Prospettive assistenziali, n. 32, ottobre-dicembre 1975
ATTUALITÀ
ESCLUSIONE,
MAGISTRATURA E LOTTE SOCIALI
FRANCO OCCHIOGROSSO
L'articolo
che segue è un'ampia sintesi di parte della relazione di gruppo, presentata
dalla Sezione Pugliese di Magistratura Democratica al Congresso della
corrente, svoltosi a Napoli dall'11 al 31 aprile 1975.
I problemi della
persona e della famiglia
I problemi della persona e della
famiglia sono stati finora studiati nella sola dimensione privatistica,
come ha ampiamente ribadito la vasta letteratura
giuridica prodotta in occasione della recente riforma del diritto di famiglia.
Per conseguenza, si sono affrontati i problemi riguardanti il nucleo
familiare, esaminandoli esclusivamente dall'interno, cioè
in funzione dei rapporti reciproci tra i suoi componenti. Sono state invece
ignorate del tutto le dimensioni del problema dal punto di vista sociale e -
in senso tecnico - dal punto di vista del diritto pubblico, il cui esame
consente di cogliere più ampi e corretti contorni delle problematiche relative alla famiglia, con particolare riferimento al
fenomeno della esclusione.
Si è, in sostanza, perpetuato il
tradizionale sistema di guardare al problema in maniera settoriale, sistema
certamente favorito dalla rigorosa distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico che, determinando una netta separazione tra i due campi senza alcun
collegamento reciproco, non ha certamente giovato ad
una visione globale di esso.
Il principio cardine che regola la materia dell'assistenza è fissato nell'art. I della L. 17 luglio 1890 n. 6972 (e norme modificatrici), il quale
- malgrado il tempo trascorso - resta il testo fondamentale del settore. Esso
individua i fini delle istituzioni pubbliche di assistenza
stabilendo che essi sono:
a) di prestare
assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità, quanto di malattia;
b) di procurarne
l'educazione, l'istruzione, l'avviamento a qualche professione, arte o mestiere,
o in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico.
A ben vedere, si tratta dello stesso
contenuto (educare, mantenere, istruire) della patria potestà, con l'aggiunta
del richiamo all'inserimento nel ciclo di produzione. È facile, quindi, dedurre
che in base a questa norma viene legalmente riconosciuta
l'esistenza di un potere tutorio sui «poveri», cioè sui più deboli esponenti
del proletariato e del sottoproletariato da parte dei componenti le
istituzioni di beneficenza, le quali sono amministrate da un comitato di
«patroni» e di cui può far parte il «benefattore», in sostanza da parte della
borghesia.
La conferma testuale di ciò è
nell'art. 7 della stessa legge che attribuisce alle congregazioni di carità
(oggi E.C.A.) la cura degli interessi dei poveri del comune e la rappresentanza
legale di essi dinanzi all'autorità amministrativa e
giudiziaria. L'art. 59 della stessa legge elenca, come già si è rilevato,
alcune istituzioni per poveri: istituti di beneficenza, brefotrofi, manicomi,
riformatori ecc. V'è poi da rilevare che, secondo la legislazione assistenziale, «il povero» non ha famiglia: egli è, infatti,
considerato o come singolo (art. 72-78, 78 bis) oppure come gruppo sociale
(«i poveri»: artt. 1 e 7
id.). L'unica eccezione è nell'art. I L. 3 giugno
1937 n. 847, che ha istituito l'E.C.A.: si tratta, però, di un'indicazione del tutto priva di
concreto significato, in quanto non comporta alcun intervento differenziato
rispetto a quelli predisposti per i singoli individui: infatti, famiglia e
individuo sono considerati, in maniera singolare, destinatari di assistenza
generica da realizzarsi con sussidi vari. In sostanza, la
legge n. 6972 del 1890 - che, come si è detto, è fondamentale nell'assistenza
- parte dal presupposto di una riconosciuta inferiorità totale del «povero»
rispetto a chi povero non è: inferiorità economica, inferiorità morale,
inferiorità nei suoi rapporti con la pubblica autorità. Tale presupposto
costituisce la base che giustifica una vera e propria colonizzazione di una
classe sociale sull'altra, la quale viene privata del
potere di autogestire i suoi bisogni familiari e le relative risorse, nonché
della capacità giuridica nei confronti delle autorità. I bisogni personali e
familiari, che nelle altre classi sociali vengono autogestiti
in via privata, ricevono, invece, per quanto riguarda proletariato e
sottoproletariato, una gestione pubblica, che - intesa in termini di beneficenza
- è stata il modo rozzo paternalistico con cui una classe sociale ha
amministrato i bisogni dell'altra e che si perpetua tuttora, anche se viene talora riproposta in maniera più sottile ma
sostanzialmente identica con la tecnicizzazione dei
servizi e con la delega della gestione di essi a favore dei tecnici.
Ed è importante sottolineare
che l'assistenza è frutto della stessa logica che porta all'esclusione: l'una
e l'altra sono facce della stessa medaglia. Tant'è
che le risorse non sono amministrate al solo scopo di rispondere ai bisogni, ma
in funzione delle possibilità di reinserimento o rientro dell'assistito nel
ciclo produttivo, che viene fatto coincidere con il suo inserimento sociale
(1).
La stessa logica è in leggi più
recenti quali il D.L.L. 2 marzo 1945 n. 172 e il
D.P.R. 19 agosto 1954 n. 968 (2).
Sono, pertanto, valide le
osservazioni del Russo, che ha condotto un attento
studio in materia: il chiedere, nella società capitalistica, presuppone già un
rapporto di sudditanza con chi dà; e questo genera, data una generale
«richiesta», un capillarizzato «dare» nei modi voluti
dall'estensore del servizio sociale. Ciò si traduce, su larga scala, in un
efficiente controllo sociale sulle classi subalterne.
In questo modo i fruitori dell'assistenza vengono
legati, data la condizione di bisogno, alla istituzione tramite un mutuo
accordo, secondo cui al ricevere deve corrispondere una incondizionata «
fiducia politica » in chi elargisce il servizio sociale (3).
