strati già abbondantemente colpiti dalla crisi.
L'indagine, partendo da serie rilevazioni
sulla realtà urbanistica e socio-economica del quartiere, riesce a darci un
quadro complessivo dei bisogni e dei rapporti intercorrenti fra le carenze di natura urbanistica e di beni sociali e la possibilità
di utilizzare alcuni spazi esistenti all'interno delle attuali leggi per
opporsi alla «città capitalistica».
Il suo obiettivo, come
è chiarito nella introduzione, è quello di fornire ai comitati di
quartiere uno strumento conoscitivo di base, per eventuali interventi sulle
strutture, non solo, ma di costituire una « traccia per analoghe ricerche da
compiere in altre zone da parte di altri comitati di quartiere ».
Dopo aver esposto con un linguaggio
particolarmente comprensibile ai non addetti ai lavori le vicende del piano
regolatore generale di Torino e le successive varianti e l'illustrazione metodologica
della ricerca stessa, gli autori delimitano, fra l'altro, aree riutilizzabili
immediatamente e altre dove è possibile un riutilizzo
a fini sociali a breve e medio termine.
Tutto ciò, assieme all'analisi fatta
sulle caratteristiche della zona con particolare riferimento ai servizi
sociali, consente una visione abbastanza precisa del fattibile all'interno
delle attuali strutture istituzionali.
Le discussioni sull'unità locale dei
servizi, in un discorso generale di riforma dei sistemi assistenziali, assieme
a tutta la problematica riguardante «l'apertura della scuola alla società», attraverso
la creazione dei distretti scolastici e di altre forme
di decentramento istituzionale, diventano tante volte sterili nella misura in
cui mancano elementi di base certi; e l'auspicata programmazione secondo una
coerente politica di piano a livello locale dei servizi, trova, in codesta
indagine, validi elementi di riflessione.
«La varietà e la complessità dei
problemi - sottolineano gli autori - richiedono per
ciascuno di essi soluzioni che potrebbero anche essere contraddittorie tra di
loro se tutta quanta la questione non venisse esaminata contemporaneamente
nei suoi vari aspetti e non soltanto a livello di quartiere, ma considerando
tutto l'ambito metropolitano».
Di notevole utilità, per i non
specialisti, è una appendice che completa il testo «in
cui vengono forniti elementi di base per comprendere gli argomenti trattati».
Il concetto «rendita», ad esempio,
presente, insieme a molte altre voci nell'appendice, è tratteggiato in maniera
tale che i meccanismi economici ad essa inerenti,
almeno nelle linee generali, e le variazioni degli stessi con particolare
riferimento, a livello istituzionale, ai vari progetti di legge (importante
quello dell'on. Sullo del 1962), consentono anche a
chi non ha particolare preparazione di seguire la problematica in atto.
Sarebbe stato opportuno un maggiore
sforzo teso ad analizzare in maniera precisa la situazione di classe nel
quartiere e ad estenderla a tutta l'area metropolitana torinese: compito che comunque non era, in maniera esplicita, negli obiettivi
della ricerca stessa.
Considerata la funzione nuova che è venuto ad assumere negli ultimi anni il «territorio», non
più solo «oggetto» della rendita fondiaria ma anche e soprattutto luogo
privilegiato dell'esigenza delle forze dominanti di controllare e di gestire
il sociale al fine di massimizzare i profitti, sia a livello di rendita urbana tradizionale
sia a livello di «rendita illuminata» (ipotesi Fiat sulle città satelliti,
progetti speciali Fiat, Eni, Montedison, Efim, ecc.), la possibilità di conoscere gli aspetti
complessivi odierni dell'intervento capitalistico sul territorio, è di importanza
fondamentale per le forze che intendono opporsi a tale intervento.
Nella generale carenza
di strumenti teorici e di indagini dirette atte ad impedire eventuali errori
di impostazione, la ricerca, per la metodologia applicata e i reali problemi
analizzati, può servire al lavoro condotto nel sociale in altre città, pur
tenendo presente che è necessario stare attenti alle diversità sostanziali di
struttura di classe e di formazione storica delle realtà territoriali in
oggetto (l'area napoletana ad esempio, è diversa da quella torinese).
