Prospettive assistenziali, n. 32, ottobre-dicembre 1975

 

 

LIBRI

 

 

T. BANDINI e U. GATTI, Delinquenza minorile - Analisi di un processo di stigmatizzazione e di esclusione, Giuffrè, Milano, 1974, pag. 343.

 

Gli autori attraverso una analisi rigorosa ed intelligente del fenomeno «delinquenza giovani­le» hanno voluto vanificare i molti luoghi comu­ni che caratterizzano il problema della delinquen­za, in quanto il fenomeno è più complesso e va affrontato superando l'emotività ed il pregiudizio.

L'analisi svolta è ispirata al concetto di visio­ne interdisciplinare delle questioni criminologi­che in cui l'orientamento clinico e quello socio­logico si fondono.

Il concetto di devianza viene analizzato sotto l'aspetto della sua relatività; infatti non si può esaminare solo il comportamento di un giovane senza legarlo al contesto nel quale questo com­portamento si verifica ed il significato che la società dà a questo comportamento. I costumi e le norme possono rendere deviante qualsiasi persona; ciò che è proibito in un posto ed in una determinata epoca può essere tollerato o addi­rittura valorizzato in altri posti ed in altre epoche.

La devianza e la delinquenza non sono qualco­sa di anomalo o casuale, ma una caratteristica della società al pari del conformismo. Ma non tutti gli individui arrivano al ruolo di deviante perché è la reazione sociale che da un lato defi­nisce chi è deviante, e dall'altro determina il rifiuto ed il disprezzo sociale; questo perché la reazione sociale è caratterizzata da rapporti di potere che la rendono selettiva.

Da una ricerca effettuata in USA da Emis nell'ambito del rapporto Katzembach, è venuto fuo­ri che su 2077 reati di ogni tipo rilevati median­te interviste a 10.000 famiglie rappresentative della popolazione, soltanto 1024 venivano denun­ciati alla polizia e di questi solo 120 venivano sottoposti a giudizi; infine soltanto 26 erano pu­niti in modo adeguato. L'azione discriminante era effettuata in primo luogo dalla polizia ed in secondo luogo dalla magistratura. Nel comples­so solo l'1% dei reati veniva punito e come tale risultava nelle statistiche ufficiali delle persone condannate.

Nell'analizzare il crimine in Italia emerge che ci sono notevoli differenze tra Nord e Sud, tra Regione e Regione. Tali differenze si rifanno a caratteristiche sociali e culturali delle varie re­gioni ed a fenomeni sociali quali l'industrializ­zazione e le migrazioni interne. In genere i mi­nori denunziati hanno una bassa scolarità ed ap­partengono a famiglie in disagiate condizioni economiche per cui vengono colpite maggior­mente dalla reazione sociale. D'altro canto l'e­sperienza vissuta nei primi giorni di vita ha una importanza fondamentale nello sviluppo succes­sivo della personalità e un alterato clima fami­liare favorisce lo sviluppo del figlio in senso an­tisociale.

È certo però che la famiglia non è in grado di costituire mediazioni in una società problemati­ca: urbanizzazione, migrazioni, disoccupazione ecc. I vecchi valori e le vecchie strutture sono stati ampiamente criticati per cui í consensi e le proibizioni non servono più all'educazione dei ragazzi avendo essi bisogno di convinzioni per cui ciò che si fa ha un significato.

La scuola socializza il bambino secondo un modello ben preciso, stimolando individualismo e competitività. La funzione selettiva della scuo­la ci fa comprendere come scarsa riuscita sco­lastica e disadattamento coincidano.

Se poi il ragazzo entra nel mondo lavorativo per necessità, viene a subire tali frustrazioni che lo rendono incapace a lavori qualificanti e lo tengono sempre ad un livello di scarsa remune­razione.

Gli autori fanno inoltre presente che la storia dei delinquenti è piena di ragazzi provenienti da lunghi periodi di istituzionalizzazione.

Tutti i problemi considerati: scuola-famiglia, urbanizzazione-mondo del lavoro non agiscono in modo casuale ma secondo una logica stretta­mente legata al sistema sociale.

