Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo
1975
STUDI
MOTIVAZIONI
PSICOLOGICHE ALLA SELEZIONE DEI GENITORI ADOTTIVI
GIANCARLO DURELLI
Nell'iter dell'adozione un posto
molto importante spetta alla selezione dei genitori
adottivi; essa infatti, se ben attuata, ci permette di eliminare tutti gli
effetti traumatici conseguenti al rifiuto del minore.
In questa sede vorremmo esaminare
non tanto i motivi legali e morali che impongono una corretta
selezione (ricordiamo per inciso che lo spirito della legge sull'adozione
speciale è di riconoscere il diritto di ciascun minore abbandonato di avere
una propria famiglia, di dare cioè una famiglia ad un bimbo e non un bimbo ad
una coppia di coniugi), ma le motivazioni psicologiche analizzando gli effetti
traumatici del rifiuto sull'evoluzione di un soggetto con un lo debole e con
una personalità fissata a fasi evolutive preedipiche.
Sappiamo che il bimbo
istituzionalizzato è in genere un bimbo carenziato che molto spesso presenta i sintomi della
patologia abbandonica descritta dalla letteratura. La
scarsità di identificazioni e di introiezioni precoci
dovuta alla permanenza in istituto dove il sostituto materno, se esiste, è
diluito in una miriade di infermiere, suore e personale volontario,
l'incostanza del rapporto oggettuale privilegiato, la non integrazione delle
pulsioni aggressive con quelle libidiche, portano il
bimbo verso un quadro psicologico che si avvicina ai
casi borderline delle psicosi infantili, o alle forme
psicopatiche dominate dalle pulsioni.
L'adozione si inserisce
come elemento terapeutico che tende a ristabilire un equilibrio nel bimbo con
una ricostruzione dei rapporti affettivi di maternage interrotti o mai
esistiti (fase gratificante e di appoggio dell'io) e con uno stimolo
all'autonomia e al distacco graduale dalle figure parentali ormai introiettate (fase frustrazionistica).
Il processo è lungo spesso difficile
e non sempre la prognosi è favorevole poiché certe destrutturalizzazioni della personalità del bimbo istituzionalizzato
sono irreversibili.
Pensiamo però che genitori preparati
appoggiati da tecnici e da gruppi di altri genitori
adottivi possano istaurare validi rapporti affettivi e favorire enormemente il
recupero dei minori istituzionalizzati.
Il bimbo che vive in istituto è costantemente in attesa di una famiglia e noi sappiamo
quanto può essere impressionante e commovente per chi entra per la prima volta
in un brefotrofio esser subito identificato come Mamma o come Papà tanto è
importante questo rapporto; il maternage quale
rapporto affettivo valido con una figura materna e la famiglia quale naturale
supporto a questo rapporto, sono esigenze vitali per il bimbo, e la
letteratura ci descrive casi di apatia fino alla morte quando questi rapporti
erano stati interrotti. (Spitz,
Il primo anno di vita del bambino, Giunti).
Il bimbo che viene
affidato ad una famiglia vede soddisfatto, almeno inizialmente, questo bisogno;
infatti l'attesa dei genitori ha creato all'interno della coppia uno stato di
tensione che l'inserimento del bimbo tende a soddisfare: in un primo momento í
bisogni del bimbo e quelli della coppia sono generalmente identici.
Ma questa identità
di bisogni tende a rimanere stabile solo quando le motivazioni all'adozione
sono principalmente oblative, quando cioè il bisogno
del minore è posto in primo piano perché soddisfa anche il bisogno della coppia
di istaurare un buon rapporto di maternage. In caso contrario, come adozioni effettuate per
risolvere problemi di coppia o per soddisfare bisogni esclusivi di un
coniuge, si passerà dalla fase di accettazione ad una
fase di rifiuto prima contenuto poi sempre più evidente, man mano che ci si
accorge che l'adozione non soddisfa i bisogni, fino nei casi estremi alla
restituzione del bimbo.
Per meglio spiegare la dinamica del rifiuto e la sua connessione con le motivazioni
inconsce portiamo alcuni esempi tratti dalla nostra esperienza clinica.
Caso 1
«A» e «G» sono una giovane coppia di
circa trent'anni sposati da quasi due anni e con una figlia di un anno; hanno
fatto domanda di adozione ed è stato loro affidato un
bimbo «C» di otto anni e dietro loro richiesta, dopo
pochi mesi una bimba «F» di sei anni.
All'inizio non vi sono problemi particolari; «C» è molto intelligente
anche se secondo la mamma un poco pigro, instaura con gli adulti dei
buoni rapporti, gioca volentieri con i bimbi anche se a volte appare un poco
isolato; «F» è invece più irruenta, molto
comunicativa, ma con un non facile controllo delle proprie pulsioni aggressive;
entrambi vengono giudicati dall'assistente sociale
dell'ente come bimbi non particolarmente difficili con i soliti problemi
derivanti dalla permanenza in istituto.
Dopo alcuni mesi nascono le prime difficoltà; «C» si masturba spesso e compie dei tentativi di
giochi sessuali a scuola con i compagni. I genitori sono colti alla
sprovvista, vengono a sapere che anche in istituto «C»
aveva problemi sessuali e che forse aveva subito lui stesso dei tentativi di
violenza in uno dei tanti istituti presso il quale
aveva soggiornato, chiedono aiuto ai tecnici e ricevono una diagnosi di
personalità psicopatica in formazione con prognosi negativa (il quadro
psicopatico è stato valutato esclusivamente come un quadro nosografico
senza considerare le forze dinamiche e le capacità evolutive del bimbo).