Questa prospettiva ha permesso e
favorito la proliferazione degli enti di assistenza,
al punto che oggi si fa difficoltà anche ad indicarne il numero, il quale è
comunque rilevantissimo (4).
È certo superfluo soffermarsi sui
criteri, secondo cui è stata ed è gestita l'assistenza. Si
possono senz'altro richiamare le esemplificazioni riportate dalla recente
pubblicistica in materia, tanto rilevanti da non richiedere alcun commento
(5). Ad esse passiamo limitarci ad aggiungere un
esempio di limitate dimensioni, ma non meno significative.
Si tratta del risultato di una indagine svolta nel comune di Molfetta
da una assistente sociale per conto del tribunale per i minorenni di Bari e
relativa all'anno 1974 (6). Si è accertato che dei 130 bambini di Molfetta assistiti da vari enti con ricovero in istituti assistenziali, solo 50 erano ospitati da istituti della
stessa città e, quindi, potevano mantenere con le famiglie rapporti quotidiani.
Ciò, pur essendovi in Molfetta una
capienza in istituti per un totale di 180 posti complessivi. Si è anche potuto rilevare che i bambini provenivano da
quartieri diversi della città con accentuata prevalenza per le zone del
centro, mentre solo 5 bambini provenivano dal quartiere-ghetto, il rione
Madonna dei Martiri. Si è dedotto innanzi tutto che non vi è necessariamente
rapporto tra bisogno e intervento assistenziale e, più
in particolare, che non sempre ad un intervento assistenziale corrisponde un
autentico bisogno; mentre, d'altra parte, non sempre a un bisogno autentico
corrisponde un intervento assistenziale.
Si è dedotto anche che il ricovero
in istituto viene effettuato senza tenere in alcun
conto le esigenze affettive dei bambini e delle famiglie, ma seguendo criteri
diversi e, per lo più, senza seguire alcun criterio, ma in maniera clientelare.
I genitori dei bambini interpellati
nel corso dell'indagine, hanno dichiarato tutti di aver avuto bisogno di
rivolgersi a persone influenti (tra cui parroci, dame di carità, un vescovo e
un sindacalista) per ottenere l'assistenza,
identificata col ricovero, dei figli. Essi, comunque,
non hanno mai potuto scegliere l'istituto al quale affidare il figlio, perché
tale scelta veniva effettuata direttamente dall'ente assistenziale.
Ora, se tutto ciò è vero, ci possiamo
rendere conto che non sono valide certe affermazioni o certe
posizioni politiche assunte in occasione della riforma del diritto di famiglia.
In un dibattito televisivo svoltosi nel marzo u.s., tutti i rappresentanti dei partiti dell'arco
costituzionale furono concordi nel difendere l'autonomia della famiglia dal
pericolo dell'ingerenza del giudice e di ogni pubblica autorità. Illustri
studiosi hanno sostenuto lo stesso orientamento,
parlando significativamente di famiglia sotto tutela con riferimento al
pericolo dell'ingerenza del giudice.
La situazione esposta dimostra che
la famiglia è soggetta a pressioni, a smembramenti, a tutela sin dal 1890 o,
per meglio dire, che ciò avviene per la famiglia povera ed esclusa sicché vi è
il rischio che la difesa dell'autonomia della famiglia,
così come è stata fatta, cioè con riferimento alla sola materia privatistica, significhi spesso - inconsapevolmente o no -
difesa dell'autonomia della sola famiglia borghese e, in sostanza,
perpetuazione dell'esclusione di classe e della soggezione per la famiglia
«povera». Con questo non si vuole sostenere la necessità di ingerire
il giudice nella famiglia (ingerenza che per altro il giudice dei minori già
esercita nella famiglia proletaria o sottoproletaria), ma si vogliono solo
sottolineare le carenze ed insufficienze attuali, aggiungendo che comunque,
sotto una formale autonomia familiare, può talora anche nascondersi
l'affermazione reale del potere di chi, fornendo alla famiglia delle risorse
economiche, si serve di tale situazione per condizionare a suo piacimento
l'autonomia degli altri componenti, decidendo per essi e su di essi.
La magistratura
Se ora passiamo a considerare la
famiglia nell'ambito dell'attività giudiziaria, rileviamo che anche in questa
sede si realizza quella duplicazione di interventi
già evidenziata per i bisogni familiari in sede stragiudiziale. Della famiglia
si occupano, infatti, sia il tribunale ordinario in
sede civile, sia il tribunale per i minorenni.
Non c'è dubbio che questi due
organismi giudiziari siano formalmente predisposti dalla legge per conoscere
situazioni differenti, essendo l'uno chiamato a
decidere separazioni familiari, divorzi e affidamento dei figli; l'altro a dare
protezione ai minori e a disporne l'affidamento come effetto di una pronunzia
di decadenza o di limitazione della potestà dei genitori.
Ma, se si guarda ai risultati, agli
effetti di tale disciplina e si considera il fenomeno nelle sue linee di orientamento prevalenti, si accerta che la realtà non è
nei termini indicati dalla legge, ma in termini diversi: infatti, si nota che è
per lo più la borghesia che si rivolge al tribunale ordinario e che, grazie
alla presenza dei difensori, grazie all'uso più largo della separazione
consensuale omologata e, comunque, ai più limitati poteri di intervento del
tribunale ordinario, finisce per gestire in modo relativamente più autonomo
(anche se non necessariamente più giusto o corrispondente all'interesse dei
figli) anche il momento patologico della vita familiare. Al contrario, l'immediatezza
del rapporto cittadino-giudice conseguente alla facoltatività della presenza
dei difensori e, in concreto, alla loro quasi totale assenza; i più ampi
poteri di intervento del giudice dei minori
(trattandosi di giudizio di volontaria giurisdizione); la mancanza di spese
giudiziarie; la rapidità delle decisioni conseguente alla mancanza di forme e
di contraddittorio tecnico, fanno sì che chi è più bisognoso e privo di
protezione, e cioè chi appartiene alle classi subalterne, si rivolga al
tribunale per i minorenni, il quale, in tal modo, grazie anche ad alcuni
orientamenti giurisprudenziali consolidati (7), finisce per disciplinare,
soprattutto con riferimento all'affidamento dei figli, gran parte delle separazioni
di fatto tra coniugi «poveri».