Tutti questi fattori agendo contemporaneamen­te realizzano un processo di esclusione e di stigmatizzazione che coincide con il disadattamento, il quale ben presto si trasforma per la reazione sociale in atteggiamento antisociale. La conclu­sione è che la delinquenza non può essere stu­diata rifacendosi a caratteristiche biologiche perché essa è invece una chiara costruzione so­ciale definita secondo norme e valori che sono l'espressione di una determinata cultura ed una determinata struttura sociale.

Il delinquente, dice Hechman, è sempre l'e­spressione di ciò che una cultura (ogni cultura) contiene di aggressivo, di alienante e distrutti­vo. La delinquenza è sempre un risultato dei con­flitti sociali, dell'ingiustizia e dello sfruttamento.

«In una società in cui l'uomo viene misurato sulla base della ricchezza che riesce ad accu­mulare a spese degli altri, esisteranno sempre individui che tenteranno di procurarsi il denaro in forme sanzionate come illecite, e che, per un comportamento che in realtà li accomuna agli altri membri della società, vengono stigmatizza­ti come indesiderabili e pesantemente puniti».

Purtroppo in una società come la nostra sia­mo lontani dalla tolleranza e dal considerare il delinquente capace, nonostante tutto, di utiliz­zare le capacità autoterapeutiche che sicuramen­te possiede. Infatti attraverso l'analisi clinica dei delinquenti si osserva che ad un certo punto so­no insoddisfatti della vita che conducono e de­siderosi di cambiare stile di vita. A questo pun­to il delinquente potrebbe orientarsi verso un in­serimento sociale che avviene soprattutto attra­verso l'attività lavorativa. Ma la cosa diventa difficilissima, prima perché la società non fa credito ad ex carcerati, secondo in quanto il de­linquente presenta difficoltà soggettive di inse­rimento lavorativo perché privo di qualificazione e di qualunque esperienza nel settore. Un falli­mento in tal senso rappresenta la fine perché «rifiutare un lavoro ad un individuo significa privarlo di mezzi economici necessari al suo so­stentamento, ma anche impedirgli di considerar­si in qualche modo significativamente inserito nella società». Nella maggior parte dei casi l'im­possibilità di avere una vita normale o di conti­nuare una delinquenza ormai frustante porta gli individui verso altre zone di devianza; ospizio, ospedale psichiatrico ecc. e così il cerchio si chiude.

JOLE MEO

 

 

G. BRAIDI, B. FONTANESI, Se il barbone beve: cronache e documenti di una esperienza psi­chiatrica a Parma, Feltrinelli, 1975, pag. 112.

 

Queste cronache e documenti di una esperien­za psichiatrica a Parma, dimostrano che la bat­taglia contro i manicomi e la lotta contro l'ideo­logia psichiatrica della segregazione hanno por­tato ad una sempre più corretta formulazione del­le connessioni a livello del sociale (impegno quindi di costruire dei servizi sociali e sanitari nel territorio per curare e prevenire la malattia là dove nasce) e ad interventi che non rimanga­no nell'ambito della «falsa coscienza».

«Dal lavoro compiuto a Parma - dice l'intro­duzione - lavoro collettivo e spesso anonimo e silenzioso di operatori psichiatrici, amministra­tori, sindacalisti, studenti, cittadini, lavoratori, nasce questo libro, testimonianza di un impegno e contributo alla conoscenza di una realtà con­creta».

Eliminato lo steccato tra addetti e non addet­ti, fra tecnici ed incompetenti, tra medici, infer­mieri ed operatori sociali, i cittadini sono stati coinvolti nell'inserimento sociale dei lungode­genti dell'O.P., Operai, contadini, studenti hanno visto con i loro occhi gli effetti delle istituzioni segreganti, ne hanno stabilito i nessi con la so­cietà esterna, i modi di produzione, i modelli e l'insicurezza del vivere e si sono fatti carico del­le esigenze di uno sviluppo sociale nuovo, si so­no confrontati con le altre forze operanti nel ter­ritorio, con le amministrazioni locali. I documen­ti raccolti da operatori sociali e studenti, sottoli­neano l'ideologia psichiatrica della segregazio­ne, la discriminazione di classe dei reclusi nei manicomi, la loro provenienza dalle zone più po­vere, i rapporti di lavoro. Nasce una serie di mo­vimenti di lotta, che coinvolgendo personale e degenti obbligano la Provincia a favorire la dimissione di molti degenti dell'O.P. di Parma.

