Prospettive assistenziali, n. 30, aprile-giugno 1975
NON SIAMO I SOLI A
DIRLO
PARTECIPAZIONE, APATIA E CONFLITTO NEI RAPPORTI FRA
CITTADINI-UTENTI E ISTITUZIONI ASSISTENZIALI
(...) Nella realtà rimane in piedi un
insieme di strutture assistenziali arcaiche, repressive, contraddittorie, ma
dotate di una grossa capacità di resistenza, paradossalmente più forti che mai
nella misura in cui, in una struttura socio-economica come la nostra,
complessa e differenziata, l'assistenza diventa un affare che paga, implicando un non indifferente impegno della mano
pubblica (anche se disperso nella miriade dei canali erogativi), garantendo
uno strumento efficace di controllo politico a livello locale, assicurando la
condizione per il permanere di un fitta rete di interessi convergenti o
conflittuali (ma mediabili) tra gruppi politici, istituzioni religiose, categorie
professionali.
Passiamo ora agli aspetti più
centrali del nostro tema.
Di fronte alle strutture assistenziali si definiscono e prendono posizione tre
diversi gruppi sociali; i cui comportamenti sono influenzati e, in diversa
misura, influenzano tali strutture: l'apparato politico-organizzativo della
istituzione, la comunità giudicante, gli utenti.
Il primo gruppo è costituito dall'insieme delle persone che operano all'interno
della istituzione in posizione di decisione politica
ed amministrativa, di esecuzione o collaborazione amministrativa e tecnica,
dall'equipaggio, in altre parole, che
con responsabilità differenziata pilota l'istituzione verso l'adempimento dei
suoi fini. Vi è una tendenza generale, purtroppo frequentemente verificata
particolarmente in questo tipo di istituzioni (più
lontane di altre, come si è detto, dall'area di interesse e
di controllo democratico), quella che vede l'equipaggio farsi esso stesso istituzione, attraverso un processo di
«eliminazione del fine» che implica la perdita di vista degli interessi
sociali generali che l'istituzione dovrebbe servire. Questo processo può
riguardare più nettamente la oligarchia più integrata
ai vertici della istituzione che vede nella espansione delle attività
assistenziali «vistose» (più ospedali, più case di riposo, più collegi ecc.)
l'occasione di aumentare la propria capacità di contrattazione e di controllo o
che tende ad assicurare comunque la sopravvivenza della propria istituzione anche
quando si è naturalmente esaurita la finalità per cui la istituzione è stata
costituita o cerca di estendere la propria fascia di interventi o attraverso la
superprotezione della propria categoria di assistiti o annettendosi altre
categorie.
Ma anche i quadri intermedi delle
istituzioni, tecnici amministrativi, possono essere coinvolti in questo gioco
nella misura in cui subiscono la manipolazione dello «spirito di corpo» o si
fanno tentare dal demone del corporativismo o si chiudono in una visione
rivendicativa settoriale.
Quante battaglie di principio si
sono registrate in questi ultimi anni contro il permanere di questa o quella
struttura assistenziale considerata ormai come
ripugnante alla coscienza democratica ed incoerente rispetto allo sviluppo
delle scienze del comportamento! E certamente in tutte queste battaglie sono stati presenti gli operatori assistenziali; ma tali
battaglie non hanno impedito una diffusa acquiescenza al permanere dello
status quo; spesso si sono accompagnate addirittura ad una collaborazione
attiva alla estensione di pratiche assistenziali inaccettabili. È prevalso un
atteggiamento pessimistico di razionalizzazione di situazioni considerate
immodificabili, l'adattamento alla routine, la rinunzia all'uso di quegli
strumenti di dissenso civile pur resi disponibili dalla evoluzione
del clima politico e sociale del nostro Paese.
(...) Il secondo gruppo è costituito dalla collettività giudicante.
Va detto anzitutto che questa «collettività
giudicante», come espressione sociale globale, è una
astrazione: oggettivamente essa coincide con una classe o con un gruppo sociale
dominante che impone alla istituzione i propri valori-obiettivi e ne giudica la
condotta secondo i propri interessi o, più concretamente, almeno in una società
complessa come quella industriale avanzata, si disarticola in un insieme di
gruppi orientati da valori diversi, forniti, in grado diverso, di potere e
tendenzialmente in conflitto tra di loro. Il fatto che negli anni anche recenti
l'organizzazione sociale delle classi subalterne non si sia posto (e
certamente non era facile porselo nelle condizioni in cui si è gestito in
Italia il conflitto sociale) il problema di coloro che erano
esclusi dal circuito produttivo ha certamente contribuito a mantenere un clima
di omertà intorno alla equazione assistenza-esclusione propria alla cultura
borghese.