Concludendo riteniamo che gli Autori siano
consapevoli, anche se non l'affermano esplicitamente, non solo che il « nodo
della rendita (...) potrà essere sciolto soltanto con una riforma generale
dell'urbanistica che sia tale da separare la proprietà del suolo dal diritto
di usarla per fini speculativi, rendita o profitti », ma anche che i problemi
nodali della città non sono risolvibili se non scontrandosi a livello politico
generale con i piani del capitale. In quanto agli enti locali, ammesso che abbiano la volontà politica di farlo, non potendo
controllare fattori fondamentali di politica economica, come ad esempio la
politica agraria o piani di localizzazione industriale, poco possono fare per
una gestione umana del territorio: però, proprio per la presenza di combattive
e precise lotte di quartiere, possono avviare una politica dei servizi che
tenga conto delle richieste degli utenti.
FRANCESCO VARCASIA
AA.VV., L'istituzionalizzazione del ragazzo deficitario, AAI, Roma, Serie
Sussidi tecnici, n. 23, 1974, pag. 71, Edizione fuori commercio.
Questo studio fa parte della documentazione
nell'ambito dei «sussidi tecnici per i servizi sociali» che - lungi
dall'offrire esemplificazioni o descrivere modelli di servizio - propone una
sintesi delle problematiche attualmente dibattute
sulla istituzionalizzazione dei minori handicappati.
Si tenta così l'approfondimento delle motivazioni che sono alla base dell'attuale rifiuto
dei servizi «chiusi» per i loro effetti di segregazione ed emarginazione del
minore, ma, soprattutto per gli effetti sostanziali che si verificano in confronto
dell'isolamento del problema degli handicappati, considerato come problematica
«a parte» e non completamente integrato in tutto il contesto della politica a
favore della popolazione infantile.
Il problema dei minori handicappati,
infatti, pur se specificamente connotato, non va tuttavia disgiunto dalle
soluzioni che scaturiscono da una corretta e globale
impostazione della politica dei servizi sociali per l'infanzia.
Nel presente testo sembrano, quindi,
poste con sufficiente chiarezza le particolari implicanze che, nel contesto globale, presenta la soluzione
delle problematiche specifiche che non possono non essere evidenziate.
Il significato di tale sforzo di
chiarificazione appare, soprattutto, nell'approfondimento delle affermazioni
di principi-base su testimonianze scientifiche nella voluta problematicità con
cui sono viste le acquisizioni sperimentali. Problematica che lascia ampio
spazio a scelte consapevoli, e, inoltre, apre la via alla individuazione
di una linea di indirizzo valida ai fini di una adeguata impostazione della
politica di programmazione dei servizi, necessaria anche per l'infanzia handicappata,
attraverso il superamento delle condizioni che le sono di ostacolo.
Mentre la prima parte del libro è da
noi pienamente condivisa, la seconda può invece lasciare spazio a interpretazioni inaccettabili, come quella della validità
che avrebbero gli istituti a carattere di internato ristrutturati con
personale idoneo e «aperti» ai servizi esterni.
AA.VV., Proposta di regolamento del servizio delle comunità alloggio,
Provincia di Torino, 1974, pag. 145, edizione fuori commercio.
Partendo dalla premessa ormai nota
che gli istituti per l'infanzia, proprio per il rapporto che esiste tra l'istituzionalizzazione
del bambino e la sua tendenza successiva ad evidenziare difficoltà di ordine emotivo ed affettivo, partecipano attivamente
alla fabbricazione dei futuri devianti, e che è quindi necessario verificare
alcune scelte alternative, il gruppo formato dai dipendenti di vari servizi
dell'amministrazione provinciale di Torino, allo scopo di iniziare la
sperimentazione e la gestione di nuovi strumenti di lavoro, ha proposto un «Regolamento
del Servizio delle Comunità Alloggio». La stesura si è arricchita di una «relazione
di tipo più teorico sulle funzioni e sulle dinamiche
di questo strumento nonché di una analisi benché sommaria, di alcune esperienze
in atto».