In un secondo tempo anche i laboratori protet­ti, che erano stati un tramite attraverso cui i de­genti trovavano la strada per la risoluzione del loro problema, entrano in crisi per lo scontro con la realtà e nascono nuove proposte. Nasce la ne­cessità di organizzare nel territorio centri socio­sanitari. Sono proposte commentate in appendice da documenti che non nascondono titubanze, ti­mori, speranze. Sono le storie di Anna, Maria, Luisa, Luciana, Eugenio, Innocenzo: uomini e don­ne deboli, riottosi, ribelli, che domandano che si tenga conto di una complessa pluralità di condi­zioni e di esperienze specifiche.

GIULIANA LATTES

 

 

V. GEORGE, L'affidamento familiare, L'Astrolabio, Roma, 1974, pag. 216, L. 4400.

 

L'Autore, assistente sociale e attualmente do­cente di scienze sociali presso l'Università di Nottingham, ha impostato e scritto un libro ti­picamente «inglese», cioè di quel filone delle scienze sociali che ha avuto negli anni '50 il massimo sviluppo appunto in Gran Bretagna e che si rifà alla «scuola statistica» (allora con­trapposta alla «scuola clinica»).

Già questa distinzione ci dice il principale li­mite del volume, cioè la pretesa di non staccar­si da quel criterio su cui si postulava dovesse fondarsi qualsiasi discorso che volesse essere rigorosamente scientifico: il fare riferimento a ricerche «affettive» in termini di «opinioni espresse» e il sottoporre le stesse ad analisi statistiche (calcolo della probabilità secondo la quale l'ipotesi o la conclusione potrebbe non es­sere «vera»).

Tale criterio ha successivamente mostrato i suoi precisi, importanti limiti; nondimeno Geor­ge nel 1970 vi si è mantenuto fedele e anche per coloro che ne hanno deciso la traduzione italiana questo limite non deve essere parso decisivo.

Coerentemente pertanto al suo assunto meto­dologico, l'Autore fonda il suo discorso sull'affi­damento familiare su una ricerca condotta nel 1968 in tre dipartimenti per l'infanzia in Gran Bretagna ed è volto ad esaminare il rapporto fra teoria e pratica nell'affidamento ad opera dei lo­cali servizi sociali. Questo scopo viene persegui­to focalizzando alcuni degli aspetti principali: ruolo dei genitori affidatari, ricerca e valutazione degli stessi, abbinamento affidatari-bambino, suc­cesso degli affidamenti. Inoltre i risultati sono messi a confronto con quelli di altri ricercatori (in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) e con le opinioni di qualche altro studioso dell'affidamen­to familiare.

Di fatto, tuttavia, la mancanza voluta di una impostazione più «clinica» rende da un lato inutilmente faticoso e d'altro lato scarsamente conclusivo il discorso. Il lettore è costretto a di­gerire pagine e pagine di tipo sostanzialmente descrittivo, manca un accostamento strutturale, cioè un tentativo di interpretazione che si inter­roghi più radicalmente circa le cause del feno­meno.

In opere di questo tipo il difetta non sta nel rigore con cui vengono elaborati i dati, ma nel modo con cui gli stessi sono stati raccolti e se­lezionati prima di sottoporli ad analisi statistica.

Resta nondimeno un aspetto secondo il quale l'opera è senz'altro utile: la grande mole di dati, osservazioni, collegamenti, correlazioni che ven­gono presentati; nondimeno costituiscono più oc­casioni per un arricchimento del bagaglio di co­noscenze dell'operatore già esperto che uno sgrossamento della materia per l'operatore ine­sperto (restano senz'altro più validi sotto questo profilo i due volumi sull'affidamento editi in Italia rispettivamente dalle AAI e da Armando).