Non è un caso che il tribunale per i
minorenni abbia acquistato importanza sia nel mondo
giudiziario che nell'opinione pubblica soprattutto dopo l'entrata in vigore
della legge sull'adozione speciale (L. 5 giugno 1967
n. 431), e cioè solo quando - come si è giustamente rilevato da Cappelli-Cividali (8) - la borghesia si è decisamente avvicinata
al tribunale dei minorenni sotto la specie di coppie di coniugi, che
proponevano domande di adozione. Si spiega allora che la legge sull'organico
dei magistrati minorili sia stata promulgata solo nel 1971, e cioè ben 37 anni dopo l'istituzione dei tribunali per i
minorenni.
Non c'è dubbio quindi che la
magistratura minorile sia a costante contatto con il fenomeno della esclusione sotto un duplice profilo: da un canto per
il tipo di «clientela», che per lo più le si rivolge (minori delle classi
subalterne), dall'altro per il tipo di risposta che a tali bisogni essa dà o è
costretta a dare per l'impossibilità di interventi alternativi (ricovero in
casa di rieducazione, collocamento in istituto assistenziale previo
allontanamento dalla famiglia, ecc.). Ed è interessante rilevare la costante
contraddizione che vive questa magistratura, la quale, mentre da un lato proclama
di ispirare la sua azione all'esclusivo interesse del minore e afferma di dover
essere «parziale» in tal senso, dall'altro ha svolto e continua - nella sua grande maggioranza - a svolgere interventi
obiettivamente emarginanti per i minori; finendo essa stessa per far parte di
quel sistema, che, mentre consente l'autogestione dei problemi familiari della
borghesia, gestisce direttamente e in modo tradizionalmente paternalistico e
repressivo i bisogni minorili delle classi meno abbienti.
Oltre alla magistratura minorile ci
sono altri settori della magistratura che vengono a contatto con il fenomeno
dell'esclusione: così il giudice di sorveglianza penale, sia in rapporto all'espiazione
della pena, che all'applicazione delle misure di sicurezza (in
particolare manicomi giudiziari), il giudice che autorizza il ricovero
in ospedale psichiatrico e ne dispone le dimissioni e, in modo diverso, anche
il giudice del lavoro (qui va esclusivamente intesa solo come esclusione di
classe non come isolamento in una istituzione totale).
Ciascuno di questi problemi è giunto
volta per volta all'attenzione dell'opinione pubblica e ciò è stato talora
merito di magistrati avanzati (in tale prospettiva si pongono le indagini sugli
istituti assistenziali per minori svolte nel 1971 dal
giudice tutelare di Roma e, altrove, da diversi altri magistrati minorili; le
vicende dei magistrati «scomodi» sia come giudici di sorveglianza che come
giudici del lavoro (9); talora è stato invece merito di altri gruppi di
operatori politicizzati (psichiatria democratica).
Tutti questi problemi costituiscono
indubbiamente aspetti diversi di una unica realtà,
che è l'emarginazione. Ma sembra di poter rilevare che finora ciascuno dei vari
aspetti ha costituito oggetto autonomo di attenzione:
è mancata cioè una visione globale e unificante del fenomeno esclusione in
rapporto alla magistratura. Si apre in questa linea una problematica di
dimensioni molto ampie, diretta a cogliere tutti i momenti di
analogia del fenomeno nelle diverse realtà escludenti: in questa sede si
può solo suggerire la opportunità che essa sia oggetto di approfondimento. Ci
si può, invece, qui limitare a cogliere qualche aspetto più evidente del
rapporto magistratura-esclusione. In tutte queste situazioni v'è una realtà ambientale,
che limita gravemente l'autonomia dell'individuo o, comunque, in qualche modo
lo emargina. Ma vi è in tutte queste realtà anche la presenza di un giudice che, secondo la formula tradizionale, viene chiamato
dall'ordinamento a difendere il diritto del singolo sia nel senso di verificare
se sussistono le condizioni perché debba subire le limitazioni personali
derivanti dall'ingresso in carcere o in manicomio ecc., sia nel senso di
seguire il soggetto nell'ambito della istituzione totale. Nella sostanza, si è
ormai acclarato che l'intervento del giudice è qui lo
strumento necessario al sistema per giustificare sul piano formale
l'intervento repressivo e per legittimare l'emarginazione nelle istituzioni.
È tuttavia da rilevare che il ruolo
del giudice, quale in questa realtà si delinea viene
anche formalmente riconosciuto, non è quello tradizionale del giudice neutrale
al di sopra delle parti, ma, invece, quello di un giudice inserito in una realtà
sociale emarginante e dichiaratamente posto «a difesa» del più debole (sia esso
di volta in volta il minore, il malato di mente ecc.). Questo potrebbe essere,
forse, il primo concreto realizzarsi di quel ruolo del giudice posto a difesa
del più debole, che da tempo è stato delineato e proposto
da M.D., se, ovviamente, il giudice fosse disposto a
una difesa sostanziale e non meramente formale dell'escluso e riempisse,
quindi, di un contenuto valido quello che oggi è per lo più un mero ruolo
formale.
Vi è da aggiungere anche che di
questi ruoli solo quello più recente, cioè quello del
giudice del lavoro, si fonda e si collega strettamente a lotte sociali e a
conquiste legislative dei lavoratori (statuto dei lavoratori); gli altri hanno
una origine diversa (il giudice minorile nasce in piena epoca fascista) e sono
del tutto scollati dalle lotte sociali e dal mondo sindacale. In questa sede ci
si vuole soffermare più dettagliatamente su uno di questi momenti di
collegamento della magistratura con l'emarginazione e precisamente su quello relativo ai minori e alla magistratura minorile: ciò sia
perché questo settore è quello più noto a chi ha redatto questa relazione e vi
opera da tempo, sia perché in esso si sono costituite situazioni peculiari non
riscontrabili in altri settori degni di attenzione.