Poiché non è facile collocare il
nuovo servizio in un contesto politico-amministrativo
caratterizzato dall'assenza di riforme, esso deve partire da un impegno
politico di ristrutturazione assistenziale centrata sulla prevenzione e che
obbedisca «ai criteri di decentramento nel quadro di un piano di zonizzazione».
Avendo come fine l'integrazione e il recupero del minore e non «la custodia o
il controllo», importante sarà che l'assistito scelga liberamente di far parte
della Comunità e ne venga accettato; importante
evitare lo sradicamento dell'ambiente anche fisico dal quale proviene il minore
che può avere conseguenze negative a livello psicologico; necessaria sarà,
prima dell'insediamento di una comunità, un'indagine sulle caratteristiche
della zona dove la si vuole insediare. Senza possibilità di inserimento
nel contesto sociale esterno, il sistema diventa per gli assistiti artificioso
come il solito istituto.
E qui forse non è abbastanza
rilevato che obiettivo prioritario dell'ente locale come espressione di
volontà delle forze politiche sociali e sindacali, è di evitare la creazione di
nuovi luoghi di ricovero e quindi di evitare che le Comunità-Alloggio
diventino rifugio di casi difficili e quindi selezione di nuovi bambini da
ricoverare mediante il tradizionale intervento assistenziale.
Bisognerà evitare di ammettere i minori per cui è
possibile mediante aiuto economico e non solo economico la permanenza in
famiglia.
Bisognerà tener conto delle
difficoltà dei ragazzi che passano dalla struttura rigida dell'istituto a quella aperta della comunità. Il gruppo degli operatori,
come elemento terapeutico, dovrà saper operare collegialmente
escludendo il rapporto gerarchico, ma pretendendo la collaborazione di tutti
i membri della collettività. Il problema del personale è chiaramente basilare;
dovrà essere specializzato e investito di un ben preciso ruolo professionale.
Accanto al titolo di studio sono indispensabili un periodo di
esperienza pratica e «disponibilità allo svolgimento di una pluralità
di mansioni». Dovrà essere di sesso misto perché nell'ambito della comunità sia
raffigurata sia la figura della madre che del padre,
con qualche educatore più giovane che più facilmente possa raccogliere le
confidenze nel ruolo di amico o di fratello. Lo stato giuridico ed economico degli educatore deve essere curato anche in rapporto ai
contatti esterni con l'équipe professionale di zona
che devono collaborare o consigliare nelle dinamiche terapeutiche con una
impostazione non svalutativa per gli educatori. Onde
evitare «qualsiasi tipo di sclerotizzazione
nell'intervento educativo, i tutori avranno incontri
interzonali per una formazione permanente».
Qui ancora andrebbe meglio chiarito
il significato che può e deve essere attribuito in questo contesto
al professionista e alla sua équipe, sia nella
diagnosi sia nel collegamento con i servizi di zona (mutualistici o comunali).
Alla proposta di regolamento delle
Comunità-Alloggio seguono come allegati: la deliberazione del Comune di
Bologna, quelle delle Amministrazioni provinciali di Ravenna e di Ferrara,
alcune relazioni e documenti su interventi di deistituzionalizzazione.
Chiusure di istituti
ed esperienze iniziate sin dal
GABRIEL D'AMATO, Verso una nuova psichiatria infantile,
Editore IDELSON, Napoli, 1974, lire 8.000.