Inoltre proprio il limite detto all'inizio di im­postazione metodologica porta con sé anche un pregio che non deve essere sottovalutato: infatti il volume è al riparo dal pericolo di affermazioni che provengano eccessivamente dalla fantasia degli autori, dalle «intuizioni», dal «buon sen­so» e che purtroppo sono ancora frequenti.

Resta comunque il fatto che ci si attendeva di più da un nuovo volume sull'affidamento: dicia­mo senz'altro che la sua utilità è meno evidente e meno importante di quanto non sia affermato nella presentazione di copertina che lo racco­manda calorosamente e specificamente a tutta una serie di operatori. Fra un preteso «rigore scientifico» che di fatto lascia in second'ordine un approfondimento ulteriore e un tentativo di strutturazione unitaria degli aspetti clinici e il discorso che sovente succede ancora di incon­trare sull'argomento in termini istintivi e di «buon senso», manca ancora nel campo dell'affidamento familiare un'opera che rispettando la rigorosità di un'impostazione scientifica abban­doni la descrizione prevalentemente fenomeno­logica.

Ciò a parte, resta sempre utile l'esperienza straniera soprattutto dove, come in questo caso, essa ha prodotto serie ricerche per individuare certe «difficoltà» e resistenze di carattere cul­turale che l'affidamento familiare può incontrare. Naturalmente ne resta fuori un discorso politi­co che il libro accenna solo nella conclusione e che comunque non può essere ugualmente pre­figurato per l'Italia dove cade sotto il profilo ben più ampio della riforma generale dell'assistenza, con particolare riguardo all'unità locale dei ser­vizi e alle sue competenze territoriali.

Non si possono infatti affrontare i temi con­nessi alle tecniche d'intervento, senza che una garanzia sia offerta dall'esistenza di servizi so­ciali di base e senza aprire il problema del con­fronto con tutte le forze sociali esistenti nel ter­ritorio. Si tratta perciò di avvalersi di queste esperienze e di utilizzarle poi in senso politico.

GIUSEPPE ANDREIS

 

 

ARETINO 75, Lo stile del professore, SugarCo Edizioni, Milano, 1973, pag. 180, L. 2000.

 

«La presenza di uomini non istruiti, non vo­lenterosi, non soddisfatti e che dall'andamento spontaneo della società non saranno trasformati in soddisfatti e in istruiti, e in ogni caso nessu­no potrà costringere a diventar benefici o ra­zionali contro la loro volontà, costringe la socie­tà a predisporre un piano di istruzione, di corre­zione e di surrogazione anche in materia eco­nomica. E ciò per garantire la attuazione di una economia del benessere e per svolgere una po­litica del benvivere. I cristiani sostengono che questa attività di surrogazione e di correzione è in parte dovuta al persistere delle conseguenze del peccato originale».

È stata questa politica del benvivere che ci ha risolti a consigliare ai nostri lettori questo libro che indaga negli archivi degli scritti di Amintore Fanfani. Non per portare altra acqua al mulino della fanfanologia; già troppo si é scritto e det­to così da contribuire persino in modo eccessi­vo a questo culto della personalità alla rovescia che è nata attorno a questo personaggio. Voglia­mo invece cercare di capire quale formazione in­tellettuale, quale scuola abbia favorito in lui que­sta visione medioevale della subordinazione del­la politica e dell'economia alla morale cattolica. Fatta la sua milizia fra l'Azione cattolica, i boy­-scouts e la San Vincenzo lo ritroviamo in quel gruppo dell'Università Cattolica che attorno a Padre Gemelli collaborò apertamente col fasci­smo.

Qui si ispirò per il suo corporativismo, qui si batté per restaurare la società tomistica. Per­ciò di questo libro tralasciamo la parte che rac­conta l'irresistibile ascesa del personaggio dal 1937 ad oggi per arrivare a ciò che ci interessa: i suoi scritti sull'economia (Morcelliana Editri­ce Brescia), premessa per una riforma economi­ca-cristiana.