Ma ad una analisi
non schematica della situazione non deve sfuggire che, al di là delle
motivazioni ideologiche e di classe, si intravedono ancora, al fondo degli
atteggiamenti con cui la comunità percepisce strutture assistenziali ed
assistiti, modelli culturali universali e particolari più remoti che possono
variare quanto a bersaglio, ma che conservano la loro struttura intrinseca;
ciò particolarmente in una società come quella italiana dove la stratificazione
culturale è piuttosto complessa.
Si pensi alla implicita
distinzione che l'opinione pubblica opera tra «devianti colpevoli» e «devianti
non colpevoli» e quindi alla priorità riconosciuta come legittima nella
allocazione della solidarietà tra questi e quelli; si pensi all'ancora diffuso
atteggiamento, specie nel Mezzogiorno, che vede certi handicap sociali come
«disgrazia» o «castigo di Dio» di cui possono essere alleviati gli effetti, ma
non rimosse le cause ultime.
Certe forme di «diversità», anche
quando non fanno scattare meccanismi colpevolizzanti, sono registrate nell'opinione
pubblica come immagine sociale sgradevole che provocano una anticipazione
culturale della esclusione, consumata poi dalle istituzioni.
Infine il terzo gruppo, quello che richiama particolarmente la nostra attenzione,
gli utenti, i clienti o i consumatori
di prestazioni assistenziali, secondo la varia
terminologia tecnica contemporanea; persone direttamente destinatarie dei
servizi assistenziali o indirettamente (i familiari). (...)
L'influenza degli utenti è naturalmente debolissima e tale perciò da non provocare
effetti modificativi sulla struttura assistenziale, però ne può esasperare le
contraddizioni, dissociarne ulteriormente la condotta, porre alcune precondizioni per il suo mutamento nella misura in cui
riesca a turbare l'equilibrio delle tensioni controllate negli altri gruppi
sociali collocati dentro e fuori la struttura assistenziale.
Le interazioni tra strutture assistenziali ed utenti hanno come componente primaria il
«messaggio» che le strutture trasmettono ai propri destinatari: esso nella sua
più benevola espressione significa: «tu non sei come gli altri, convinciti di
questo, statti al tuo posto e non passerai guai; in più noi vedremo quello che
si può fare per te».
Questo messaggio può tradursi in una
gamma di atteggiamenti comportamenti da parte della
istituzione che può andare dalla vera e propria coercizione e dalla esclusione
alla solidarietà, per la quale l'assistito viene espropriato della stessa
titolarità dei suoi bisogni, sulla base di una mistificatoria opzione tecnica,
e «trattato» perché riacquisti quella capacità di autodeterminazione che la
stessa dinamica assistenziale gli nega di fatto.
Gli atteggiamenti ed i comportamenti
degli utenti sono in una certa misura la reazione
alla logica generale cui si ispira l'istituzione assistenziale e alla sua
condotta.
Possiamo distinguere tre modelli di
comportamenti degli utenti: la apatia, il conflitto, la
partecipazione.
L'apatia che può essere considerato il comportamento prevalente, almeno
in larghe aree del nostro Paese, si esprime come passività di fronte all'intervento
assistenziale: la dipendenza di fronte alla
prestazione assistenziale, quale che sia il contenuto e la sua logica, è
massima; elevata l'indifferenza verso le scelte implicite o esplicite
dell'azione assistenziale, la dipendenza e la subordinazione si estendono
dalla struttura all'operatore spesso percepito arbitro, come persona, di ogni
decisione, mentre l'arco di questo suo potere decisionale viene ampliato sino a
comprendere non soltanto l'ambito amministrativamente
determinato dei compiti dell'Ente, ma ogni e qualsiasi decisione circa il
futuro dell'assistito e della sua famiglia.
L'avvilimento derivante da una
situazione di bisogno e di difficoltà spesso cronicizzata, la rassegnazione
radicata di chi vive in un contesto sociale e
culturale in cui da sempre il potere pubblico si manifesta come forza onnipotente,
imperscrutabile e capricciosa, gli stereotipi accettati o subiti anche in
riferimento alla propria condizione sono i fattori soggettivi alla base di
questo tipo di comportamento, ma va ricordato che questo comportamento può
essere oggettivamente l'unico possibile o il meno antieconomico dal punto di
vista psicologico di fronte alla impossibilità di controllo sulla struttura
produttrice della risposta assistenziale.
L'apatia non esclude comunque il tentativo (che può essere ragionevolmente
dotato di efficacia o del tutto irrazionale) di pervenire ad una sia pur
parziale modifica del proprio stato, di ottimizzare la risposta da parte dell'istituzione
o comunque di procacciarsi un suo più benevolo ascolto: attraverso la professionalizzazione della propria condizione di assistito,
o attraverso la intermediazione clientelare.
Più raro è un
atteggiamento-comportamento di rinunzia rispetto all'intervento
assistenziale (i minorati psichici tenuti in casa, magari in condizione di
drammatico isolamento, i barboni ecc.), determinato da un sentimento di
vergogna sociale o da un più generale rifiuto della società civile, o dalla sostituzione
della procedura assistenziale con l'affidamento a procedure ritenute più
efficaci per la liberazione dal problema (pratiche magiche).