La magistratura
minorile
Gli studi che si sono occupati della
magistratura italiana non si sono soffermati a
considerare il fenomeno atipico della magistratura minorile. Si tratta di un
fenomeno atipico, perché questa magistratura si è sempre più venuta ponendo come una magistratura nella magistratura. A
differenza di tutti gli altri magistrati, i giudici minorili hanno costituito
un'associazione autonoma con il nome di associazione
giudici minorili - il quale ha sostituito da qualche anno quello precedente di
unione giudici minorili -, che pubblica un suo bollettino (10) e che non si
limita a favorire i rapporti interni tra magistrati operanti nello stesso
settore, ma si pone come tale anche all'esterno, in quanto instaura rapporti
con il consiglio superiore della magistratura e con enti, partecipa a convegni
presentando suoi documenti: realizza - in sostanza - una «politica» sua
propria, sia pure limitata alla materia minorile, ma del tutto avulsa da quelle
delle associazioni nazionali di magistrati italiani (A.N.M. e U.M.I.), con le
quali, anzi, ha un rapporto di totale, reciproca ignoranza, anche se poi i
magistrati minorili sono iscritti come gli altri anche ad una di queste
ultime.
La presenza della magistratura minorile
all'esterno, la sua «politica», si è evidenziata soprattutto negli ultimi
anni in occasione di lotte per la conquista dei diritti civili: si possono
ricordare efficaci interventi svolti da magistrati minorili in occasione del
referendum del 12 maggio 1974, diversi contributi per la riforma del diritto di
famiglia, molteplici documenti presentati a convegni
(11). E non c'è dubbio che gli orientamenti espressi conseguenti alla
specializzazione del giudice, segnino certamente un notevole progresso nello studio delle problematiche minorili e uno stimolo
alla discussione sul ruolo del giudice. Vi sono tuttavia molti motivi di
dissenso, che esporremo tra breve.
Consideriamo come il giudice
minorile vive il suo ruolo e guarda alla realtà su cui opera: il che si desume
facilmente dai suoi scritti.
La figura del giudice è vista come
un servizio alla famiglia. Si rifiuta, cioè, il
giudice neutrale, imparziale, freddo e distaccato delle cause civili e si
propugna il giudice minorile come colui che svolge «un ruolo di avvicinamento
della parte, di persuasione, di chiarimento civico della responsabilità che
incombe al genitore, di continuo assorbimento delle tecniche e dei giudizi
ambientali e sociali e soprattutto di penetrazione, attraverso i parametri
psicologici, della personalità dei soggetti», che ha un ruolo «dinamico e
attivo», che svolge «un servizio e non compie un atto autoritario» (12). Si
precisa che il giudice minorile ha un'unica competenza, quella del diritto
all'educazione del minore, diritto «la cui tutela la società non può affidare
che ad un magistrato specializzato, essendo evidente che non è più ipotizzabile
il suo affidamento esclusivo o ai genitori o ad altri gruppi, essendo tale
diritto il presupposto di ogni altro diritto e in
particolare dei diritti di libertà nei quali si radica la dignità, lo stesso esistere
di un cittadino libero» (13). Si propugna, cioè, il
ruolo del giudice minorile come giudice «parziale» a favore del minore, come
promotore dei diritti del minore, come giudice «diverso».
Ciò che, tuttavia, suscita notevoli
perplessità è, da un canto, la mancanza di una visione globale del problema relativo al ruolo del giudice, effetto forse della settorializzazione del problema con la limitazione alla
sola dimensione minorile; dall'altro, la mancata considerazione, nelle analisi
del problema, della realtà classista della nostra società.
Si delinea,
come si è visto, un giudice «nuovo», un giudice promotore di diritti del
minore: ma questa figura diversa di giudice non rinviene da un'analisi sociale
della realtà globalmente considerata e non viene ritenuta un modello valido
per il giudice «tout court» in qualunque settore egli operi: non si propugna,
insomma, la necessità di un giudice promotore dei diritti del cittadino più
debole, che in questo caso è il minore, ma in altri potrebbe ben essere il
malato di mente, il detenuto, in una parola l'escluso. Questa nuova dimensione
del giudice è, invece, considerata un mero effetto della specializzazione del
giudice minorile ed un modo per distinguerlo dal giudice degli adulti, il cui
ruolo attuale (pur criticato con riguardo alle decisioni in materia familiare
per la mancata specializzazione, di cui ha dato talora prove evidenti e
clamorose) non viene assolutamente discusso, ma è anzi
pienamente accettato. Si è detto, infatti, che molti giudici minorili sono
stati portati «a distinguere in maniera sempre più
netta la giustizia dei minori da quella degli adulti. Ma ciò costituisce un
grave pericolo per la società, giacché, nella misura in cui il giudice minorile
ritiene di realizzare i propri obiettivi separandosi dal corpo giudiziario,
il suo atteggiamento sarà percepito dall'opinione pubblica come palese
riprovazione della giustizia degli adulti, del suo stile, dei suoi obiettivi e
dei suoi mezzi...» (14).
L'effetto esterno più rilevante di
questa situazione è il notare la diversa collocazione
che alcuni giudici minorili possono assumere a seconda che affrontino
problemi giudiziari generali o problemi minorili: si riscontrano, infatti, situazioni
palesemente contraddittorie di alcuni giudici minorili, che nel loro settore
svolgono un ruolo estremamente avanzato, mentre allo stesso tempo si collocano
nella corrente più conservatrice dell'A.N.M.;
situazioni opposte a quelle di altri che, avendo posizioni di retroguardia sui
problemi minorili, si collocano in posizioni sufficientemente avanzate
nell'ambito dell'A.N.M.
D'altra parte, il ruolo di promotore
di diritti del minore, affidato al giudice, è solo un'affermazione teorica
priva di contenuti concreti, perché, mentre si attribuisce al minore il diritto
all'educazione, diritto «che si estrinseca non solo
nei confronti dei titolari della patria potestà..., ma anche nei confronti
dello stato» (15), si precisa poi che «la promozione del diritto del minore... non
postula la individuazione di «specifici diritti azionabili da parte del
minore, ma piuttosto la rimozione di tutti gli ostacoli che ne limitano o ne
condizionano l'armonico sviluppo della personalità. Ciò, è ovvio, richiede da una
parte la partecipazione attiva della collettività perché possano rendersi
efficienti ed attuabili le risorse comunitarie di base, dall'altra una effettiva e concreta volontà del potere politico perché
si provveda alla creazione delle strutture necessarie e sufficienti per lo
sfruttamento di tali risorse» (16). Ciò vuol dire, in sostanza, che il diritto
all'educazione potrà realizzarsi solo quando il potere
politico lo vorrà e che il giudice minorile si limita ad un mero auspicio
verbale in tal senso.