«Per risolvere tutti questi problemi - tutt'al­tro che indifferenti alla stessa efficienza dello sforzo economico per lo stato d'animo che pos­sono determinare - il produttore o l'economista o il politico han bisogno del moralista». Da un severo moralismo iniziale, attraverso un ruolo stabilizzante dell'assetto capitalista la carità ver­so il povero e lo sfruttato diventa, per taluni esponenti di questa strategia ecclesiastica mo­derata, copertura contro l'emancipazione cultu­rale e umana degli sfruttati. Questo pensiero sa­rà meglio sviluppato dal nostro nei «Colloqui sui poveri» (pubblicato nel 1942, Soc. Ed. Vita e pen­siero, Milano e che verrà ristampato sino al 1961) dove si insiste sul carattere permanente ed insopprimibile della miseria e della povertà e del vantaggio per la società della divisione tra ricchi e poveri. Afferma: «Per quanti aderiscono ad una concezione cristiana della vita il proble­ma della miseria aumenta di gravità, perché ai loro occhi esso appare permanente. Infatti i cri­stiani non possono credere alla possibilità di eli­minare la miseria; essa è un aspetto del dolore e, come questo, accompagna l'uomo dal paradi­so terrestre e lo accompagnerà fino al giudizio universale». E ancora: «La povertà è una condi­zione di vita, una vocazione temporanea o per­manente. Di questo l'uomo deve convincersi. Il povero che se ne convince è libero dal peso del­la povertà. Il ricco che se ne persuade fa di tutto per assistere il povero nella lotta che egli conduce per superare le tentazioni, le prove della sua vocazione e così cogliere la palma della bea­titudine». C'è infatti un vantaggio nel restar po­vero: «permane nello stato di grazia; preserva se stesso dal peccato: è oggetto della grande promessa di continue misteriose comparizioni di Cristo, sotto le spoglie del povero».

Ma purtroppo i poveri si ribellano, non voglio­no più restar poveri. Che cosa fare? Il professo­re risponde: «L'abitudine di non cercare il ter­mine di paragone entro la propria classe ma di cercarlo nell'umanità, ha cambiato le aspirazioni umane, ha esteso le idee di uguaglianza, ma ha anche aumentato il numero dei poveri, dal mo­mento che la distribuzione dei beni non ha pro­gredito tanto quanto le teorie ugualitarie». Inu­tile quindi una politica di riforme, inutile un'ana­lisi delle cause della miseria poiché unica sarà sempre la lezione finale: sotto specie di impera­tivo morale saranno beneficenza e moralità lo strumento pratico di salvaguardia contro crisi, disoccupazione e miseria, così che ancorando la normativa delle azioni umane all'eternità cele­ste si consegneranno inermi gli sfruttati agli sfruttatori.

Consigliamo dopo questa lettura un ripensa­mento, poiché, come suggerisce lo studioso inglese di sociologia Barrington Moore (1): «è forse una buona regola di lavoro esser sospetto­si di quei leader intellettuali e politici che par­lano soprattutto di virtù morali: c'è il pericolo che molti poveri diavoli ne abbiano a riportare seri danni».

GIULIANA LATTES

 

 

ROGER GENTIS, Contro l'istituzione totale, Savel­li, Roma, 1974, pag. 89, L. 1000.

 

Con passione e anche con rabbia, Roger Gen­tis, noto psichiatra francese che dirige un servi­zio psichiatrico nella regione parigina, mostra l'istituzione del manicomio, vista dall'interno da un medico che, abbandonando il privilegio cultu­rale e sociale della «casta superiore dei medi­ci», cerca di fare un'indagine onesta socio-psico­logica della situazione degli internati in tali ospi­zi. Il fatto che si tratti di istituti francesi sotto­linea vieppiù l'universalità della crisi di tali isti­tuzioni e l'identicità dei problemi che investono la cultura di tutti i paesi occidentali.

Molte sono le ragioni che impediscono l'elimi­nazione dei manicomi. Alla base ragioni di comodità: pochi sono i pazzi pericolosi. Gli amma­lati sono generalmente piuttosto apatici o de­pressi; ma il buon borghese della civiltà consu­mista si oppone al manicomio aperto per evita­re a sé e ai suoi figli la vista del loro comporta­mento non convenzionale. Sebbene improduttivi, gli internati producono lavoro per gli altri: «si tengono in manicomio per non ridurre alla disoc­cupazione migliaia di lavoratori, se no si potreb­be anche trovare una ragione umanitaria per sop­primerli». Quello che è grave «è il rinchiudere i ritardati gravi che fino a poco tempo fa stavano ancora in famiglia e in mezzo a gente senza par­ticolari problemi, e i vecchi diventati scomodi».