L'altro tipo di comportamento che
troviamo con una certa frequenza è quello che possiamo
definire conflittuale: esso nasce
dalla inaccettazione profonda della propria
condizione di esclusi e di discriminati socialmente, dalla ostilità verso
quelle strutture che sono simbolo e meccanismo insieme di questa
discriminazione, dalla aggressività determinata dalle continue frustrazioni di
cui è costruita la socializzazione assistenziale e da quelle che nascono dalla
stessa sofferenza determinata dall'handicap.
Il conflitto si esprime più spesso a
livello individuale perché l'individuoproblema è più spesso isolato e si sente
solo, scatta in episodi di reazione violenta verbale, ma anche materiale, nei
confronti dei simboli e degli strumenti della istituzione
assistenziale.
Più recentemente abbiamo avvertito
una spinta crescente verso i conflitti collettivi
contro le istituzioni assistenziali e non più consumati soltanto verso
l'espressione esterna della istituzione, ma rivolti verso la stessa logica
assistenziale: ciò sta avvenendo nella misura in cui il bisogno sociale viene
percepito dal suo portatore non soltanto in termini istintuali e psicologici,
ma anche in termini politici. Si tratta certamente di una tipologia di comportamento
non ancora estesa e che riguarda certe categorie e certe aree geografiche
piuttosto che altre, forse non ancora produttiva di effetti
diretti, ma capace di ottenere una disarticolazione della falsa unità della
comunità giudicante e di provocare una presa di coscienza politica del problema
da parte dei gruppi innovativi dentro e fuori le istituzioni.
L'ultimo modello di comportamento
che prendiamo in considerazione è la partecipazione;
essa va intesa nell'economia del nostro discorso non come partecipazione globale e generica, ma come partecipazione effettiva degli
utenti alla gestione dei servizi socio-assistenziali, come concorso alla
definizione e/o realizzazione dei loro canoni di efficienza, processo che viene
definito dalla moderna scienza dell'amministrazione come «partecipazione
pubblico-amministrativa».
Certamente, per non ingenerare
equivoci, va sottolineato che questo particolare tipo
di partecipazione ha come variabile a monte il soddisfacimento in una certa
misura della domanda di partecipazione politica e sociale generale; se questo
non avviene la partecipazione degli utenti alle strutture assistenziali o
diventa una formula esteriore utile ad assicurare una patina di modernità, o
degrada a «partecipazione dipendente» o eterodiretta
in cui i soggetti della partecipazione «manovrano un tram che corre su binari
fissi e lungo percorsi sconosciuti o comunque tracciati da altri».
Se a queste condizioni si aggiunge
che la mancanza di un certo grado di conoscenze specifiche o informazioni costituisce un'altra variabile negativa del processo di
partecipazione degli utenti, ci si rende conto come ne sia difficile la
diffusione e come molte esperienze di partecipazione promosse in questi anni
dal lavoro sociale abbiano spesso contrabbandato forme di partecipazione dipendente
in cui si finiva col far assumere agli utenti, attraverso lo stimolo del loro
spirito di iniziativa, attraverso l'impiego del loro tempo, delle loro risorse
finanziarie, il carico di riparare almeno in parte alla inefficienza
dell'intervento pubblico senza aiutarli a rendersi conto delle basi socio-politiche
di questa inefficienza.
Un'altra forma anomala di
partecipazione è quella rappresentata, almeno nella
massima parte, dalle associazioni di determinate categorie assistenziali. Innanzitutto esse ripetono nel loro configurarsi lo stesso
schema categorizzante e discriminante delle
strutture assistenziali, assumendo come titolo di affiliazione alla «categoria»
un handicap fisico, sensoriale o psichico, proponendosi ciascuna per suo conto
come «aristocrazia» degli assistibili, attribuendosi con veemenza il diritto ad
un trattamento differenziato e totale: un recente documento stilato dalle
associazioni nazionali di invalidi rappresenta un esempio eloquente di questo
atteggiamento.
Va ancora aggiunto che molte di
queste associazioni non rappresentano altro, per la incapacità
di controllo della base sui gruppi dirigenti e per la stessa estrazione dei
dirigenti (imprestati alla categoria dal mondo politico o da quello accademico
e da quello finanziario), che la cattura, in chiave clientelare, di un gruppo
di persone deboli politicamente e socialmente, come singoli, ma non tanto da
non poter ricompensare politicamente (se abilmente aggregati in categoria e
manipolati) chi si assume il compito di agire per loro. (...)
da M. SCARCELLA e E. SGROI, Partecipazione,
apatia e conflitto nei rapporti fra cittadini-utenti e istituzioni
assistenziali, in Igiene mentale, aprile-giugno 1974, pag. 367 e segg.
www.fondazionepromozionesociale.it