Pertanto, una idealizzazione,
una mitizzazione teorica del ruolo del giudice minorile (teorica, perché trova
limitatissimi riscontri nella realtà dei nostri tribunali minorili) ha portato
all'isolamento di questo giudice sia rispetto alla totalità della
magistratura, nei riguardi della quale non si pone neppure in posizione
dialettica; sia rispetto alla società che non accetta, come si è innanzi
rilevato, il giudice quale tutore del diritto all'educazione del minore.
Ma motivi di
perplessità, come si è detto, sorgono anche dalla mancanza di considerazione
della realtà classista della nostra società. L'analisi che è a monte degli orientamenti della magistratura minorile è
equivoca: dire che il giudice deve compiere una scelta di campo a favore del
minore non significa dire che il giudice deve compiere una scelta di classe.
Anzi, il porre sullo stesso piano il minore che nasce
nel proletariato con quello ricco; il porre sullo stesso piano e
colpevolizzare allo stesso modo il genitore abbiente e quello povero significa
assumere una posizione interclassista, che acquista il preciso valore di una
scelta di classe a rovescio.
Si è detto
che «non si trovano famiglie più fortemente segnate dalla spinta
all'accumulazione, all'identificazione economica, che le famiglie degli
immigrati meridionali nei centri di più avanzata industrializzazione. In esse i figli non esistono più, si trasformano in pesi
sempre meno accettati, perché condizionano la possibilità di svolgere lavori
remunerati o in mezzi, macchine da poter usare per aumentare gli introiti
familiari. Le famiglie di ogni ceto, quindi, sono
ugualmente avvelenate: ciascuna delle nostre famiglie, nessuna esclusa» (17). Ma ciò significa trascurare che proprio il povero è il più
esposto al bombardamento consumistico, a cui è sottoposto e di cui diviene
vittima con le conseguenze indicate, appunto perché ha minori capacità
critiche, minore spazio di scelta, di dire di no rispetto al non povero.
Significa voler ignorare le risultanze poste in
evidenza dalia psicologia della povertà che, come si è detto, pone il problema
in termini di psicopatologia.
Ed ecco allora che anche altre
posizioni possono divenire discutibili. Così, ad
esempio, quando in sede di applicazione della legge
sull'adozione speciale si rileva che la legge non vuole essere un mezzo
classista di espropriazione dei figli dei poveri in favore delle famiglie
abbienti (18) si fa un'affermazione solo parzialmente vera, perché non c'è
dubbio che i minori adottabili sono tutti figli di poveri e non si conosce un
solo caso di figlio di «ricchi» (pur con famiglia disgregata), per il quale
questa legge sia stata applicata. Né può valere rilevare che, in caso di
mancata adozione, questi minori resterebbero in istituti «affidati alle
amorevoli cure della Pagliuca di turno», (19) perché
è agevole rispondere che per la grande maggioranza
dei bambini istituzionalizzati non vi sono condizioni per procedere
all'adottabilità - così, per i figli di emigranti (i cd. orfani di frontiera),
per i tanti orfani di un solo genitore o figli di malati di mente ecc. -, onde
la soluzione del problema non è certo in una maggiore efficienza applicativa
dell'adozione speciale (20), ma nell'abolizione degli istituti e nella
creazione di un sistema che dia adeguate risposte ai bisogni primari di tutti i
cittadini minori e adulti.
Quando poi si individua
il concetto di abbandono colpevole dei genitori nella loro «ignavia ed
irresponsabilità», accertabile mediante il confronto della loro condotta con
quella di altre persone di analoga condizione economica e nelle stesse
condizioni di sviluppo psichico e culturale (21), si adotta un criterio
estremamente equivoco. A parte, infatti, la difficoltà di individuare dei
termini di confronto realmente validi, v'è da aggiungere che, comunque, una tale dimostrazione sarebbe scarsamente
significativa. Tanto per fare un esempio chiarificatore, consideriamo il caso
di due giovani che abbiano trascorso molti anni della
loro infanzia in istituto, subendone certamente dei danni psichici, ma in
misura diversa. Ora, quando di questi giovani, divenuti adulti, l'uno, a
differenza dell'altro, avrà un comportamento irresponsabile verso il figlio, si
potrà considerarlo tranquillamente genitore colpevole e procedere alla
dichiarazione di adottabilità
di suo figlio?
Più in generale ci sembra che in tal
modo si finisca per colpevolizzare il genitore povero, frustrato dalla realtà
che vive quotidianamente, reso incapace di assolvere il suo ruolo con il rischio
che la vittima di una condizione sociale sia
considerata responsabile verso il figlio del suo essere povero e, quindi,
incapace, cioè di cose che certamente non ha voluto. Certo il problema richiede
una soluzione che tuteli i minori anche in questa situazione; ma essa non è certo l'adozione.
Ancora, quando si sollecita l'intervento
sempre maggiore della comunità nei problemi familiari e dei minori dando
rilievo positivo a quanto in tal senso avviene in
altri Paesi, si afferma un principio teoricamente valido, ma si trascura che la
nostra non è una comunità di eguali e che in tale realtà molto spesso avviene
che i bisogni di una famiglia abbiente vengano risolti a spese di quelli di una
famiglia proletaria: non raramente é possibile verificare che delle madri
siano indotte a lasciare i figli in istituto per poter svolgere il lavoro di
collaboratrici domestiche a tempo pieno o con orari molto faticosi presso famiglie
borghesi le quali non accettano presso di loro il «figlio della domestica»: in
sostanza, costoro rinunziano ad assolvere alle esigenze familiari proprie per
risolvere i problemi analoghi di una famiglia borghese. Non c'è dubbio che sia
particolarmente difficile da noi capovolgere una tendenza che è, d'altra parte,
coerente con il nostro tipo di società.