Entrato nella macchina della psichiatria e del manicomio è difficile uscirne. Il malato rimane «incastrato»; ogni suo atto è filtrato da un'os­servazione che libera solo i tratti del comporta­mento che hanno significato di «sintomi» con perdita della personalità e della dignità d'uomo e regressione del soggetto già di per se stesso depresso. «Non vi può più essere alcun dubbio oggi, per chi tenga gli occhi aperti, che quegli individui che sono chiamati psicotici cronici, e che popolano i manicomi, è il manicomio stesso che li ha fatti tali e la società di cui esso è stru­mento». Si ignora quello che il ricoverato dice, non ha cittadinanza in questo mondo, «lo fanno diventare malato cronico che marcisce in una specie di prigione per il resto dei suoi giorni». Il cronico è un amministrato ideale di cui non si sente parlare, un numero nella contabilità. La vacca da latte dell'ospedale... «Il manicomio ha provveduto da solo, si è nutrito del suo stesso prodotto...».

Parola chiave del manicomio è «il comporta­mento» che è in rapporto a quello che si attende o si pretende; la persona non esiste più, esistono i sintomi, il delirio, presi in studio dallo psichia­tra. Ma «la sincerità del malato, la libertà di pa­rola che rappresentano la condizione assoluta della cura, sono messe a dura prova dall'istitu­zione». Quando finalmente un malato ha un rap­porto personale con lo psichiatra difficilmente può rompere le regole dell'ospedale per non aver storie con il personale da cui dipende. Se è cro­nico non vuole uscire dalla routine alla quale è abituato: il depresso è spaventato dal cambio. «I valori definiti, la gerarchia, i regolamenti», l'ospedale vive su questo, guai a spezzare l'abi­tudine; ogni cambiamento è per il malato minac­cia, angoscia. Così si sottomette alla piccola ma­fia interna dove ogni inserviente ha il suo picco­lo centro di potere riducendo il suo mondo alla meschina, misera vita del manicomio; e lo psi­chiatra attesta, classifica, ma non guarisce o cu­ra. Il medico sta nel suo olimpo senza una cono­scenza reale non solo del malato, ma dell'am­biente e anche i sociologhi immessi nell'ospe­dale difficilmente lo penetrano. Dalla scuola ele­mentare, che dovrebbe essere uno strumento de­mocratico, si insegna a ciascuno a stare al suo posto; in manicomio è data ai medici la concet­tualizzazione e la verbalizzazione della psichia­tria e agli infermieri la pratica che il medico «codifica dal fondo del suo ufficio» senza reale pos­sibilità di scambio di esperienze.

Ma dopo? Manicomi aperti, reparti in ospedali generici, malati aiutati in famiglia? C'è bisogno ancora di qualche altra cosa e di mettersi in tan­ti, in tutti perché non vengano ripetuti in piccolo o in forme diverse gli stessi errori. Cambiare la vita, riformare la società? Ci si sente smarriti davanti a questa impresa. La facile soluzione dell'internamento è una maniera dei «sani» di sfug­gire alle responsabilità, alle preoccupazioni as­sillanti. Una maniera di mettersi il cuore in pa­ce, «che almeno gli altri possano vivere tran­quilli». Il messaggio di questo libro, spesso ama­ro, è che solo una radicale e faticosa opera di cambiamento di valori e atteggiamenti sociali e umani, solo «un'azione politica» tendente a crea­re una coscienza pubblica del problema fin dalle scuole elementari, possono sradicare ignoranza e pregiudizi e aiutare a trovare soluzioni più umane ed efficaci per curare ed aiutare questi malati.

MIRIAM MONTALENTI

 

 

 

(1) da «Gli italiani nella Storia d'Italia», Einaudi: B. MOORE, Social Origins of Dictatorship and Democracy, 1966.

 

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