Discontinuo, con un taglio dei
problemi sovente sorprendente e che sembra tradire una preparazione condotta
più lungo le linee di una esperienza anzitutto concreta
e pragmatica che al riparo delle protettive categorie delle società
accademiche, con un frequente trascorrere lungo un arco di contributi e
metodologie di diverse scuole di psicologia, psicanalisi, psichiatria, filosofia,
antropologia culturale, con frequenti citazioni certe volte corrette, altre
volte riduttive del pensiero dell'autore, ma in ultima analisi colte e
collegate con autentica originalità, Gabriel D'Amato pedopsichiatra
statunitense di Filadalefia ci porta il resoconto
dei problemi e dell'impostazione del trattamento «residenziale» (cioè in un
ospedale di neuropsichiatria infantile) dei bambini affetti da disturbi
emotivi. Ma il libro è soprattutto la storia del tentativo, riuscito, di trasformare un luogo di cura impostato in modo chiuso in
un sistema «aperto» interagente con la comunità, e le sue istituzioni, nella
direzione di un progressivo e reale coinvolgimento e responsabilizzazione
della comunità stessa.
Nell'insieme è un libro importante,
prezioso, senz'altro «nuovo» rispetto ai contributi usualmente provenienti
dagli Stati Uniti, un libro che si raccomanda sia per l'esperienza portata sia
per i traguardi di tipo politico che propone pur partendo da una
impostazione di tipo tecnico e culturale.
Il bambino entro la famiglia, nel
quartiere, nella comunità: è questo il nocciolo del
problema e anche, non a caso, il titolo del 1° capitolo del libro.
Ogni operatore sociale che abbia
maturato in modo sufficientemente concreto e critico la sua esperienza professionale sa che la comparsa di un sintomo in un bambino
segnala l'acutizzarsi di una difficoltà nel rapporto fra i genitori, nella
famiglia e nella sua collocazione nell'ambiente sociale: a questo più vasto
contesto oltre che al bambino deve quindi allargarsi la sua osservazione. È
allora chiaro che il compito dell'operatore non sarà più quello di mettere
delle «etichette» di malattia al soggetto che presento sintomi e neppure
limitarsi ad analizzare le dinamiche «intrapsichiche» della sua personalità,
ma; superando tale ottica, saldare l'«intrapsichico» all'«inter-psichico»
indagando in quale modo la situazione di relazione interpersonale di quel
soggetto si collega al comportamento che chiamiamo sintomo.
Conseguentemente, sul piano della
cura, pur prendendo atto che saranno ancora necessarie per specifiche
situazioni delle istituzioni a internato, si deve necessariamente
tenere conto «... che non è più possibile isolare dalla comunità i bambini
malati per guarirli» e che «... non è più possibile oggi per lo specialista
crearsi dei feudi personali con un loro gergo privato e con esclusione dei non
addetti ai lavori» poiché «i problemi connessi con la questione del trattamento
residenziale sono tutti di gran lunga troppo importanti perché debbano
rientrare esclusivamente nella sfera di interessi dello psichiatra infantile». (Dalla «introduzione» al libro di Gabriel
D'Amato).
E sul piano della formazione: «... formazione
in vista di che?», cioè la domanda fondamentale che in
tutti gli operatori, quando giungono a porsela, mette in crisi l'adesione alla
tradizionale ideologia medica, poiché ne smaschera l'aspetto relazionale
oggettivante.
Con le parole dell'autore
presentiamo infine sinteticamente il contenuto dei vari capitoli del libro:
«Il libro è organizzato in modo da
condurre il bambino, inteso come individuo, lungo un percorso immaginario
dalla sua famiglia d'origine al centro residenziale, questo viene
fatto dal capitolo 1 al capitolo 4, mentre nei due capitoli successivi si
chiede al lettore di mettere in discussione la validità del centro per il
trattamento residenziale come modalità terapeutica. I capitoli 7° ed 8°
trattano dei centri diurni e dei focolari, che fanno prevedere di essere sostituti di gran lunga migliori della vita
istituzionalizzata, nella misura in cui sono parte integrante della cultura del
bambino e dei sistemi della sua comunità. Negli ultimi due capitoli
l'attenzione si sposterà sulle persone che dei bambini si occupano».
GIUSEPPE
ANDREIS
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