Infine, la mancata scelta di classe
e la non accettazione dell'analisi fatta nei paragrafi precedenti, può
condurre a considerazioni paradossali, che sfiorano atteggiamenti razzisti. Un
esempio significativo in tal senso è nella relazione
annuale sullo stato della giustizia edita dal consiglio superiore della
magistratura nel 1971. Essa, dopo aver rilevato che la delinquenza minorile si
è andata riducendo nelle regioni meridionali e centrali per aumentare in quelle
settentrionali, osserva: «pertanto si potrebbe essere indotti a ritenere che il
fenomeno dell'aumento dei reati minorili in zone - quali le regioni del
cosiddetto triangolo industriale - che si configurano come aree di forte
immigrazione di popolazioni provenienti dal Mezzogiorno, sia da collegarsi proprio
alla maggiore e crescente presenza di meridionali nelle regioni in
questione... Comunque, sembra da escludere che il
fenomeno dell'aumento della criminalità minorile nel nord sia imputabile ad
una maggiore disposizione a comportamenti devianti da parte del giovane
meridionale; il fenomeno invece va visto nel più complesso quadro delle
difficoltà ambientali e dei problemi di inserimento culturale e sociale oltre
che economico;... ma è dubbio che il
fenomeno stesso sia imputabile ad una presunta maggiore predisposizione a
comportamenti devianti da parte del giovane meridionale». (22).
In sostanza, resta il dubbio che il
giovane meridionale sia costituzionalmente più portato al delitto del giovane
settentrionale!
Tutte queste considerazioni tendono
ad un unico scopa, a fare rilevare che un'esatta
analisi dei problemi dell'uomo e, in particolare, del minore, non può farsi se
non si corregge l'angolo visuale dal quale essi vengono visti; non potendosi
prescindere dalla diversa situazione in cui versa il minore povero rispetto al
ricco. Perché, se è certo importante la difesa del minore a livello
dei diritti civili (cioè, nell'ambito di una diversa impostazione dei concetti
di genitore e figlio e dei rispettivi rapporti) è certamente ancora più importante
la difesa del minore sul piano sociale, quella cioè del minore povero e quindi
più bisognoso di protezione rispetto a quello appartenente a famiglia
abbiente.
Lotta all'esclusione
come momento dello scontro di classe
Indubbiamente, il mancato approfondimento
dei problemi minorili nella loro più autentica dimensione sociale, è dovuto anche al fatto che l'assistenza non è stata terreno
di lotte sociali. Se si escludono le esperienze - peraltro limitate al solo
livello regionale - svolte a Torino a partire dal 1971
dalle confederazioni sindacali, si può senz'altro dire che il problema non è
stato decisamente portato avanti né dalle forze sindacali né dalle forze
politiche avanzate.
Ma anzi - quel che più rileva - in alcune regioni non vi è stata neppure una presa di coscienza
di esso da parte di tali forze: partiti e sindacati sono tutti nella stessa
posizione, che induce a risolvere con l'istituzionalizzazione ogni tipo di
bisogno dell'individuo, a cui la famiglia non sia in grado di rispondere
direttamente.
Per quanto riguarda
Tali posizioni, che talora sono
conseguenza di mancata presa di coscienza, favoriscono per lo più chi ha una
precisa volontà politica, intesa a non innovare nulla e a sostenere i vecchi e
superati sistemi di intervento, grazie anche all'appoggio
più o meno esplicito di operatori tecnici.
Con il programmato rafforzamento
tecnico di varie strutture, si va sempre più delineando
una psichiatrizzazione della assistenza, che per
altro non è neppure orientata verso servizi aperti.
Le ragioni di tale situazione sono
probabilmente varie. Da un lato, certamente la necessità per
le forze sociali di dare gradualità ai problemi da affrontare. Peraltro,
non si può non sottolineare che la logica di questa
gradualità la quale dà priorità assoluta ai problemi del lavoro e modesto
rilievo alle lotte per i bisogni primari dell'uomo (tradizionalmente indicati
- appunto dall'angolo visuale del padrone - come i problemi dell'«assistenza»)
non è diversa dalla logica capitalistica (che evidentemente le forze sociali
subiscono), la quale dà il massimo rilievo al momento della produzione e
considera parassitaria ogni situazione, anche umana, non inseribile nel sistema
produttivo.
Sarebbe auspicabile invece, che -
almeno a livello di presa di coscienza e di impostazione
programmatica - da parte di tali forze si operasse una rivoluzione
copernicana: in una società a misura d'uomo, va considerato prioritario su ogni
altra cosa il pieno sviluppo della personalità di ciascun cittadino, la tutela
della sua salute nel senso più ampio. I termini del discorso, quindi,
dovrebbero essere capovolti sì da considerare ogni attività e anche il lavoro
in funzione dell'uomo e non l'uomo in funzione del
lavoro. Si potrebbe allora accertare probabilmente che tante persone abuliche
o in qualche modo disadattate sono soggetti che non
hanno pienamente realizzato la loro personalità, perché non hanno avuto una
tempestiva ed adeguata risposta alle loro esigenze personali primarie. Sarebbe
forse possibile verificare anche che tante persone di scarso
rendimento nel lavoro sono solo frustrate, perché costrette a svolgere un
lavoro non accettato né gratificante.
Tuttavia alla
situazione attuale contribuiscono certamente altre ragioni. Così il fatto che gli esclusi non
sono spesso in grado di manifestare direttamente le
loro esigenze (così i minori, i malati di mente ecc.) fa sì che siano altri ad
assumersi il compito di rappresentarne all'esterno i bisogni, altri - per lo
più genitori o familiari - che spesso non hanno identità di interessi con loro.
Basta fare riferimento ai tanti casi di genitori che insistono per ottenere il
ricovero del figlio in istituto assistenziale o,
peggio, in casa di rieducazione contro la volontà del figlio. Forse proprio per
questa ragione la lotta contro l'emarginazione è stata talora iniziata e
gestita da tecnici - così, ad esempio, è avvenuto per Basaglia
- piuttosto che dalle classi sociali direttamente
interessate.