I coniugi preoccupati dalla diagnosi,
dopo molti ripensamenti decidono di restituire i due bimbi in istituto.
Osservazioni
I coniugi «A» e «G» hanno voluto
adottare per avere dei bimbi subito e in fretta con due adozioni a distanza di
pochi mesi; inoltre volevano soddisfare un'esigenza nevrotica
alla maternità della madre (a conferma di quanto detto sta il fatto che la
moglie non ha più avuto figli per circa due anni con forti disturbi e
irregolarità nei cicli mestruali, e che, superata questa fase, ha avuto due
figli nei due anni successivi).
Di fronte al bisogno del bimbo si
sono sentiti impotenti ed impreparati ed hanno cercato, per diminuire il loro
senso di colpa, una rassicurazione tecnica che puntualmente è stata data con
una diagnosi categorica.
Fortunatamente si è riusciti a limitare
gli effetti traumatici del rifiuto ed ora entrambi i bimbi hanno
ritrovato una famiglia.
Caso
2
«R» e «M» sono una coppia anziana di buone condizioni sociali sposati da diversi anni; lei ha
45 anni e lui poco più di 50. Sono arrivati all'adozione solo ultimamente per
sanare una situazione matrimoniale che andava sempre
più deteriorandosi; la moglie presenta inoltre una sintomatologia isterica
abbastanza evidente.
Avevano richiesto un bimbo piccolo ma, data l'età del marito, erano stati convinti,
forse molto affrettatamente, per l'adozione di un bimbo grande. Non si
aspettavano comunque la proposta di una ragazzina di
tredici anni «F» già una signorina come spesso ci faceva notare la signora «M» nei gruppi di appoggio
che seguivamo.
«F» è una ragazza molto intelligente
e graziosa che subito si è adattata alla situazione familiare capendone al
volo la dinamica.
Ha instaurato subito un'alleanza con
il padre, che per altro l'adora, ma se tale rapporto può essere considerato
tipico in una fase edipica adolescenziale, è vissuto in modo drammatico e
persecutorio dalla madre che vede nella figlia una rivale e proietta su di lei
tutte le proprie problematiche edipiche non risolte.
Osservazioni
Anche in questo caso le motivazioni
errate stanno portando ad un'evoluzione atipica il rapporto adottivo.
Forse non si arriverà al rifiuto del
minore anche perché i legami con il padre sono molto forti, forse si potrebbe
avere uno sbocco positivo se si potesse agire terapeuticamente sulla madre. Resta il
fatto che la dinamica familiare è costantemente in crisi e che il
rapporto madre-figlia è gravemente compromesso.
Il rifiuto vissuto dal
bambino
Abbiamo prima osservato come il
bimbo istituzionalizzato rimane legato a fasi evolutive arcaiche e raramente
raggiunge un livello fallico, mentre più spesso
l'evoluzione delle pulsioni si arresta a fasi preedipiche.
In questa situazione come vive il
bimbo un rifiuto o forti frustrazioni all'interno della famiglia?
Ci preme osservare che proprio
perché il bimbo non ha potuto operare l'introiezione di uno stabile oggetto
buono, egli non percepisce tale oggetto come dotato di un'esistenza propria ma
solo in funzione del ruolo che gli assegna nell'ambito dei suoi bisogni e dei suoi desideri.
Tutto ciò che accade all'oggetto, è
vissuto dal bimbo sotto forma di frustrazione o soddisfazione; ogni
preoccupazione della madre, le sue malattie, le sue assenze, vengono vissute come rifiuto e abbandono (A. Freud, Normalità e
patologia del bambino, Feltrinelli).
Il rifiuto reale dei genitori si
pone allora, nel vissuto del bimbo, come una conferma di queste sue percezioni;
si rafforzeranno allora i fantasmi persecutori appoggiati da una situazione di
realtà frustrante ed il bimbo sarà sempre meno capace di
instaurare rapporti affettivi positivi, ma tenterà solo di difendersi da una
realtà aggressiva.
Si accentuerà nuovamente la non
integrazione delle pulsioni e la personalità del bimbo facilmente evolverà
verso gravi forme patologiche.
Ma allora è forse illusorio voler tentare
abbinamenti ed adozioni di bimbi grandicelli istituzionalizzati?
Non pensiamo che si debba arrivare a
queste conclusioni ed abbiamo più volte dimostrato come l'adozione e gli altri
interventi analoghi (affidamento, focolari) sono mezzi terapeuticamente
validi anche se a volte debbano essere integrati con
altre forme di intervento (gruppi di appoggio per i genitori, psicoterapia per
i bimbi).
Pensiamo però che una corretta
selezione basata su di un'approfondita indagine delle motivazioni
inconsce, ed una buona preparazione ed appoggio ai coniugi, possano evitare
molti casi di rifiuto e restituzione del minore.
Non desideriamo colpevolizzare
nessuno, pensiamo però che il detto «meglio una cattiva famiglia che un buon
istituto» non sia valido e non debba mai essere preso a giustificazione di abbinamenti non riusciti.
www.fondazionepromozionesociale.it