A questo punto il discorso si pone
in termini di lotta all'esclusione come uno dei livelli dello scontro di classe. Il superamento dello stesso concetto di assistenza si può realizzare soltanto con l'autogestione
dei propri bisogni familiari da parte delle classi subalterne, che ne sono
destinatarie. In tal senso i progetti di riforma dell'assistenza che prevedono
la realizzazione di servizi sociali partecipati sono solo
un piccolo passo. Occorre peraltro avere ben chiaro il concetto di autogestione come tutela autentica del diritto del più
debole, per evitare che autogestione possa, invece, essere intesa come
sostituzione nel ruolo di «benefattore» di una classe all'altra.
Per promuovere la realizzazione
di tali prospettive si potrebbe mutuare il metodo già sperimentato nel
settore sanitario (proposto anche da Bert (23) e
applicarlo al settore dell'assistenza. Rifiutare i ruoli imposti dalla società
e creare gruppi di operatori sociali (assistenti
sociali, educatori, personale comunque inserito nelle istituzioni) e assistiti
(anziani, handicappati, ecc.), in cui la situazione dell'assistito venga discussa
e interpretata non nella maniera paternalistica e tradizionale, ma nelle
dimensioni sopraindicate. Coinvolgere poi strati sempre più ampi di cittadini,
per consentire fa formazione di una coscienza politica del problema. Ma condizione
molto importante, perché si possa conseguire un reale progresso
è che le confederazioni sindacali diano finalmente al problema il rilievo che
merita e lo propongano come oggetto delle loro lotte (24).
Il contributo della
magistratura
Il giudice può incidere in questo
processo se rifiuta il ruolo, che il potere gli assegna, di notaio
dell'emarginazione, di organo addetto a rendere
lecita l'esclusione in istituzioni totali degli emarginati. Solo mettendosi al
servizio degli sfruttati e ponendo in crisi l'attuale realtà assistenziale, il
giudice può contribuire a favorirne il superamento; solo rompendo la spirale
che porta all'istituzione totale e impedendone il funzionamento, può svolgere
un ruolo utile alla collettività.
Il giudice dei minori può incidere
su questa realtà se, anziché limitarsi a rivolgere l'attenzione ai genitori ed
alla loro condotta, si occuperà anche delle strutture emarginanti (come hanno
già fatto alcuni tribunali minorili (25). Può incidere se, partendo dal
principio acquisito che il minore è titolare del diritto soggettivo all'educazione,
opera in modo che tale diritto non resti una pura astrazione, rendendolo
concretamente azionabile non soltanto nei confronti del titolare dei
corrispettivi doveri, ma anche di chi è dalla legge investito
in via suppletiva (26). Ciò equivale a mettere in crisi l'attuale impostazione
dei rapporti tra potere giudiziario e amministrativo nell'interpretazione
tradizionale data agli artt. 4 e 5
della legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
Si tratta, al fondo, di un discorso
di emancipazione del proletariato, nel quale il giudice non può essere
protagonista, ma può essere coinvolto solo se accetta di mettere in
discussione il suo ruolo, la sua collocazione di
classe e, al limite, la sua stessa presenza, perché in un sistema in cui i
bisogni familiari di tutti siano realmente autogestiti
in maniera valida ed efficace, il giudice dovrebbe avere molto minore ragione
di oggi di essere, o forse non dovrebbe averne affatto. Ed è questo forse il
migliore auspicio che si possa fare per il futuro.
(1) Questo è un concetto
tuttora ben presente: infatti, nella relazione del bilancio dello stato del
1969, il ministero dell'interno afferma: «l'assistenza pubblica ai bisognosi...
racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le
attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto locale da elementi
passivi e parassitari, favorendo il dignitoso inserimento degli assistiti
nella vita produttiva della collettività» (da C.G.I.L.,
C.I.S.L., U.I.L.,
Esperienze di lavoro e di lotta sui problemi dell'assistenza, Torino, settembre
1971 - maggio 1972, quaderno sindacale).
(2) Il D.L.L. 2 marzo 1945 n. 172 istituisce in ogni comune un
elenco delle persone assistite o bisognose di assistenza perché si trovano in
stato di povertà o di bisogno, prevedendo la concessione di un libretto di
assistenza ai poveri. Il D.P.R. 19 agosto 1954 n. 968 riguarda il decentramento
dei servizi del ministero degli interni.
(3) R.M. Russo, La politica dell'assistenza, Guaraldi, Firenze, 1974, pag. 15.
(4) Dai 50.000 ai
60.000 enti, secondo il Russo, op. cit., pagg. 69-70.
(5) Cfr. per tutti Russo, op. cit. pag. 15, il quale riferisce che durante il regime fascista
l'INPS spese 4.470 milioni di lire per il finanziamento di opere pubbliche e
3.475 nelle opere di bonifica; mentre l'INAIL finanziò la guerra di Etiopia;
per l'epoca successiva, lo stesso Russo riferisce il caso dell'AAI, che ha
posseduto
Su questo argomento di particolare interesse è: Lattes-Tonizzo, Istituti di assistenza e dati elettorali in
Prospettive assistenziali n. 23,
luglio-settembre 1973, pag. 5 e segg.
(6) La relazione di
tale indagine verrà pubblicata in Magistratura Democratica, n. 6, 1975.
(7) Così, per l'interpretazione
dell'art. 333 cod. civ. In proposito, vedi Trib. Min. Perugia 14-6-1974, citato più estesamente
alla nota 25.
(8) Cfr. Cappelli-Cividali, Aspetti storico-politici della formazione dei magistrati minorili
italiani, in Esperienze di Rieducazione,
anno XXI, fasc. 3°, maggio-giugno 1974, pagg. 155-156.
(9) Cfr. Magistrati
scomodi, quaderni di Magistratura Democratica/I, Dedalo,
Bari, 1974.
(10) I magistrati
minorili non hanno una propria rivista, ma esprimono abitualmente il loro
pensiero su Esperienze di Rieducazione, rivista edita dal ministero di grazia
e giustizia. I collegamenti dei magistrati minorili con il ministero (specie
con l'ufficio IV, il cui dirigente è stato quasi costantemente il direttore
responsabile della rivista) sono sempre stati stretti, anche se di recente
l'intensità dei rapporti si è andata attenuando: probabilmente, tra i
magistrati italiani, essi (globalmente considerati) sono i più vicini al
ministero. Ciò è in parte da attribuirsi alla dipendenza economica diretta
degli uffici giudiziari minorili dal ministero e dalla necessità di coordinare
la loro attività con quella dei centri di rieducazione, organismi decentrati
del ministero.
(11) Da ultimi, quelli
presentati al IX congresso dell'Association Internationale des magistrats de la jeunesse (La giustizia
minorile nel mondo che cambia), Oxford, 15-20 luglio 1974 ed al convegno di
Abano Terme 24-26 gennaio 1975 (Per una politica regionale dei servizi sociali
a tutela dei minori).
(12) Così, Gividali, Necessità
di un giudice nuovo, in Atti del convegno «Prospettive
per una concreta realizzazione del tribunale della famiglia», 3-4 maggio 1969, Galeati, Imola, 1970 pagg. 25-27.
(13) Così Meucci, Le risposte
del giudice minorile alle istanze e ai bisogni dei giovani d'oggi, in
Esperienze di Rieducazione, XIX, Fasc. 4°,
luglio-agosto 1972 (estratto), pag. 10.
(14) Cocuzza, La giustizia minorile nell'attuale
impostazione costituzionale, in Esperienze di Rieducazione, XXI, fasc. 3°,
maggio-giugno 1974, pag. 183.
(15) Cocuzza, loc. cit., pag. 178.
(16) Cocuzza, loc. cit., pag. 186.
(17) Meucci, I figli non
sono nostri, Vallecchi, Firenze, 1974, pag. 50.
(18) Così Meucci, I figli
cit. pag. 143; nello stesso senso anche Rodotà,
Leggi nuove e vecchi costumi su
Panorama n. 488 del 25-8-1975.
(19) Così, Rodotà, loc. cit..
(20) Su questo punto
più diffusamente cfr. Adozione speciale in pericolo, in
Magistratura Democratica anno III, n. I (1975), pag. 15 e seg.
(21) Così Meucci, I figli cit., pag. 143.
(22) Consiglio
superiore della magistratura, Società Italiana e Tutela dei cittadini;
relazione annuale sullo stato della giustizia, 1971, pagg. 414-415.
(23) Cfr. Bert, Il medico immaginario ed il
malato per forza, Feltrinelli, Milano, 1974.
(24) Significative
conferme di tale importanza sono in due recenti episodi: quello dell’istituto
«Quarto di Palo» di Andria (cfr. Magistratura Democratica 1975, n. 2,
pag. 20) e quello dell'ospedale psichiatrico di Lecce (la cui vicenda è stata
dettagliatamente riferita dal periodico leccese
«La tribuna del Salento»
gennaio-luglio 1975). In entrambi i casi, la presenza delle
organizzazioni sindacali ha consentito di condurre una lotta vigorosa, che
altrimenti sarebbe stata impossibile.
(25) In tal senso,
vedi: Trib. Min. Bologna 23
maggio 1972; Trib. Min. Bari 12 luglio 1973 e 14 novembre 1974. Considerazioni interessanti in proposito sono in Trib. Min. Perugia
14-6-
Riguardo alle
decisioni citate, è da rilevare che esse, pur muovendosi nella stessa direzione,
hanno ricevuto accoglienze diverse. In particolare,
quella del 12 luglio 1973 del Trib. Min. Bari, ignorata da Esperienze di Rieducazione, è stata
vivacemente criticata da Prospettive assistenziali (n. 24, ottobre-dicembre 1973 pag. 3,
editoriale), che l'ha additata ad esempio di giurisdizionalizzazione
dell'assistenza. Ben diversa accoglienza aveva ricevuto, invece, la decisione 22-5-1972 del Trib. Min. di Bologna da parte della
stessa rivista (Prospettive assistenziali,
n. 19, luglio-settembre 1972 pag. 39 e seg.), che le aveva dedicato anche la
copertina.
(23) Cfr. Bert, Il medico immaginario ed il
malato per forza, Feltrinelli, Milano, 1974.
(24) Significative
conferme di tale importanza sono in due recenti episodi: quello dell’istituto
«Quarto di Palo» di Andria (cfr. Magistratura Democratica 1975, n. 2,
pag. 20) e quello dell'ospedale psichiatrico di Lecce (la cui vicenda è stata
dettagliatamente riferita dal periodico leccese
«La tribuna del Salento»
gennaio-luglio 1975). In entrambi i casi, la presenza delle
organizzazioni sindacali ha consentito di condurre una lotta vigorosa, che
altrimenti sarebbe stata impossibile.
(25) In tal senso,
vedi: Trib. Min. Bologna 23
maggio 1972; Trib. Min. Bari 12 luglio 1973 e 14 novembre 1974. Considerazioni interessanti in proposito sono in Trib. Min. Perugia
14-6-
Riguardo alle
decisioni citate, è da rilevare che esse, pur muovendosi nella stessa
direzione, hanno ricevuto accoglienze diverse. In
particolare, quella del 12 luglio 1973 del Trib. Min. Bari, ignorata da Esperienze di Rieducazione, è stata
vivacemente criticata da Prospettive assistenziali (n. 24, ottobre-dicembre 1973 pag. 3,
editoriale), che l'ha additata ad esempio di giurisdizionalizzazione
dell'assistenza. Ben diversa accoglienza aveva ricevuto, invece, la decisione 22-5-1972 del Trib. Min. di Bologna da parte della
stessa rivista (Prospettive assistenziali,
n. 19, luglio-settembre 1972 pag. 39 e seg.), che le aveva dedicato anche la
copertina.
(26) Tale è
l'orientamento giurisprudenziale costante del Tribunale per i Minorenni di
Bari: cfr. Trib. Min. Bari 16-11-1972 e 14-12-1972, che impegnavano
rispettivamente i Comuni di Ruvo di Puglia e di
Vieste a reperire idoneo alloggio a due nuclei familiari; Trib.
Min. Bari 18-5-1973, con cui si disponeva che l'ONMI
e
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